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venerdì 17 giugno 2016

ESTHER GREENWOOD E SYLVIA PLATH

IL CAMMINO DELL’INDIVIDUAZIONE NE “LA CAMPANA DI VETRO”

di DANILO CARUSO

“The bell jar” (“La campana di vetro”) è l’unico romanzo di Sylvia Plath (1932-1963), la scrittrice americana, madre di due figli, suicidatasi dopo essere stata abbandonata a metà del ’62 dal marito, il poeta inglese Ted Hughes (1930-1998). A lei e al suo “confessionalismo” ho dedicato due saggi critici nei quali rivisito la sua vicenda e la sua opera sulla base di un modello d’analisi junghiano, il quale secondo me rende più giustizia alla sua persona che non altre impostazione di studio (di carattere freudiano e gravesiano). Nel presente scritto è estratta dal mio primo testo la sezione relativa a “The bell jar”; circa un approfondimento del mio impianto analitico invito alla lettura dei miei saggi chi è interessato: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”. Alcuni temi esaminati avvicinano la Plath all’antropocentrismo letterario ed esistenziale dello scrittore e artista Edward Estlin Cummings (1894-1962).
Un antropocentrismo di ascendenza classica e ispirazione spiritualista del cui promotore la Plath ricorda una poesia ne “La campana di vetro”: “somewhere i have never travelled,gladly beyond”, il cui primo verso (dicente: «in qualche luogo dove non ho mai viaggiato») esprime un senso dell’utopico. Qui rammento inoltre e soprattutto la centralità che in tali miei studi assumono precisi concetti junghiani: Grande madre, ombra, dialettica anima/animus e processo di individuazioneRispettivamente correlati alla madre di Sylvia (una delle sue cause di disagio), al mondo circostante (nella sua veste distopica contrapposta alla modalità frommiana dell’essere seguita da Sylvia), e all’evoluzione personale spirituale della grandissima poetessa di Boston (il cui ricercato animus oscillava tra due termini di segno opposto, i quali nella mia analisi ho designato con gli appellativi di “Ariel/Perseo”+ e “Umbriel/Cristo”-). Il romanzo in esame traspone la più giovanile situazione plathiana nel racconto e nel personaggio di Esther Greenwood, una ragazza che sulla falsa riga di Sylvia vede germogliare sulla morte del padre e sul confronto con la mamma due tenebrosi motivi di malessere. Il suicidio fallito (il primo tentato della Plath risale al ’53, e corrisponde a quello narrato nel romanzo) e il successivo periodo di recupero apriranno una prospettiva di risanamento interiore descritta dall’autrice. Sylvia Plath all’inizio del ’61 ebbe un aborto, e poi si sottopose ad appendicectomia: sembra che la redazione del romanzo sia iniziata mentre subiva questo lungo ricovero rievocantele altri traumatici ricordi.
Dopo la separazione matrimoniale andò a risiedere a Londra in compagnia dei figli, in un appartamento che a suo tempo aveva ospitato William Butler Yeats (1865-1939). Qui concluse il suo romanzo: “The Bell Jar” fu stampato e diffuso sotto uno pseudonimo (Victoria Lucas) nel gennaio del ’63, ma non ottenne subito quel successo da lei atteso. 
Il suo titolo rammenta la “campana pneumatica” strumento di tortura dello Stato unico zamjatiniano. Esther/Sylvia, nella sua personale distopia è accostabile in virtù del suo positivo potere eversivo a I-330, e Ted Hughes a D-503. L’esperienza sgradevole di Esther al cinema narrata al cap. 4 ha un qualcosa dei toni distopici di quella vissuta da Winston Smith in “1984”. Allorché nel cap. 2 Sylvia parla dei benefici effetti sulla protagonista di un bagno, immersa in una vasca, nell’acqua molto calda, non fa altro che riproporre l’immagine dell’accogliente e rassicurante grembo della Grande Madre positiva, dove aspira a tornare nei momenti di disagio, difficoltà, presentati dalla quotidianità e dalla società volgari: tale brano indica chiaramente il modo in cui siffatta prassi costituisca la ricerca di un rifugio distaccante dal mondo comune. Esther Greenwood puntualizza il suo scetticismo nei confronti di abluzioni battesimali, ma ribadisce che il suo bagno ha la capacità di rigenerarla con analoga potenza, a testimonianza che le varie forme di battesimo, e riti simili, sono espressione di un universale desiderio di liberazione e purificazione: «Mi adagiai in quella vasca da bagno.. più o meno un’ora, e sentii che stavo diventando di nuovo pura. … credo di sentire… quanto la gente religiosa prova in relazione all’acqua santa. … Più a lungo stavo adagiata là nella chiara calda acqua più pura mi sentivo, e quando uscii alla fine e mi avvolsi in uno dei grandi, soffici bianchi asciugamani da bagno dell’hotel mi sentii pura e dolce come una neonata». Il cap. 8 presenta altri elementi junghiani. 
