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martedì 15 agosto 2023

DALLE PAROLE DI GESÙ CRISTO A QUELLE DI PAULINE HARMANGE

di DANILO CARUSO
 
I Vangeli di Matteo e Marco contengono i celebri brani in cui Gesù comanda ai suoi mal disposti discepoli di lasciare che dei bambini gli andassero vicino, ammonendo i primi sul fatto che il regno celeste divino è riservato a soggetti paragonabili ai secondi. Li ho esaminati negli originali in greco antico, e mi sono reso conto che il discorso possiede un significato diverso da quello che uno sprovveduto ingenuo lettore della traduzione dà. Chi non ha svolto il lavoro d’analisi che di seguito esporrò viene indotto a credere che il Messia si stia riferendo alla semplicità, alla cordialità, alla benevola disposizione dei fanciulli nei confronti degli altri e del mondo. Leggendo una qualsiasi traduzione non ci vuole niente a uscire fuori del binario concettuale corretto: “bambini”, “fanciulli” sono termini indicanti categorie umane positive, degne del massimo ossequio. Non che il termine greco corrispondente nei testi evangelici in questione meriti minore rispetto, tutt’altro. La pietra d’inciampo è di natura semantica: «παιδία», al singolare το παιδίον, è una parola molto precisa e indica i bambini esclusivamente maschietti. La radice del termine è la stessa di πέος, membrum virile. Quando Gesù ci dice che chi entrerà nel celeste regno divino è τοιοῦτος a un παιδίον ci sta esponendo un ragionamento misogino: il genere-qualità da possedere è la forma biologica del vir. E la cosa non deve turbare: a conoscere l’antropologia biblica, specialmente quella veterotestamentaria legata al discorso della originaria adamitica scissione androginica1, comprendiamo benissimo come le donne rappresentino in quell’ottica intollerabile il Male. Posssono essere recuperate, ontologicamente, soltanto in occasione di prospettive di riunificazione androginica: una è il congresso carnale procreativo in cui si ricompone «la carne primigenia»; l’altra è la vita dei risorti in Cielo col riassorbimento integrale del femminile nel maschile (ciò vuol dire essere-come-angeli-nei-cieli). Quanto ci ha chiarito il Messia nei brani evidenziati è che coloro, fra gli esseri umani, muniti di membrum virile salveranno il mondo. Alle donne è strutturalmente impedito un concorso in posizione di vertice dirigenziale (la figura della Madonna rappresenta una desessualizzata incubatrice): infatti gli apostoli erano tutti uomini e il sacerdozio, secondo la consequenziale posizione misogina tomista2, dovrebbe essere esclusivamente maschile, riservato al genere dei παιδία. La riprova che Gesù abbia formulato un ragionamento discriminatorio antifemminista e che fra i fanciulli che lo avvicinarono non c’era nemmeno una bambina la ritroviamo sempre in sede semantica. Se il Messia non avesse voluto porre l’accento sulla forma biologica (di non secondario peso, come detto e visto, nelle faccende teologiche della tradizione giudaicocristiana) avrebbe usato al posto di παιδίον l’altro termine concettualmente più aperto παῖς. Questo infatti grazie all’uso degli articoli ὁ ed ἡ indica la variabile forma di genere: fanciullo, fanciulla, ragazzo, ragazza. Nel caso in cui Gesù avesse adoperato quest’altra parola per riferirsi agli astanti bambini avrei potuto reputare possibile che stesse facendo un altro tipo di discorso imperniato su parametri spirituali di semplicità e riguardanti entrambi i generi biologici e grammaticali. Il termine neutro παιδίον è collegato all’idea di παιδεία (educazione). L’insegnamento e l’apprendimento nel mondo grecoromano e in quello ebraico, intesi nel loro là predominante senso (assurdamente ritenuto più serio e più nobile), costituiscono robe da soli maschi. Il Cristianesimo porterà a nozze tutte le misoginie esistenti dentro l’Impero di Roma3, a dispetto dell’embrionale femminismo platonico e dell’altra posizione progressista epicurea4. Rimanendo al filo dell’argomentazione principale, la quale ho basato sui dettagli semantici, possiamo concludere che il Messia non ha detto ai suoi discepoli di fargli venire incontro bambini e bambine dal candore esemplare (non che tale sfumatura a posteriori sia ingiusta nell’apposizione) ma ha affermato che gradiva molto la vicinanza degli “educandi”: tale voltura ci rende meglio παιδία. Lui non sta evocando una categoria di spirituale fanciullesca semplicità, sta indicando una categoria maschile pedagogica. La supremazia maschile riecheggiata nella teologia di Tommaso d’Aquino non è peregrina. La misoginia del Cristianesimo ha rappresentato una delle pagine più orribili della storia occidentale, gli effetti della cui martellante un tempo propaganda, a mio modesto giudizio, sono rimasti sedimentati anonimi nell’inconscio maschile. La facilità degli odierni tragici femminicidi, senza che ci sia una barriera psichica a un’azione di uccisione, secondo me, deriva da un solco avito, proseguito in qualche modo silente e senza coscienza precisa di sé. È stata la religione cristiana a dimostrare in maniera così incisiva ed evidente che si possono maltrattare, torturare e uccidere le donne in guisa sadica al punto tale che scomparsa oramai dalla fine del XVIII secolo la caccia alle streghe tuttora quell’irrazionale nefando deprecabile slancio, così ben inculcato, è rimasto nell’animo maschile di quei soggetti di più bassa maturità psichica (quelli che io chiamo “freudiani”, opposti ai più evoluti “junghiani”: faccio un discorso di grado libidico, non di discepolanza