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venerdì 11 febbraio 2011

I ROSE GARDNER DI VILLA LISETTA

di DANILO CARUSO

La famiglia Rose Gardner nacque in seguito al matrimonio di due fratelli Rose con due Gardner. Il ramo femminile della famiglia ha come progenitore Benjamin Gardner di Boston (un capitano di nave sull’imbarcazione del quale venivano portati in America le esportazione dalla Sicilia di Benjamin Ingham, che tra l’altro oltre alle famose produzioni di vini commerciava pure lo zolfo). Benjamin, poiché non aveva figli, adottò un discendente (Edward) di un protagonista della guerra d’indipendenza delle colonie nord americane dall’Inghilterra (Paul Revere: un nipote sposò la cognata di Benjamin; Edward era il di lei figlio). Il Bostoniano rimase colpito durante questi suoi viaggi dalla bellezza misteriosa del capoluogo isolano e vi si trasferì alla fine del secondo decennio del 1800. Qui, ancor prima di divenire console americano a Palermo nel 1825, si interessò del mercato dello zolfo e fece l’incettatore. Il suo nome divenne ben presto noto. Dal carattere mutevole, erano noti i suoi sfarzosi trattenimenti da console. Morì il 3 luglio 1837 a causa dell’epidemia di colera che imperversò in Sicilia nel 1836-37. I Rose Gardner lercaresi ebbero come progenitore del ramo maschile l’Inglese James Rose (1809-1868). Di aspetto imponente e dall’aria allegra, era nipote di un lavoratore portuale di Woolwich, che aveva raggiunto a dodici anni uno zio a Messina dove aveva iniziato a lavorare. In un primo momento si era dedicato al commercio degli agrumi, ma poi fu attratto da quello più redditizio dello zolfo che esercitò in associazione con Benjamin Gardner. La sua residenza palermitana si trovava alla Marina di fronte a Palazzo Lampedusa. Già nel periodo di presenza del presidio inglese in Sicilia (1806-1815) vi erano quindici imprese inglesi impegnate nell’industria estrattiva. Nel 1839 Edward Gardner era tra gli azionisti che crearono nel Regno delle Due Sicilie la prima compagnia di navigazione che utilizzò una nave a vapore, denominata Palermo, alla quale il governo borbonico concesse il diritto di navigazione mercantile costiera (cabotaggio) in precedenza solamente prerogativa dei Napoletani: altri due azionisti furono Francesco di Paola Ferdinando Gravina Principe di Palagonia e di Lercara Friddi, e il barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro (con l’ufficio di tesoriere).
Edward, coniugato alla Gallese dal carattere irascibile Martha Beaumont, era impegnato nel campo bancario ed in quello commerciale (esportava sommacco in U.S.A. ed in Inghilterra). Assieme ai Rose iniziò nel 1840 un’attività di estrazione dello zolfo a Lercara (che sarà la principale per lui).
La lercarese Villa Lisetta, abitazione in stile vittoriano di James Rose, fu costruita in quel periodo in una zona ancora periferica: il nome fu scelto in onore della moglie (Eloisa). Nel momento in cui due fratelli Rose, William (1840-1888) e John Forester (1853-1922), presero in moglie due figlie di Edward Gardner, rispettivamente Martha ed Elizabeth intorno al 1869 e al 1882, le relazioni d’affari fra i Gardner ed i Rose si tramutarono in parentela. La primogenita del defunto Edward Gardner, Charlotte, sposò nel 1872 il barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro (soprannominato Nené, erede e nipote dell’omonimo di cui sopra) con una sfarzosa cerimonia. I Gardner erano imparentati con i Whitaker di Villa Malfitano: Beau Gardner era cognato di Maude Whitaker Bennet (1860-1929), andata in sposa a Bob Whitaker (1856-1923). La sorella di Maude, Alice, intorno al 1880 era stata fidanzata con un Gardner.
Compiutasi l’unità d’Italia comparve in Sicilia il problema del brigantaggio. I rapimenti dei ricchi sembravano essere all’ordine del giorno. Primo ad essere rapito dei Rose fu James intorno al 1863 mentre viaggiava con la figlia Sophie (n. 1839) in carrozza in una località poco distante da Palermo.
Toccò poi a John Forester Rose (1853-1922, figlio di James) la sorte di essere rapito da uno dei più noti criminali di quegli anni: il famigerato Antonino Leone, che agiva anche nei pressi lercaresi. John Forester Rose, un uomo di taglia imponente che portava i baffi, il 4 novembre 1876, diretto in treno a Lercara per eseguire un sopralluogo alle miniere della Rose Gardner & C., scese con i suoi accompagnatori, tra cui il fratello George (1842-1888), alla stazione (quella attualmente denominata di Lercara Bassa) e per spostarsi si servì come sua abitudine, poiché non amava la carrozza, di un cavallo. Nel suo tragitto, come era già capitato al padre, fu sorpreso da quattro banditi che gli intimarono di fermarsi e di seguirlo. Dopo che lo fecero salire su un nuovo cavallo, sfruttando la presenza di una carrozza postale che avanzava lentamente (a bordo erano circa in venti) a ridosso della parete di un colle, scappò dirigendosi verso questa. Più di un malfattore allora lo prese di mira con la sua arma da fuoco, ma fortunatamente non lo centrò. John chiese quindi aiuto a quei passeggeri di transito per quella via, ma questi, intimoriti dai sequestratori, rimasero immobili. Leone lo raggiunse e lo riprese, e con sarcasmo gli porse le sue scuse per il disagio in cui lo aveva fatto incorrere con quel rapimento. Mentre veniva tradotto in una spelonca (dalla quale John invierà al fratello la richiesta