Dapprima viene menzionato il titolo di un’immaginaria poesia “Florida dawn”, il quale conduce nella realtà alla lirica “Florida at dawn” di Will Wallace Harney (1832-1912), testo contenente una rappresentazione dell’alba che può ben figurare nella veste di alchemica “albedo”. Poi un ragionamento della protagonista de “La campana di vetro” espone la dicotomia “Ariel/Umbriel” dell’animus plathiano: «Se nevrotico equivale a volere due cose incompatibili insieme e nello stesso tempo [pensiamo al “double think” di “1984”; n.d.r], allora io sono nevrotica un inferno. Io rimarrò a volare indietro e avanti tra i poli dell’antinomia per il resto dei miei giorni». L’incontro di Esther, tra i capp. 3 e 4, con la editor della redazione del “Ladies’ Day” (rivista presso cui sta facendo pratica), ha una vaga aria rievocativa di quello tra il grande inquisitore e Gesù Cristo descritto da Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”. Solo che nel romanzo plathiano le parti si invertono. Lei diventa la “grande inquisita” e la responsabile del giornale – Jay Cee, nome avente una forte paronomasia con “Jesus” e segnalantesi inoltre per via delle iniziali, J[esus] C[hrist] – ricopre un ruolo inquisitoriale ambiguo: Gesù Cristo interroga la penitente, la strega (la “Witch burning” di “Poem for a birthday”), la peccatrice, quella che diverrà “Ebrea”. 
Il definirsi della Plath tale nelle sue poesie equivale al suo convertirsi in olocausto al cospetto del mondo della storia, dove la “Shoah” assume il compito di una sostanziale e trasposta letteraria cornice della capacità distruttiva dell’“ombra” junghiana. Hanno colorazioni apocalittiche i brani a chiusura di quest’esperienza di Esther/Sylvia: «Quando i cherubini nell’orologio francese da parete di Jay Cee agitarono le loro ali su e giù e imboccarono le loro piccole trombe e fischiarono dodici note una dopo l’altra, Jay Cee mi disse che avevo fatto abbastanza per la giornata… Lei appariva terribile, tuttavia molto saggia… “Non lasciare che la grande e malvagia città ti trascini nell’abisso”». E subito dopo l’autrice del romanzo fa un paragone nell’ambito di sfondo della Grande Madre: fra la mamma di Esther (ragione di malessere e disagio) e la desiderata madre da questa (Jay Cee), illustrando così la bipolarità “negativo/positivo” di detto archetipo. La mamma di Sylvia è agli occhi della scrittrice un Cristo di Inquisizione antisemita. Più avanti nel cap. 9 allorché viene domandato a Esther quale professione intendesse svolgere, costei risponde di non aver idea, però nel momento in cui Jay Cee replica che «lei vuole… essere tutto», la prima conclude esternando la sua volontà di fare la poetessa. Il cap. 11 porta il lettore dentro la stanza d’attesa dello psichiatra di Esther, una stanza senza finestre la quale rammenta quelle inquietanti dell’oceaniano “ministero dell’amore”, e che introduce la protagonista davanti a una sorta di O’Brien dell’unidimensionale società occidentale, il quale finirà col riservarle, mediante l’elettroshock, un trattamento simile a quello toccato a Winston Smith. Esther/Sylvia è finita lì a causa del suo disagio esistenziale e dei suoi sintomi.
L’esperienza dell’elettroshck ritorna nel cap. 17 con toni cupi vicini a quelli di “1984”: Esther, ricoverata, si sente di fronte a tale prospettiva «una persona rassegnata freddamente all’esecuzione», e quell’itinerario alla volta della sala della terapia e la sua anticamera evocano il tragitto verso la “stanza 101”. La parte centrale del cap. 18 è molto rilevante e delicato poiché tratta il tema dell’omosessualità, e il lesbismo in particolare. Sylvia Plath stette a contatto con professori omosessuali allo “Smith College”: Newton Arwin (1900-1963), critico letterario, travolto dallo scandalo giudiziario della scoperta pubblica della sua omosessualità, noto pure per aver intrattenuto un legame con lo scrittore Truman Capote (1924-1984); e la scrittrice Mary Ellen Chase (1887-1973), la quale invece ebbe margine di vivere la sua condizione con più tranquillità. La Plath giudicava gli omosessuali «persone eccentriche [queer people; Diario 7-4-1958]». Nutriva «ammirazione per le donne forti, sebbene lesbiche [admiration for strong, if Lesbian, woman; Diario 7-11-1959]». In “The Bell Jar” il tentato approccio di Joan nei confronti di Esther mette in scena un duo che sembra una drammatizzazione dell’amicizia tra Sylvia Plath e Anne Sexton (1928-1974: poetessa morta suicida; la quale ebbe una cognata di nome Joan, perita in un incidente stradale nel 1969). Gli elementi descrittivi nella narrazione, in parte di tragico contenuto profetico, inducono a crederlo: il trovarsi nella medesima struttura di recupero (entrambe finirono negli anni ’50 in ospedali psichiatrici), la più o meno strana affinità. La Sexton sarà ricoverata, a causa del suo crollo psichico, allo scopo di condurre degli esami medici, alcuni giorni nel 1973, al “McLean Hospital” di Belmont (luogo di cura dove era andata a tenere seminari sulla poesia in precedenza, dopo la morte di Sylvia, questa là curata a suo tempo). Nel cap. 19, alla cui fine Joan muore suicidandosi, in maniera catartica per la protagonista di “The Bell Jar”, della quale la prima è una specie di alter ego negativo, Esther/Sylvia dice: «Nonostante le mie profonde riserve, io pensavo che avrei sempre dato molta importanza a Joan. Era come se noi fossimo state messe assieme da qualche schiacciante circostanza, simile a una guerra o una pestilenza, e condividessimo un mondo tutto nostro». Rimane difficile stabilire se (Jo)an-ne Sexton (sospettata di lesbismo) avesse davvero provato un approccio omosessuale nei riguardi della Plath, o i brani in questione siano solo una trasposizione letteraria distorta, divertita e fuorviante. Appare chiaro che in Sylvia Plath non si radicassero inclinazioni lesbiche e che fosse tollerante: personalmente una tale possibilità non le era congeniale, e il testo del romanzo lo puntualizza col suo dire “confessionale”. Ted Hughes aveva mostrato omofobia. Benché a Sylvia fosse mancato con la prematura scomparsa del padre un termine polare primordiale di animus junghiano, la sua evoluzione psicosessuale mantenne, nonostante tutto il resto, un percorso “tradizionale”. Il deflorante congresso carnale col professore di matematica, nel cap. 19, rappresenta la “sizigia” junghiano-alchemica: costui è il “logos”, il maschile, l’animus; lei è l’“eros”, il femminile, l’anima. Esther guarisce in quella congiuntura psicoalchemica. Si può dire che nell’ottica letteraria e simbolico-alchemica il suicidio di Joan sia “naturale”. Degne di nota inoltre sono un paio di analogie saffiche (frammenti 107 e 114, edizione Voigt), sul finire della prima metà di questo capitolo, in merito alla perdita della verginità, in due passaggi narrativi (uno precedente e l’altro seguente l’evento): «la mia verginità pesava al pari di una macina attorno al mio collo»; «io non potevo assolutamente essere una vergine mai più». Il ventesimo e conclusivo capitolo di “The Bell Jar” ripropone l’immagine dell’archetipo della Grande madre nella sua veste negativa legata al complesso materno di Esther/Sylvia: «Il viso di mia madre… una luna pallida, di rimprovero». Viene riaffermato il carattere distopico della realtà: «Alla persona nella campana pneumatica, vuota e chiusa a guisa di un feto morto, il mondo stesso è il brutto sogno. … Cosa era là rispetto a noi, nel Belsize, così differente dalle ragazze che giocavano a bridge e facevano pettegolezzi e studiavano nell’università dove vorrei ritornare? Quelle ragazze, anche, stavano sedute sotto una campana pneumatica di sorta». Tuttavia si offre a Esther lo stadio psicoalchemico della “rubedo”: «Il sole, emerso dai suoi grigi veli funebri [shrouds; una Pasqua di resurrezione è qui dipinta] di nube [of cloud: complemento di materia], splendeva con una lucentezza estiva… come se l’usuale ordine del mondo fosse un poco cambiato, ed entrato in una nuova fase». A dispetto di un momento di insicurezza adesso lei è libera. Viene difficile accettare l’esistenza dell’inferno cristiano: se si vuol punire l’anima basta rimandarla in questo mondo fenomenico, non c’è bisogno di immaginare un ulteriore posto di dolore e afflizione. Pertanto liberarsi dalle catene dell’universo empirico, forse, è un premio; e la morte un’illusione di terrore angosciante vigliacchi e stolti, prigionieri di una scatola spaziotemporale, di un tipo di nevrosi collettiva che abbrutisce gli esseri umani rendendoli più vicini alle bestie. 
Di sicuro sembra sbagliato anticipare la propria dipartita: c’è tempo per morire comunque. La Plath fa dire a Esther in “The bell jar”: «credevo nell’inferno, e che certa gente, come me, doveva vivere nell’inferno prima che loro morissero, al fine di compensare per l’omissione di ciò dopo la morte, giacché non credettero nella vita dopo la morte, e [ritenevo che] a quanto ognuno prestò fede che accadesse a lui quando moriva. … dovrebbe, pensai, esistere un rituale per nascere due volte – aggiustata, ricostruita e dichiarata buona per la strada [somigliante a un copertone d’automobile la psyché nella concezione plathiana]». Sylvia ha raggiunto la beatitudine eterna, una fama immortale: vogliamo immaginarla accanto a Dante mentre ha incontrato gli spiriti magni dell’antichità (Saffo, Ipazia d’Alessandria, Platone, il poeta “confessionale” Catullo…).