di DANILO CARUSO
I Vangeli di Matteo e Marco contengono i celebri brani in cui
Gesù comanda ai suoi mal disposti discepoli di lasciare che dei bambini gli
andassero vicino, ammonendo i primi sul fatto che il regno celeste divino è
riservato a soggetti paragonabili ai secondi. Li ho esaminati negli originali
in greco antico, e mi sono reso conto che il discorso possiede un significato
diverso da quello che uno sprovveduto ingenuo lettore della traduzione dà. Chi
non ha svolto il lavoro d’analisi che di seguito esporrò viene indotto a
credere che il Messia si stia riferendo alla semplicità, alla cordialità, alla
benevola disposizione dei fanciulli nei confronti degli altri e del mondo.
Leggendo una qualsiasi traduzione non ci vuole niente a uscire fuori del
binario concettuale corretto: “bambini”, “fanciulli” sono termini indicanti
categorie umane positive, degne del massimo ossequio. Non che il termine greco
corrispondente nei testi evangelici in questione meriti minore rispetto,
tutt’altro. La pietra d’inciampo è di natura semantica: «παιδία», al singolare
το παιδίον, è una parola molto precisa e indica i bambini esclusivamente
maschietti. La radice del termine è la stessa di πέος, membrum virile. Quando
Gesù ci dice che chi entrerà nel celeste regno divino è τοιοῦτος a un παιδίον
ci sta esponendo un ragionamento misogino: il genere-qualità da possedere è la
forma biologica del vir. E la cosa non deve turbare: a conoscere l’antropologia
biblica, specialmente quella veterotestamentaria legata al discorso della
originaria adamitica scissione androginica1, comprendiamo benissimo
come le donne rappresentino in quell’ottica intollerabile il Male. Posssono
essere recuperate, ontologicamente, soltanto in occasione di prospettive di
riunificazione androginica: una è il congresso carnale procreativo in cui si
ricompone «la carne primigenia»; l’altra è la vita dei risorti in Cielo col
riassorbimento integrale del femminile nel maschile (ciò vuol dire
essere-come-angeli-nei-cieli). Quanto ci ha chiarito il Messia nei brani
evidenziati è che coloro, fra gli esseri umani, muniti di membrum virile
salveranno il mondo. Alle donne è strutturalmente impedito un concorso in
posizione di vertice dirigenziale (la figura della Madonna rappresenta una
desessualizzata incubatrice): infatti gli apostoli erano tutti uomini e il
sacerdozio, secondo la consequenziale posizione misogina tomista2,
dovrebbe essere esclusivamente maschile, riservato al genere dei παιδία. La
riprova che Gesù abbia formulato un ragionamento discriminatorio antifemminista
e che fra i fanciulli che lo avvicinarono non c’era nemmeno una bambina la
ritroviamo sempre in sede semantica. Se il Messia non avesse voluto porre
l’accento sulla forma biologica (di non secondario peso, come detto e visto,
nelle faccende teologiche della tradizione giudaicocristiana) avrebbe usato al
posto di παιδίον l’altro termine concettualmente più aperto παῖς. Questo
infatti grazie all’uso degli articoli ὁ ed ἡ indica la variabile forma di
genere: fanciullo, fanciulla, ragazzo, ragazza. Nel caso in cui Gesù avesse
adoperato quest’altra parola per riferirsi agli astanti bambini avrei potuto
reputare possibile che stesse facendo un altro tipo di discorso imperniato su
parametri spirituali di semplicità e riguardanti entrambi i generi biologici e
grammaticali. Il termine neutro παιδίον è collegato all’idea di παιδεία
(educazione). L’insegnamento e l’apprendimento nel mondo grecoromano e in
quello ebraico, intesi nel loro là predominante senso (assurdamente ritenuto
più serio e più nobile), costituiscono robe da soli maschi. Il Cristianesimo
porterà a nozze tutte le misoginie esistenti dentro l’Impero di Roma3,
a dispetto dell’embrionale femminismo platonico e dell’altra posizione
progressista epicurea4. Rimanendo al filo dell’argomentazione
principale, la quale ho basato sui dettagli semantici, possiamo concludere che
il Messia non ha detto ai suoi discepoli di fargli venire incontro bambini e
bambine dal candore esemplare (non che tale sfumatura a posteriori sia ingiusta
nell’apposizione) ma ha affermato che gradiva molto la vicinanza degli
“educandi”: tale voltura ci rende meglio παιδία. Lui non sta evocando una