dei rapitori), in un viaggio che durerà sedici ore, incontrarono un drappello di soldati, ma nel buio della sera passarono inosservati. Il sequestro durò ventidue giorni: nella prima fase, durata nove giorni, l’incalzare dell’esercito nell’area in cui John era tenuto prigioniero non consentì che il riscatto fosse versato (erano state richieste inizialmente ventimila sterline, somma di cui la famiglia rispose di non poter disporre); la seconda fase fu molto più movimentata perché i banditi erano costretti a trasferirsi in continuazione da un posto all’altro per non essere catturati. Per concludere le trattative i Rose si avvalsero della mediazione di un altro autorevole malavitoso: fu pagata la metà di un riscatto di cinquemila sterline, e Leone liberò John vicino a Sciara, salutandolo cordialmente con quel sarcasmo che aveva connotato l’inizio della vicenda e dandogli un biglietto di terza classe per far ritorno in treno. Nell’immaginario collettivo siciliano questo sequestro trasformò Antonino Leone in una sorta di novello Robin Hood: a Palermo addirittura circolava un canto in vernacolo che recitava così: «Chist’omu valurusu… arrobba a li ricchi… Si viri genti poviri nn’avi cumpassiuni…». Gli Inglesi dell’isola siciliana non gradirono questa eco positiva: dell’episodio se ne parlò sul Times, ed il responsabile del Foreign Office di allora (Derby) a dicembre fu sollecitato da un resoconto dei merchant-bankers ivi abitanti a richiedere al regio governo italiano provvedimenti più efficaci contro il fenomeno del banditismo. I consigli degli Anglosiculi a loro volta fecero irritare gli Italiani: per loro gli Inglesi si intromettevano indebitamente in fatti di politica interna. Il marchese Antonio Starabba di Rudinì (che era di Palermo) disapprovava d’altronde l’atteggiamento di omertà che John Forester Rose teneva dopo la sua liberazione. A questa imputazione il Rose rispose con una lettera di smentita sul Times. Leone nel frattempo pensava alle altre duemilacinquecento sterline del riscatto che la famiglia Rose gli doveva dare secondo gli accordi. Andò a trovare due volte la sua ex vittima per sollecitare il pagamento (la prima volta, nottetempo, aveva con sé come dono della cacciagione, in segno di riconoscenza a John che gli aveva promesso un moderno fucile, ma non lo trovò perché era in Inghilterra). Nel 1877, a settembre, Leone venne tradito a Montemaggiore Belsito: un carabiniere gli sparò alla testa e lo uccise. Morirono nella cattura altri due suoi uomini (mentre ne era stato prigioniero John Forester Rose notò che tutti loro portavano una collana con il Crocifisso). Al processo John Forester Rose testimoniò contro di lui. Il Giornale di Sicilia gli dedicò un opuscolo dal titolo Episodi della vita del masnadiere Leone.
La crisi dello zolfo siciliano iniziata nel 1893, a causa della concorrenza statunitense, a Lercara Friddi provocò ritardi nei pagamenti dei salari: parte dei minatori dell’impresa Rose Gardner & C., che non percepivano salari da tempo, nel maggio 1901 presentò un esposto al prefetto di Palermo che dispose gli accertamenti del caso. Il contrasto tra ditta e dipendenti, che durò sino alla fine di luglio, si concluse con la promessa della corresponsione di un acconto ai lavoratori. Nel 1906 l’impresa fallì (con lo strascico di cause giudiziarie, tra cui con i Lercaresi Pucci dei quali i Rose erano soci: persero la disputa). Villa Lisetta però non poté essere confiscata in quanto risultava proprietà della moglie di John Forester Rose. Abbandonarono nello stesso anno il paese, e si trasferirono nel capoluogo lombardo. Qui Mabel (1883-1964) lavorò come domestica. Ritornò a Lercara dopo la fine della Grande guerra per un fugace omaggio al sepolcro dell’amato Attilio Scarlata (1881-1918, nipote e delfino di Giulio Sartorio), tenente caduto al fronte, cenere al quale non ruppe fede. Gli ultimi Gardner infine partirono per gli USA, un ramo dei Rose per il Brasile. Villa Lisetta fu nel 1908-55 sede lercarese dei carabinieri: infatti i suoi locali erano stati venduti il 23 aprile 1908 da John Forester Rose al Comune «per essere adibiti ad uso caserma». Il Consiglio comunale, presieduto dal sindaco Gaetano Furitano, deliberò all’unanimità il 3 maggio 1908 di contattare «il comandante del distaccamento militare per sapere se i locali offerti rispondono o no alle esigenze del distaccamento medesimo». La risposta fu positiva. Nel 1930 la villa fu acquisita al Legato Rotolo. Successivamente, durante gli anni ’50, vi fu ospitata anche la scuola media. Restò in stato di abbandono dopo che non andò in porto il progetto di aprirvi un ospedale (in funzione del quale si era aggiunto un gruppo di stanze). Il vecchio alloggio del custode (ex sede della condotta agraria) è stato ristrutturato al principio degli anni ’90. L’entrata sul prospetto fu aggiunta probabilmente nel 1908. Il lato del complesso della villa che dà sempre sulla facciata era lungo 77 m, come è giu­sto ritenere suppergiù per il suo opposto; gli altri due lati erano sugli 80 m. Tutto il complesso, il cui edificio in origine residenziale è stato restaurato nella seconda metà del decennio 2001/10, si estendeva su un'area di circa 6160 mq. Due contenitori d'acqua, collegati con il serbatoio idrico paesano (la cosiddetta “vasca” di fine ’800), erano collocati al terzo piano della casa e al piano sopra la rimessa e la scuderia.