agli studiosi da cui ho tratte le denominazioni5). In parole povere è sopravvissuta una forma mentis al di fuori della coscienza della fonte: i criminali rei di femminicidio seguono una suggestione dell’Ombra junghiana senza sapere più una pseudogiustificazione ideologica, sono psicopatici vittime di un archetipo negativo, l’archetipo dell’inquisitore, in senso lato ante litteram, a partire dall’epoca del femminicidio di Ipazia di Alessandria, il modello di nevrotico fortemente disturbato uccisore, torturatore e stalker di donne. Non mi sono testé speso in questi ragionamenti qui per ludo divagatorio, ho voluto creare anzi le premesse in vista di un’ulteriore trattazione fondata sugli aspetti semantici. Sono rimasto non poco sconcertato nel corso del mio esame sulle parole del Messia che qua ho sottoposto ad analisi allorché ho notato che παιδίον non è correlato in virtù della sua radice solo a παιδεία, ma anche ad altri inquietanti termini: πῦρ (fuoco), πυρά/ή (pira). I concetti di purificazione, di riconduzione alla norma/normalità, di formazione (educativa) costruiscono un ponte tra questi due e i παιδία di Gesù. I cristiani sono gente su cui scende il “fuoco” dello Spirito Santo ad animarli, “infuocati” divengono purificatori (a loro volta) a quanto pare grazie sempre al “fuoco”. Il rogo è stato tipico dei cristiani: streghe, omosessuali, Giudei, intellettuali dissidenti sono finiti sopra una “pira” a opera degli educandi-del-Messia diventati adulti. La domanda è: quanto c’è di potenzialmente e di profondamente inconscio nelle parole di Gesù sui bambini? Io parlo da junghiano, cogliendo a posteriori un contenuto di profondità che storicamente si è concretizzato. Constato che i roghi cristiani erano inseriti nel DNA concettuale originario di questa religione. Tale pena di morte per gli omosessuali nell’Impero romano cristianizzato riale alla fine del IV secolo. Ricordo altresì che il cadavere di Ipazia nel 415 uccisa da estremisti cristiani fu poi bruciato. Verrà poi tutto il resto messo in pratica con logica nazista. È possibile che i principi ideologici del Cristianesimo contenessero pericolosissime radici germogliate poi nell’inconscio di soggetti deformati da un’educazione fortemente deviante? Io rilevo di sì a più livelli analitici (storico, concettuale, psicanalitico). Simili educandi/educati nelle parole del Messia, parole in greco antico ritaglianti un contorno inconfondibile, mi rammentano i pompieri di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury6: i cristiani delle origini bruciavano pure i libri con uno slancio non dissimile da quello mostrato dai nazisti. I cristiani hanno bruciato una più libera Civiltà occidentale per rimpiazzarla con una società nevrotica lacerata da irrazionali scontri teologici. Dai παιδία di Gesù sono discesi gli illiberali costruttori di un mondo distopico7, perché sembra che fossero concettualmente programmati a ciò, a edificare un mondo dove ὁ παῖς doveva fagocitare ἡ παῖς anche al costo di disintegrarla letteralmente (bruciarla) in una sorta di sadico (figurato cannibalesco) rito8. Questi due termini greci (in verità uno, differenziato e polarizzato dall’articolo) appartengono alla stessa famiglia di radice di quelli riportati sopra. La dicotomia creata dagli articoli, la quale esploderà nevroticamente nella teologia cristiana (di impronta stoica9) è purificatore/purificata (inquisitore/strega, uno-che-porta-il fuoco/una-che-viene-bruciata). V’era una bomba nevrotica a orologeria nella testa dei cristiani, ed è scoppiata peraltro velocemente e durati molto a lungo sono i suoi effetti. Tanto che, a mio modestissimo modo di valutare, il binario suddetto in una malaugurata maniera è proseguito per inerzia archetipica sino a oggi nonostante si sia persa la visione coscienziale individuale della stazione di partenza. Nel 2020 è stato pubblicato in Francia un libro intitolato “Moi les hommes, je le déteste” opera di Pauline Harmange, la quale ha fatto parlare di sé per via di questa sorta di manifesto misandrico. L’ho letto con cura, ho compreso e condiviso le ragioni dell’autrice. Ci sono stati dei lettori che invece sono rimasti scandalizzati e urtati da quell’esposizione di idee, che io ritengo lecita. Nella prima parte di questo mio studio ho affrontato il tema della misoginia nella cultura occidentale individuandone le radici della manifestazione attuale di oggigiorno nel sistema ideologico cristiano. Leggere questo libro della Harmange senza possedere una sufficiente nitida obiettiva visione della storia dell’Occidente cristianizzato non conduce a un giudizio finale ponderato. Non sto dicendo che bisogna coltivare una forma di odio antimaschilista, sto affermando che tale posizione della scrittrice francese non è infondata, nel senso che non spunta dal nulla, da deliranti fantasie. Nutrire rancore nei riguardi dell’universo maschile occidentale si rivela naturale, si mostra spontaneo, meccanicamente consequenziale. Chi studia (bene) conosce come le donne siano state discriminate, perseguitate, torturate, uccise con spirito più o meno sadico per troppi secoli. Se una di loro adesso, nella veste di intellettuale, colpevolizza gli uomini della società cristianizzata, rei di gravissima misoginia e di aver frenato il progresso paritario per eccessivo tempo, ci sta. L’autrice francese stessa è però la prima a puntualizzare che si tratta di misandria non violenta: la stessa cosa non si può dire della misoginia cristiana e post-cristiana (questa seconda non porta