categoria di spirituale fanciullesca semplicità, sta indicando una categoria
maschile pedagogica. La supremazia maschile riecheggiata nella teologia di Tommaso
d’Aquino non è peregrina. La misoginia del Cristianesimo ha rappresentato una
delle pagine più orribili della storia occidentale, gli effetti della cui
martellante un tempo propaganda, a mio modesto giudizio, sono rimasti
sedimentati anonimi nell’inconscio maschile. La facilità degli odierni tragici
femminicidi, senza che ci sia una barriera psichica a un’azione di uccisione,
secondo me, deriva da un solco avito, proseguito in qualche modo silente e
senza coscienza precisa di sé. È stata la religione cristiana a dimostrare in
maniera così incisiva ed evidente che si possono maltrattare, torturare e
uccidere le donne in guisa sadica al punto tale che scomparsa oramai dalla fine
del XVIII secolo la caccia alle streghe tuttora quell’irrazionale nefando deprecabile
slancio, così ben inculcato, è rimasto nell’animo maschile di quei soggetti di
più bassa maturità psichica (quelli che io chiamo “freudiani”, opposti ai più
evoluti “junghiani”: faccio un discorso di grado libidico, non di discepolanza
agli studiosi da cui ho tratte le denominazioni5). In parole povere
è sopravvissuta una forma mentis al di fuori della coscienza della fonte: i
criminali rei di femminicidio seguono una suggestione dell’Ombra junghiana
senza sapere più una pseudogiustificazione ideologica, sono psicopatici vittime
di un archetipo negativo, l’archetipo dell’inquisitore, in senso lato ante
litteram, a partire dall’epoca del femminicidio di Ipazia di Alessandria, il
modello di nevrotico fortemente disturbato uccisore, torturatore e stalker di
donne. Non mi sono testé speso in questi ragionamenti qui per ludo divagatorio,
ho voluto creare anzi le premesse in vista di un’ulteriore trattazione fondata
sugli aspetti semantici. Sono rimasto non poco sconcertato nel corso del mio
esame sulle parole del Messia che qua ho sottoposto ad analisi allorché ho
notato che παιδίον non è correlato in virtù della sua radice solo a παιδεία, ma
anche ad altri inquietanti termini: πῦρ (fuoco), πυρά/ή (pira). I concetti di
purificazione, di riconduzione alla norma/normalità, di formazione (educativa)
costruiscono un ponte tra questi due e i παιδία di Gesù. I cristiani sono gente
su cui scende il “fuoco” dello Spirito Santo ad animarli, “infuocati” divengono
purificatori (a loro volta) a quanto pare grazie sempre al “fuoco”. Il rogo è
stato tipico dei cristiani: streghe, omosessuali, Giudei, intellettuali
dissidenti sono finiti sopra una “pira” a opera degli educandi-del-Messia
diventati adulti. La domanda è: quanto c’è di potenzialmente e di profondamente
inconscio nelle parole di Gesù sui bambini? Io parlo da junghiano, cogliendo a
posteriori un contenuto di profondità che storicamente si è concretizzato.
Constato che i roghi cristiani erano inseriti nel DNA concettuale originario di
questa religione. Tale pena di morte per gli omosessuali nell’Impero romano
cristianizzato riale alla fine del IV secolo. Ricordo altresì che il cadavere
di Ipazia nel 415 uccisa da estremisti cristiani fu poi bruciato. Verrà poi
tutto il resto messo in pratica con logica nazista. È possibile che i principi
ideologici del Cristianesimo contenessero pericolosissime radici germogliate
poi nell’inconscio di soggetti deformati da un’educazione fortemente deviante?
Io rilevo di sì a più livelli analitici (storico, concettuale, psicanalitico).
Simili educandi/educati nelle parole del Messia, parole in greco antico
ritaglianti un contorno inconfondibile, mi rammentano i pompieri di “Fahrenheit
451” di Ray Bradbury6: i cristiani delle origini bruciavano pure i
libri con uno slancio non dissimile da quello mostrato dai nazisti. I cristiani
hanno bruciato una più libera Civiltà occidentale per rimpiazzarla con una
società nevrotica lacerata da irrazionali scontri teologici. Dai παιδία di Gesù
sono discesi gli illiberali costruttori di un mondo distopico7,
perché sembra che fossero concettualmente programmati a ciò, a edificare un
mondo dove ὁ παῖς doveva fagocitare ἡ παῖς anche al costo di disintegrarla
letteralmente (bruciarla) in una sorta di sadico (figurato cannibalesco) rito8.