ALBERO GENEALOGICO



VILLA LISETTA NELL’OTTOCENTO

A
entrata
E
primo piano
I
deposito del carbone
O
piano sopra la rimessa e la scuderia
B
casa del custode
F
secondo piano
L
scalinata
P
prato alberato
C
impianto di riscaldamento dell'acqua con serbatoio
G
terzo piano
M
pozzo
Q
area dotata di strutture ricreative (tra cui un campo di tennis)
D
pianterreno
H
riposto
N
lavanderia, riposto, scuderia, rimessa (ex guardia medica)
R
cinta muraria
































per approfondimenti vedasi
DANILO CARUSO / I ROSE GARDNER DI VILLA LISETTA / CONSULTA COMUNALE DEI GIOVANI DI LERCARA FRIDDI (2001)

mercoledì 2 febbraio 2011

LA VILLA “SANT’ANNA” A LERCARA FRIDDI

di DANILO CARUSO

Nello spazio denominato Sant’Anna una prima fontana fu costruita nella seconda metà del ’700 e restaurata nel 1833. L’intera villa (che prima non c’era) sorse davanti a Palazzo Caruso nel 1936-37 (progetto dell’ingegner Martelli, segretario locale del PNF). La sua nuova fontana a forma di fascio simboleggiava potenza per l’effetto dello slancio plastico della materia verso l’alto e vitalità per l’acqua pura sgorgante dai suoi lati attraverso la bocca di  teste leonine; attorno al bacino si espandeva concentricamente un sistema di sei panchine che creavano equilibrio ed armonia; e come raggi da un sole si dipartivano dal centro sei ingressi ritmicamente intervallati dai sedili, alle cui spalle, frutto ed immagine della vita, le aiuole con la loro vegetazione. La struttura era allegoria di un’Italia alla ricerca di un’affermazione in campo internazionale come portatrice di civiltà: il bacino dell’acqua è un sole che illuminando (gli ingressi) dà ordine (le panchine) e vita (le aiuole). Il 26 gennaio 1937 il podestà Luigi Nicolosi determinò di denominare questa piazza, già Umberto I, Piazza dell’impero (a memoria della vittoria in Abissinia nella guerra del ’35-’36; piazza Umberto si trasferì in Piazza duomo dove c’era il monumento del re assassinato).


Piazza dell'impero...

... e la sua fontana.