il disprezzo teologico, porta questo disprezzo, come ho spiegato, nella forma laicizzata intramondana smemorata; chiamiamola altresì una forma di potenza nietzschiana). Chi è rimasto disorientato di fronte allo spirito di “Moi les hommes, je le déteste” pensi alla poesia di Primo Levi “Se questo è un uomo” e voglia comprendere, in virtù di un pertinente paragone, un animo mortalmente ferito. Il libro della scrittrice francese denuncia secoli e secoli di sadica misoginia. Capirlo, in verità, per il lettore impreparato e superficiale non è facile: Pauline Harmange non ci parla direttamente del passato, ci parla dei suoi frutti nel presente, ci paga gli interessi e non ci offre il capitale. Il lettore a cui questo manca non comprenderà l’intero e la verità. Questo libro mi è piaciuto molto: non istiga all’odio, sollecita alla riflessione. Ed è chiaro che, secondo il mio modestissimo valutare, nelle teste in cui non ci sono una gamma di idee pertinenti alla misurazione e una parallela abilità di metro dialettico, la riflessione profonda (femminista) auspicata, nella mia impressione, dall’autrice francese non potrà trovare casa. Ci sono dei dettagli in tale testo che mi hanno colpito: il primo è l’esergo plathiano; io ho dedicato due miei saggi a quella grandissima poetessa e scrittrice che è stata Sylvia Plath10. Mi sono sentito subito in sintonia ideale con Pauline Harmange. È costei a rammentarci che il varo di un manifesto misandrico non sarebbe potuto accadere al di là della precedente ampia e nefasta misoginia. Tale opera contiene una considerevole profondità psicanalitica, la quale la rende una costruzione filosofica di sprone non all’odio. La misandria rappresenta una base di partenza nel ragionamento, non il punto di approdo. Nel mezzo sta l’auspicio di cambiamento: gli uomini possono liberarsi dalle suggestioni maschiliste e dalle orrende edificazioni concettuali in merito? Esiste una pesante non trascurabile letteratura misogina dai Padri della Chiesa in poi (la quale si riallaccia alla Bibbia) nei cui confronti “Moi les hommes, je le déteste” costituisce un’inezia. Pauline Harmange ha scritto, secondo me, cose vere; la sua analisi prosegue idealmente quella della mia prima parte qui. La forma mentis stoico-cristiana agisce tutt’oggi ancora su vasta scala: c’è un polo maschile che predomina praticamente su tutto e un altro femminile il quale si rivela passivo. Le politiche sulle pari opportunità sono sì giuste, e sono meglio di niente, però a me sembrano tirate per i capelli, figlie di una da me interpretata quale necessità di facciata. La sostanza mi sembra quella evidenziata dall’autrice francese, dove per giunta primeggiano (a dir di lei che condivido) uomini senza alte qualità. Nel mondo odierno, costei osserva pure che i responsabili di violenza sulle donne sono quasi sempre di sesso maschile, e che quando sono le donne a essere autrici di crimini a danno del sesso opposto tra le prime una fetta è stata in precedenza vittima di violenze subite da uomini. Pauline Harmange rammenta il forte squilibrio storico nel rapporto sociale fra i due sessi tiranneggiato dalla comunità maschile (dai teorici espliciti della misoginia ai conniventi verso le banalità del male). Un femminile sentimento di rancore può produrre la misandria, risultato di una plurisecolare repressione. C’è un brano in questa pubblicazione della scrittrice francese il quale ho giudicato molto rilevante in relazione alle mie idee junghiane circa la formazione nevrotica del maschilismo misogino cristiano. Prima dell’uscita di “Moi les hommes, je le déteste” ho spiegato11 che l’asse delle facoltà razionali (“ragione” e “sentimento”), presentato nella psicologia analitica di Jung, è stato spezzato nel Cristianesimo dove il “maschile” viene associato alla “razionalità” stricto sensu e indebitamente contrapposto al “sentimentale” a sua volta associato al “femminile”. Cosicché in seguito a simile arrocco nevrotico il maschile-razionale è stato proclamato il polo del Bene, e il femminile-sentimentale (formato da potenziali streghe, porte dell’inferno) il polo del Male. Pauline Harmange ha intuito questa radice profonda dicotomica: ne ha parlato in salsa contemporanea. Allorché ella dice che se nel corso di uno scontro di coppia l’uomo si appella alla ragione contro l’emotività femminile (magari disarticolata) non fa altro che riproporre la cliché dello schema nevrotico maschile da me proposto. L’analogia formale è perfetta. In più l’autrice francese, che si è unicamente concentrata sulla contemporaneità, nella sua opera ha chiarito il modo in cui la pressione emotiva familiare e/o di coppia ricada quasi esclusivamente sulle donne, creando così un sovraccarico psichico, mentre gli uomini generalmente si smarchino in direzione di un disimpegno emotivo essendo gli pseudocampioni della ragionevolezza (dal loro comune medio punto di vista). Tale modello possiede un retaggio hegeliano, giacché per Hegel in relazione alla casa e alla famiglia nella coppia il femminile è centripeto e il maschile è centrifugo: la razionalità hegeliana conduce fuori-di-casa. Possiamo notare come certi schemi repressivi misogini siano stati ben teorizzati, sino a perdurare ai nostri tempi. Pauline Harmange ha trattato del presente obiettivamente, sta al suo lettore afferrare il senso corretto (pedagogico, filosofico, psicanalitico) di quelle parole, le quali non meritano di essere fraintese né squalificate.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive rinnovate”
 
1 Per approfondimenti vedasi nel mio saggio Considerazioni letterarie (2014) lo studio intitolato Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi.
 
2 A chi volesse approfondire indico una mia analisi dal titolo L’irrazionale misoginia tomista presente nella mia monografia Teologia analitica (2020).
 
3 Su tale tema un mio lavoro: I protopatristici Aristofane e Giovenale, nella mia pubblicazione Percorsi Critici (2020).
 
4 A proposito dell’epicureismo consiglio di leggere un mio scritto nella mia pubblicazione Analisi letterarie e filosofiche (2023): Riflessioni sopra il “De rerum natura” lucreziano.
 
5 Per approfondimenti indico nella mia opera Filosofie sadiche (2021) la sezione dal titolo L’irrazionalismo nevrotico di Kierkegaard.
 
6 A tale romanzo distopico ho dedicato una analisi: La caverna bradburiana dei libri prohibiti, nel mio saggio menzionato nella nota 3.
 
7 A questo riguardo reputo interessante segnalare una mia monografia: Il Medioevo futuro di George Orwell (2015).
 
8 Un approfondimento sul sadismo è possibile mediante un mio studio contenuto nella mia pubblicazione indicata nella nota 5: La tanatolatria di De Sade.
 
9 Ai rapporti tra Cristianesimo e stoicismo ho dedicato parte di una mia analisi intitolata Gesù stoico e dionisiaco presente nel mio saggio Partita a scacchi (2022) e un altro lavoro intitolato Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo all’interno della mia opera Prospettive rinnovate (2023).
 
10 Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016), Sulla poesia di Sylvia Plath (2016).
 
11 Ne ho parlato trattando di Pascal nella mia opera Letture critiche (2019) a pag. 11.