di DANILO CARUSO
“O
 amor natural” è il titolo di una raccolta di poesie degli anni ’80, 
pubblicata postuma, di Carlos Drummond de Andrade (1902-1987). Questa 
silloge, di uno tra i più autorevoli scrittori della letteratura 
brasiliana novecentesca, fu pubblicata nel ’92, e non passò inosservata 
per via dei suoi contenuti erotici: nel ’93 l’opera fu premiata in 
Portogallo. L’autore, di estrazione familiare borghese fondiaria, nel 
suo percorso di studi giovanili era passato dai gesuiti (dal cui 
collegio era stato espulso a causa della sua indole contestatrice). 
Diplomato in farmacia, fu un impiegato statale sino al ’62 (nel 1934-45 
fu capo di gabinetto al ministero dell’istruzione). Marxista sui 
generis, la sua mentalità si può comprendere accostandolo a Rousseau, 
col quale condivide il carattere sentimentale impegnato e l’ambizione a 
una solidarietà universale. Il suo lavoro poetico si sviluppò dentro la 
corrente del Modernismo che sollecitava l’abbandono di forme metriche 
preordinate a favore di un verso libero nel senso pieno della 
definizione, un verso dove la poesia non trovasse più intralci alla sua 
espressione. Drummond aveva preso in sposa nel ’25 una donna che aveva 
un paio d’anni più di lui (morirà nel ’94): un primo figlio gli morì 
poco dopo la nascita (1927), l’altra figlia Maria Julieta (1928-1987) 
morì alcuni giorni prima di lui. Maria Julieta Drummond de Andrade aveva
 sposato un Argentino nel ’49, il quale era un avvocato e uno scrittore.
 Trasferitasi a Buenos Aires, nel ruolo di storica, fu autrice della 
promozione culturale della sua terra natia. Il padre si recò più volte 
nell’Argentina peronista per la nascita dei nipoti. Non pochi sono stati
 gli atti di significativo e caloroso omaggio da parte dei Brasiliani al
 loro illustre rappresentante prima e dopo la sua scomparsa. La lirica 
di cui qui discuto in particolare, tratta da “O amor natural”, è la nona
 dell’edizione del ’92 con le illustrazioni di Milton Dacosta: “A bunda,
 que engraçada”, alle pagg. 35-36 precedute da un pertinente disegno. Il
 testo è un elogio del femmineo lato B. La materia lungi dall’essere 
triviale prerogativa di ignoranti figli di una decaduta società del 
benessere – il 90% degli uomini (scremato di quelli a cui la vita non ha
 dato l’opportunità di studiare) – necessita di essere affrontata 
partendo dai margini remoti. La comprensione non animale, e quindi sul 
serio umana, ci conduce nell’antichità e soprattutto nell’atemporale 
inconscio collettivo da cui emergono tutti i simboli. Le statuette 
femminili preistoriche connotate da steatopigia esprimono la 
preoccupazione e il desiderio in relazione alla prosperità alimentare. 
Esse rappresentano quel simbolo che si evolverà nella “callipigia” 
allorché, come afferma Hegel, la forma avrà trovato il suo equilibrio 
estetico con la materia nell’arte greca. All’epoca di Adriano risale 
presumibilmente la nota statua esposta al Museo archeologico di Napoli. 