Questi due termini greci (in verità uno, differenziato e polarizzato
dall’articolo) appartengono alla stessa famiglia di radice di quelli riportati
sopra. La dicotomia creata dagli articoli, la quale esploderà nevroticamente
nella teologia cristiana (di impronta stoica9) è
purificatore/purificata (inquisitore/strega, uno-che-porta-il
fuoco/una-che-viene-bruciata). V’era una bomba nevrotica a orologeria nella
testa dei cristiani, ed è scoppiata peraltro velocemente e durati molto a lungo
sono i suoi effetti. Tanto che, a mio modestissimo modo di valutare, il binario
suddetto in una malaugurata maniera è proseguito per inerzia archetipica sino a
oggi nonostante si sia persa la visione coscienziale individuale della stazione
di partenza. Nel 2020 è stato pubblicato in Francia un libro intitolato “Moi
les hommes, je le déteste” opera di Pauline Harmange, la quale ha fatto parlare
di sé per via di questa sorta di manifesto misandrico. L’ho letto con cura, ho
compreso e condiviso le ragioni dell’autrice. Ci sono stati dei lettori che
invece sono rimasti scandalizzati e urtati da quell’esposizione di idee, che io
ritengo lecita. Nella prima parte di questo mio studio ho affrontato il tema
della misoginia nella cultura occidentale individuandone le radici della
manifestazione attuale di oggigiorno nel sistema ideologico cristiano. Leggere
questo libro della Harmange senza possedere una sufficiente nitida obiettiva
visione della storia dell’Occidente cristianizzato non conduce a un giudizio
finale ponderato. Non sto dicendo che bisogna coltivare una forma di odio
antimaschilista, sto affermando che tale posizione della scrittrice francese
non è infondata, nel senso che non spunta dal nulla, da deliranti fantasie.
Nutrire rancore nei riguardi dell’universo maschile occidentale si rivela
naturale, si mostra spontaneo, meccanicamente consequenziale. Chi studia (bene)
conosce come le donne siano state discriminate, perseguitate, torturate, uccise
con spirito più o meno sadico per troppi secoli. Se una di loro adesso, nella
veste di intellettuale, colpevolizza gli uomini della società cristianizzata,
rei di gravissima misoginia e di aver frenato il progresso paritario per
eccessivo tempo, ci sta. L’autrice francese stessa è però la prima a
puntualizzare che si tratta di misandria non violenta: la stessa cosa non si
può dire della misoginia cristiana e post-cristiana (questa seconda non porta
il disprezzo teologico, porta questo disprezzo, come ho spiegato, nella forma
laicizzata intramondana smemorata; chiamiamola altresì una forma di potenza
nietzschiana). Chi è rimasto disorientato di fronte allo spirito di “Moi les
hommes, je le déteste” pensi alla poesia di Primo Levi “Se questo è un uomo” e
voglia comprendere, in virtù di un pertinente paragone, un animo mortalmente
ferito. Il libro della scrittrice francese denuncia secoli e secoli di sadica
misoginia. Capirlo, in verità, per il lettore impreparato e superficiale non è
facile: Pauline Harmange non ci parla direttamente del passato, ci parla dei
suoi frutti nel presente, ci paga gli interessi e non ci offre il capitale. Il
lettore a cui questo manca non comprenderà l’intero e la verità. Questo libro
mi è piaciuto molto: non istiga all’odio, sollecita alla riflessione. Ed è
chiaro che, secondo il mio modestissimo valutare, nelle teste in cui non ci
sono una gamma di idee pertinenti alla misurazione e una parallela abilità di
metro dialettico, la riflessione profonda (femminista) auspicata, nella mia
impressione, dall’autrice francese non potrà trovare casa. Ci sono dei dettagli
in tale testo che mi hanno colpito: il primo è l’esergo plathiano; io ho
dedicato due miei saggi a quella grandissima poetessa e scrittrice che è stata
Sylvia Plath10. Mi sono sentito subito in sintonia ideale con
Pauline Harmange. È costei a rammentarci che il varo di un manifesto misandrico
non sarebbe potuto accadere al di là della precedente ampia e nefasta
misoginia. Tale opera contiene una considerevole profondità psicanalitica, la
quale la rende una costruzione filosofica di sprone non all’odio. La misandria
rappresenta una base di partenza nel ragionamento, non il punto di approdo. Nel
mezzo sta l’auspicio di cambiamento: gli uomini possono liberarsi dalle
suggestioni maschiliste e dalle orrende edificazioni concettuali in merito?
Esiste una pesante non trascurabile letteratura misogina dai Padri della Chiesa
in poi (la quale si riallaccia alla Bibbia) nei cui confronti “Moi les hommes,
je le déteste” costituisce un’inezia. Pauline Harmange ha scritto, secondo me,
cose vere; la sua analisi prosegue idealmente quella della mia prima parte qui.