Dagli anni ’50 la villa comparve diversamente dopo la ristrutturazione – secondo il progetto dell’ingegner Gaetano Lo Monte – voluta dall’on. Gioacchino Germanà (intanto la piazza era ritornata Umberto I). L’assetto fu completamente mutato, con un’entrata monumentale e solenne come quella di una cattedrale, espressione di una funzione celebrativa e commemorativa della storia e della tradizione lercaresi. Da una ideologia nazionalista si passò al particolare, alla celebrazione ed all’esaltazione di ciò che localmente fosse proprio, metafora di una Sicilia per cui rivendicare dignità all’autonomia regionale. Il corpus centrale della villa in cui si trovano i posti per i busti rappresenta un altare della memoria lercarese (e simbolicamente metalocale), che non voleva solo celebrare, ma anche stimolare l’osservatore. L’idea guida era quella di mostrare degli esempi di eccellenza nei vari settori delle attività umane e delle scienze, scelti in questo caso dal contesto locale, tali da legittimare le rivendicazioni siciliane. La villa è lercarese, ma l’idea di cui è espressione è regionalista. Risalta in questa parte un gusto classicheggiante, con una sapiente distribuzione del gioco dei vuoti e dei pieni sormontati da una striscia frontale con scritta in latino (TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM, «di fronte a nomi così grandi nessun elogio è sufficiente»: è l’epitaffio di Niccolò Machiavelli in Santa Croce a Firenze, «nomini» è reso nella traduzione al plurale per adattamento); è la forma absidale che rievoca a renderla un altare. Si accese nel 1960 a Lercara un dibattito pubblico sopra un tentativo di cambiar posto al busto di Alfonso Giordano (1843-1915), ubicato dagli anni ’20 nella piazzetta Garibaldi. Poiché si stavano svolgendo dei lavori per rifare la pavimentazione di tale spiazzale antistante alla chiesa di sant’Antonio da Padova, con il parere favorevole della Soprintendenza ai monumenti della Sicilia occidentale il 24 febbraio di quell’anno la Giunta comunale deliberò all’unanimità (erano inizialmente di idee contrarie il sindaco Iandolino ed un assessore, i quali però si adeguarono all’indirizzo assunto dalla maggioranza) «per ragioni di estetica cittadina» di spostare l’opera di Antonio Ugo nella ristrutturata villa di piazza Umberto I (i cui lavori, costati 35 milioni di lire, erano terminati all’inizio del ’60). Questo proposito fu disapprovato dai minatori di Lercara, dalla famiglia Giordano, e dall’intera CISL locale, per il fatto che il luogo in cui si trovava il monumento sin dalla sua erezione meritava maggiore rispetto della volontà passata che lì lo aveva voluto, e peraltro questo non era causa di problemi di alcun tipo al transito urbano. Alla fine il confronto fra le due posizioni approdò il 5 aprile 1960 in Consiglio comunale, che deliberò col consenso di quasi tutti (ci fu un astenuto tra i 24 consiglieri presenti) di abbandonare il discusso progetto lasciando il busto nella piazzetta Garibaldi e di ammodernarne invece la struttura circostante di protezione. Il cosiddetto “famedio” di piazza Umberto I nell’estate del ’61 ospitava già due bronzi: quello di Giulio Sartorio (di E. Montana, 1952) e quello di Camillo Finocchiaro Aprile (di autore ignoto, era stato per un quarantennio depositato in un magazzino del Comune); un terzo busto si prevedeva di dedicarlo ad un figlio di Alfonso Giordano, il magistrato e giurista Stefano. Cosicché sul quinto piedistallo da sinistra fu scritto il suo nome: Sartorio e Finocchiaro Aprile stavano sul primo e sul terzo per una questione di armonia. In un secondo momento sul secondo e sul quarto piedistallo ci finirono due busti marmorei di inizio ’900 di altri due cittadini illustri (si trovavano esposti in origine nella sede di rappresentanza del Comune): Giuseppe Eugenio Furitano (opera di Mario Rutelli) e Giuseppe Scarlata (opera di Antonio Ugo). Perciò i cinque posti furono tutti riempiti. Ma lo spazio di Stefano Giordano dovette attendere per essere occupato sino al 1988, quando una scultura di Emanuele Pandolfini venne scoperta con una cerimonia il 19 novembre: intervenne allora il figlio giudice Alfonso Giordano. Nell’estate del 2004 il “famedio” è stato restaurato con l’aggiunta di modifiche architettoniche alla villa.


Dal 2004 non esiste più tutta l’inferriata perimetrale a vantaggio di quest’ampliata area di marciapiede su un solo lato.