Afrodite Callipigia (alla lettera: dalle-belle-natiche) era ad 
esempio venerata nell’antica Siracusa. Il suo atto di esporre alla 
visione zone anatomiche (frontali o a tergo del corpo), sottoposte 
all’egida del senso comune della pudicizia, contiene, da un punto di 
vista psicoantropologico, il significato di manifestare opposizione in 
grado variabile: l’anásyrma (alzata-di-veste) contempla una gamma
 che va da forme di provocazione e irrisione a un vero e proprio gesto 
rituale di valenza propiziatoria. Mostrare i muliebria genitalia (cháos,
 apertura) sortisce un effetto particolare: terrorizzare. Ciò attraverso
 cui proviene la vita dell’universo può anche privare dell’essere o 
contribuire al ripristino dell’ordine venuto meno (una maledizione o una
 benedizione a seconda del caso). Si consideri a tal proposito il femminile
 a monte delle cosmogonie mitiche. Una anásyrma radicale (un istantaneo 
striptease) era la vecchia tradizione romana della “nudatio mimarum” la 
quale aveva luogo nei teatri, dopo una rappresentazione. Si comprende la
 radice apotropaica pubblica che univa l’utile al dilettevole. I 
festeggiamenti annuali, a cavallo tra aprile e maggio, volti a onorare 
la dea Flora (Floralia) erano altre circostanze in cui ragazze senza 
veli giravano attraversando le campagne allo scopo di garantire la 
produzione agricola. Le “anasyrámenai” erano comunque già presenti e 
diffuse in Grecia (culto di Demetra) e in Egitto (culto di Bastet, una 
divinità teriomorfa). Due somiglianti casi di anásyrma, distanti nello 
spazio inter se, confermano il sostrato originario dell’inconscio 
collettivo, il quale collega le mitologie greca e giapponese sulla 
superficie narrativa, tramite gli episodi di Demetra (rattristata dalla 
perdita di Persefone) e Baubò, e di Uzume (autrice di uno spogliarello 
al fine di propiziare il ritorno della divinità solare Amaterasu). In 
epoca romana Costantino aveva fatto abbattere un tempio posto sul luogo 
indicato dalla tradizione cristiana quale quello della morte di Cristo 
(il colle del Calvario), tempio adibito alla venerazione della 
Callipigia secondo quanto Adriano aveva stabilito. Un exemplum di 
anásyrma riguarda il potere di fermare una tempesta marina. Ora, se 
pensiamo all’episodio evangelico di Gesù che placa una bufera mentr’era 
in barca coi discepoli (i quali allarmati lo sollecitano), e al fatto 
che sul Calvario c’era un luogo sacro alla Callipigia, possiamo cogliere
 alcune sfaccettature della dicotomia culturale fra civiltà grecoromana e
 tradizione giudaicocristiana. Quest’ultima è stata in maniera forte 
misogina sino al punto di fare delle donne porte del diavolo e streghe,
 e torturarle e ucciderle con sadismo. Tutto ciò che era corpo femminile
 assumeva connotazioni demoniache di perversione di una normalità e una 
moralità assunte sulla base di parametri barbarici e pseudoscientifici. 
Archetipi negativi dell’“ombra” (lati malefici di un sintetizzando 
archetipo positivo o di esso regressione) hanno agito in qualità di 
modelli malati nella storia generando i loro simboli. Sarà stata anche 
la mancanza di auspici, il Cristianesimo ha fatto crollare l’Impero 
romano, la più alta manifestazione sociopolitica occidentale (se 
confrontata con il contesto in cui è emersa), con la conseguenza di 
disgregare l’Europa nel buio medievale della ragione, da cui questa si è
 ripresa un po’ grazie all’Illuminismo. Siamo adesso nelle condizioni di
 poter svolgere l’ermeneutica testuale. Prima di offrire una mia 
traduzione della poesia drummondiana, debbo puntualizzare diversi 
aspetti semantici a partire dal primo verso che dà il titolo alla 
lirica, il quale ho tradotto così: «La bunda, quant’è aggraziata 
[pneumatic]». “Bunda” è un sostantivo femminile del portoghese 
brasiliano indicante in generale “grandi natiche”: il concetto, tenendo 
conto delle dovute proporzioni, è avvicinabile a quello che presiede 
alle statuette steatopighe dell’era preistorica. Tuttavia questa 
accezione, più popolare, si restringe in un campo semantico più 
raffinato, originario dell’estremo sud-est brasiliano da cui l’autore 
del testo proveniva, e dove indica e pygé. Non ritengo che 
Drummond abbia usato il vocabolo nel primo significato per due motivi. 