La forma mentis stoico-cristiana agisce tutt’oggi ancora su vasta scala: c’è un
polo maschile che predomina praticamente su tutto e un altro femminile il quale
si rivela passivo. Le politiche sulle pari opportunità sono sì giuste, e sono
meglio di niente, però a me sembrano tirate per i capelli, figlie di una da me
interpretata quale necessità di facciata. La sostanza mi sembra quella
evidenziata dall’autrice francese, dove per giunta primeggiano (a dir di lei
che condivido) uomini senza alte qualità. Nel mondo odierno, costei osserva
pure che i responsabili di violenza sulle donne sono quasi sempre di sesso
maschile, e che quando sono le donne a essere autrici di crimini a danno del sesso
opposto tra le prime una fetta è stata in precedenza vittima di violenze subite
da uomini. Pauline Harmange rammenta il forte squilibrio storico nel rapporto
sociale fra i due sessi tiranneggiato dalla comunità maschile (dai teorici
espliciti della misoginia ai conniventi verso le banalità del male). Un
femminile sentimento di rancore può produrre la misandria, risultato di una
plurisecolare repressione. C’è un brano in questa pubblicazione della
scrittrice francese il quale ho giudicato molto rilevante in relazione alle mie
idee junghiane circa la formazione nevrotica del maschilismo misogino cristiano.
Prima dell’uscita di “Moi les hommes, je le déteste” ho spiegato11
che l’asse delle facoltà razionali (“ragione” e “sentimento”), presentato nella
psicologia analitica di Jung, è stato spezzato nel Cristianesimo dove il
“maschile” viene associato alla “razionalità” stricto sensu e indebitamente
contrapposto al “sentimentale” a sua volta associato al “femminile”. Cosicché
in seguito a simile arrocco nevrotico il maschile-razionale è stato proclamato
il polo del Bene, e il femminile-sentimentale (formato da potenziali streghe,
porte dell’inferno) il polo del Male. Pauline Harmange ha intuito questa radice
profonda dicotomica: ne ha parlato in salsa contemporanea. Allorché ella dice
che se nel corso di uno scontro di coppia l’uomo si appella alla ragione contro
l’emotività femminile (magari disarticolata) non fa altro che riproporre la
cliché dello schema nevrotico maschile da me proposto. L’analogia formale è
perfetta. In più l’autrice francese, che si è unicamente concentrata sulla
contemporaneità, nella sua opera ha chiarito il modo in cui la pressione
emotiva familiare e/o di coppia ricada quasi esclusivamente sulle donne,
creando così un sovraccarico psichico, mentre gli uomini generalmente si
smarchino in direzione di un disimpegno emotivo essendo gli pseudocampioni
della ragionevolezza (dal loro comune medio punto di vista). Tale modello
possiede un retaggio hegeliano, giacché per Hegel in relazione alla casa e alla
famiglia nella coppia il femminile è centripeto e il maschile è centrifugo: la
razionalità hegeliana conduce fuori-di-casa. Possiamo notare come certi schemi
repressivi misogini siano stati ben teorizzati, sino a perdurare ai nostri
tempi. Pauline Harmange ha trattato del presente obiettivamente, sta al suo
lettore afferrare il senso corretto (pedagogico, filosofico, psicanalitico) di
quelle parole, le quali non meritano di essere fraintese né squalificate.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Prospettive
rinnovate”
1 Per approfondimenti vedasi nel mio saggio Considerazioni letterarie (2014) lo
studio intitolato Antropogonia e
androginia nel Simposio e nella Genesi.
2 A chi volesse approfondire indico una mia analisi dal titolo
L’irrazionale misoginia tomista
presente nella mia monografia Teologia
analitica (2020).
3 Su tale tema un mio lavoro: I protopatristici Aristofane e Giovenale, nella mia pubblicazione Percorsi Critici (2020).
4 A proposito dell’epicureismo consiglio di leggere un mio
scritto nella mia pubblicazione Analisi
letterarie e filosofiche (2023): Riflessioni
sopra il “De rerum natura” lucreziano.
5 Per approfondimenti indico nella mia opera Filosofie sadiche (2021) la sezione dal titolo L’irrazionalismo
nevrotico di Kierkegaard.
6 A tale romanzo distopico ho dedicato una analisi: La caverna bradburiana dei libri prohibiti,
nel mio saggio menzionato nella nota 3.
7 A questo riguardo reputo interessante segnalare una mia
monografia: Il Medioevo futuro di George
Orwell (2015).
8 Un approfondimento sul sadismo è possibile mediante un mio
studio contenuto nella mia pubblicazione indicata nella nota 5: La tanatolatria di De Sade.
9 Ai rapporti tra Cristianesimo e stoicismo ho dedicato parte
di una mia analisi intitolata Gesù stoico
e dionisiaco presente nel mio saggio Partita
a scacchi (2022) e un altro lavoro intitolato Dall’inno stoico a Zeus di Cleante alla fondazione del Cristianesimo
all’interno della mia opera Prospettive
rinnovate (2023).
10 Sylvia
Plath e l’utopia dell’essere (2016), Sulla poesia di Sylvia Plath (2016).
11 Ne ho parlato trattando di Pascal
nella mia opera Letture critiche
(2019) a pag. 11.