 


I PERSONAGGI DELLA VILLA

Giulio Sartorio
(1844-1921)
Fu avvocato e proprietario di miniere, consigliere provinciale, sindaco di Lercara sei volte: cinque tra il 1878 ed il 1901 (complessivamente nove anni), ininterrottamente dal 1911 al 1920.
Giuseppe Eugenio Furitano
(1850-1902)
Fu magistrato, consigliere comunale a Palermo.
Camillo Finocchiaro Aprile
(1851-1916)
Sposò una sorella di Giulio Sartorio. Fu padre di Andrea leader del separatismo siciliano degli anni Quaranta, ministro della giustizia. Al suo interessamento si deve il Plesso Sartorio e lo scalo ferroviario di Lercara Alta.
Giuseppe Scarlata
(1846-1907)
Fu otto volte sindaco di Lercara tra il 1879 ed il 1905 (complessivamente un decennio).
Stefano Giordano
(1879-1952)
Fu magistrato e giurista, figlio del medico e filantropo Alfonso.

martedì 1 febbraio 2011

PALAZZO PALAGONIA A LERCARA FRIDDI

di DANILO CARUSO

L’idea di dotare Lercara di un nuovo palazzo di rappresentanza del Comune maturò in seno all’amministrazione locale guidata da Giulio Sartorio all’inizio del 1912. La precedente sede – l’edificio scolastico nuovo, detto oggi Plesso Sartorio – cominciava ad essere sempre più affollata di alunni, la qual cosa relegava i rappresentanti ed i dipendenti municipali in spazi ridotti. L’organico comunale di quei tempi era composto da una trentina di unità (nel 1911 Lercara aveva 11.262 abitanti) ed una presenza media di tre impiegati a stanza era ritenuta causa di disordine e di rallentamento nella macchina amministrativa, in quegli ambienti in cui tra l’altro risuonava con fastidio il vocio dei bambini. L’alternativa dell’affitto di stanze per essere adibite ad aule scolastiche non era conveniente: si trattava di un costo di L 1.900 all’anno. Fu scelto come locale da ristrutturare un magazzino, che dava su piazza Abbate Romano, appartenuto ai principi di Lercara, e dopo la scomparsa di Francesco Gravina (1800-1854), entrato nel demanio comunale. Volendo risolvere il problema di quella disomogenea commistione si decise di passare all’attuazione dell’intendimento e nel 1914 l’ingegner Pietro Mezzasalma ricevette l’incarico di progettare la nuova costruzione: l’ingegner Alessandro Lazzarini, in quel periodo assessore comunale, diede un suo personale contributo di suggerimenti. Per il pagamento di tutte le spese era stato acceso un mutuo, e dopo l’approvazione da parte del genio civile del progetto dell’ing. Mezzasalma il lavoro andò in appalto ed aggiudicato all’impresa Catalano Rosario di Salvatore con la quale il comune stipulò un contratto nel dicembre del 1915. La facciata del palazzo venne innalzata più in avanti rispetto al prospetto del magazzino di 5 m al fine di recuperare spazio per i locali interni, e la struttura generale fu composta di due piani. L’opera di edificazione fu terminata verso il 1918, cosicché si poté effettuare il collaudo nel 1919 ed a settembre il nuovo palazzo comunale venne dichiarato agibile dalla relazione dell’ingegner Domenico Gaccio. Tra uscite economiche varie del caso Palazzo Palagonia venne a costare L 106.773,62 (di cui 96.802,8 all’impresa costruttrice), contrariamente alle 97.900 di previsione (queste cifre non tengono conto del costo del progetto dell’ing. Mezzasalma). Nel contesto di creazione di questa opera si sviluppò parallelamente l’erezione del casotto daziario sul punto in cui si trova ora il monumento ai caduti: fu poi abbattuto nel 1922 per far posto appunto al simulacro della vittoria nella prima guerra mondiale (la scultura bronzea è di Cosmo Sorgi). La previsione di spesa per la costruzione del casotto era stata, per lavori ed espropriazioni, di L 30.800. Nel 1921 su una parete al secondo piano di Palazzo Palagonia fu posto un bassorilievo (realizzato da Francesco Sorgi) per ricordare l’ex sindaco Gioacchino Furitano morto l’anno precedente. Nella nuova sala del consiglio comunale nel 1928 fu apposta – secondo quanto stabilito da una delibera consiliare del 1918 – una lapide riportante il testo del bollettino della vittoria del generale Diaz. Questa, nel 1982, fu trasferita nel vano d’ingresso a pianterreno e sostituita da un’altra commemorativa di Michele Granato, poliziotto lercarese ucciso a Roma nel ’79 dalle BR.