Uno è quello linguistico regionale testé evocato: avrebbe potuto usare 
il sostantivo maschile “bundão” (o altro fra i caratteristici a livello 
nazionale quali “bundaça” o “bundana”). Il secondo è quello retorico: 
siamo in ambito poetico, e dunque dell’arte, dove il poeta sta 
rappresentando il bello. Perciò non c’è volgarità. Non ci sono 
misure precise, ma neanche eccessi. Drummond ha scritto una scultura di 
Afrodite Callipigia, allo stesso modo in cui gli scultori di Callipigie 
scolpivano “A bunda, que engraçada”. La “bunda” di tale testo è il lato β
 di Venere, nell’evocazione cosmico-simbolica già spiegata, e trasposta 
nei versi drummondiani seguendo la più alta ispirazione dell’inconscio 
collettivo (il poetare indotto da divina mania). “Engraçada” è 
aggettivo corrispondente al sostantivo “graça”, equivalente all’italiano
 “grazia”: entrambi tali nomi possono assumere sfumatura religiosa. 
Questo aspetto è contenuto nel termine adottato da Drummond: termine il 
quale, non so quanto in misura consapevole, esprime l’ascendenza 
concettuale simbolica con e kalé pygé. Il simbolo, mediante il 
sostrato inconscio collettivo, riemerge nella poesia drummondiana, dove 
assume una dimensione meno triviale di quella verso cui una traduzione, 
secondo me, inadeguata potrebbe piegarlo. Una lettura critica poco 
profonda si rassegnerebbe a tradurre “bunda” con “culo”. Non è la prima 
volta che non condivido ipotesi di volture, a mio avviso distorcenti e 
deformanti. Nel caso di “bunda”, il fatto è che tra simile vocabolo e 
“culo” intercorre la stessa formale differenza, per fare degli exempla 
di paragone, tra “chevalier” (un cavaliere) e “cavalier” (uno che va a cavallo),
 fra Mozart e Salieri. Credo che un termine così specifico, avente 
difficile resa con una parola italiana, debba essere adottato tale e 
quale, accompagnato dalla sua spiegazione da dizionario linguistico. 
Pertanto mi permetto di sostenere: l’aggettivo “engraçada” ha lo stesso 
valore dello huxleyano “pneumatic”, così come ho interpretato 
quest’ultimo in relazione a “Brave New World” e l’ho poi applicato a “La
 Madonna del latte in trono col Bambino” di Jean Fouquet (nei confronti 
della “bunda” va però assunto con polarità positiva, giacché, e non 
solo, al di fuori di quei contesti)1. L’aggettivo “mimoso” 
adottato nel v. 10 da Drummond («cadência mimosa»), al fine di 
puntualizzare una modalità della “bunda”, può significare, oltre che 
“delicato” (e affini), anche “favorito (sost. o agg.)” nel senso di eletto dal destino,
 ossia investito – in senso lato – della qualità denotata da 
“pneumatic”. In italiano sinonimo non elegante di “fortuna (sorte 
favorevole)” è “culo” (avere c. = avere f.). Chiarito ciò,
 lascio scegliere al lettore se adottare nella traduzione di “engraçada”
 l’aggettivo “aggraziata” o l’altro inglese, nel taglio semantico 
raffinato dato da Huxley nel “Mondo Nuovo”, “pneumatic”: la “bunda” è 
“pneumatica”, quindi non può mai essere “culo”. Stiamo parlando del lato
 β di Afrodite. Il che è implicito nel v. 2 della lirica drummondiana, 
laddove l’autore dice che la “bunda” «está sempre sorrindo»: 1) è 2) 
sempre 3) sorridente. 1) Il verbo portoghese estar, al contrario di ser,
 connette al suo soggetto un accidente separabile transitorio, cosa qui 
contraddetta dall’avverbio 2) sempre: non c’è contraddizione se pensiamo
 che la transitorietà non è temporale, bensì spaziale; non è in un 
passaggio di qualità individuale, ma in una differenza di soggetti 
(possessori o meno della qualità). Ogni bunda empirica fa parte 
della categoria semantica generica di femmineo lato B, tuttavia non ogni
 lato B è una “bunda” (conversio per accidens), un’ipostasi 
dell’afrodisio lato β (idea platonica e simbolo dell’inconscio 
collettivo). 3) Il sorriso è quello ingenuo dionisiaco delle 
statue greche arcaiche: ho usato un termine nell’accezione nietzschiana 
per dire della sua inopportunità semantica in relazione al suo concetto.
 Se Nietzsche non fosse stato maschilista avrebbe adottato una dicotomia
 più junghiana: apollineo/afrodisio; il complementare di apollineo non è
 dionisiaco, è afrodisio. Lo hanno compreso Jung, e in maniera del tutto
 distorta Weininger. A proposito di psicologia junghiana, la «praia 
infinita [spiaggia infinita]» del v. 16 indica l’inconscio collettivo a livello metafisico, l’universo a livello fenomenico.
 In portoghese il costrutto ir+gerundio, presente nel v. 17, denota 
sottolineatura di un avvenimento (già iniziato). Ho tradotto «caos» del 
v. 19 con «cháos», riallacciandomi all’argomentazione su esposta in 
merito e in virtù di consequenziale suggestione proveniente dal celebre 
dipinto intitolato “L’origine du monde” di Courbet. Segue adesso il 
testo di “A bunda, que engraçada” nella mia traduzione.![]()  | 
| La statua di Afrodite Callipigia esposta al Museo archeologico di Napoli  | 
1    La bunda, quant’è aggraziata [pneumatica].
2    È sempre sorridente, mai è tragica.
3    Non le interessa quel che passa
4   dal lato α del corpo [pela frente do corpo]. La bunda è autonoma.
5    C’è qualcosa di meglio? Forse i seni.
6    Suvvia – mormora la bunda – a codeste birbe
7    ancora manca molto da studiare.
8    La bunda è composta di due lune gemelle
9    in circolare oscillazione. Va autarchica
10   in armonia delicata, nel miracolo
11   di essere dualità-nell’unità [duas em uma], pienamente.
12   La bunda si diverte
13   per conto proprio. E ama.
14   Nel letto s’inquieta. Montagne
15   si accrescono, calano. Onde che sbattono
16   su una spiaggia infinita.
17   Là va sorridendo la bunda. Va felice
18   nella carezza di esistere e dondolare.
19   Sfere armoniose sopra il cháos [caos].
20   La bunda è la bunda,
21   trabocca.
La
 tautologia del penultimo verso e la rima baciata con l’ultimo («A bunda
 é a bunda, / redunda») sono artifici retorici di efficace effetto 
sonoro e concettuale (ci sono due rime baciate: una interna al v. 20 e 
l’altra col v. 21). Carlos Drummond de Andrade nella sua poesia ha 
recuperato dallo spirito del profondo un simbolo positivo. 
Dall’avvento del Cristianesimo, l’Occidente è pervaso da simboli 
ancorati ad archetipi negativi. Pochi hanno l’intelligenza e 
l’istruzione adatte a inquadrare la fenomenologia dell’apparato 
simbolico cristiano, la cui religione misogina aveva promosso 
l’anoressia femminile al rango di manifestazione di santità. Ecco come 
si scontrano archetipi e immagini di mondi differenti: quello 
cristiano-medievale e quello pagano grecoromano, quest’ultimo più 
libero, sano ed equilibrato del primo. Tutti i frequentatori di chiese 
si scandalizzerebbero se – per assurdo – vedessero su un altare una 
Venere Callipigia o sentissero qualcuno recitare durante un rito “A 
bunda, que engraçada”, mentre a quasi nessuno di costoro – ad esempio – 
fa impressione che l’anoressica santa Caterina da Siena era soltanto una
 ragazza bisognosa di moderna assistenza medica, e soprattutto di 
ambienti familiare e sociale non predisponenti al disagio psichico. La 
libido si manifesta nelle espressioni umane (l’agire, l’arte, etc.): i 
prodotti sono segni della salute mentale; quelli che recano il marchio 
dell’“ombra” navigano nel solco del malessere.
NOTA
1 Per approfondimenti
http://danilocaruso.blogspot.it/2016/06/la-madonna-pneumatica-e-lenina-crowne.html
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria
