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domenica 4 agosto 2013

FRA VITALE LINO DA CASTRONOVO DI SICILIA

di DANILO CARUSO 

Il primo nucleo di frati francescani che si impiantò in Sicilia nel 1533 lo fece a Castronovo, dove costruì un convento collegato alla già esistente chiesa di san Nicola da Bari, sita nell’omonima contrada a un paio di chilometri dal paese.
La sede odierna dei cappuccini (che annette la chiesetta di santa Maria la Bagnara) è del 1625, ed è sorta dopo l’abbandono dell’originaria perché posta fuori dell’abitato con conseguenti disagi.
Nel periodo intermedio dal 1578 ci fu la costruzione di un altro convento, la cui struttura nel 1868 è divenuta sede di rappresentanza del Comune.
Fra Vitale, al secolo Francesco Lino (figlio di Vitale e Petronilla), di famiglia contadina, venne al mondo il 13 settembre 1868 a Castronovo (fu battezzato da Don Domenico Nocera).
Durante la fanciullezza, prima e dopo il lavoro, e oltre, nel tempo disponibile, era solito appartarsi in preghiera presso qualche edificio sacro.
A diciotto anni entrò come studente nel convento francescano di Palermo con l’appoggio dell’arciprete Traina.
Sul terminare del 1891 l’arcivescovo di Palermo, Cardinale Celesia, lo riteneva predisposto per l’ordinazione sacerdotale, ma con l’assunzione dell’abito cappuccino nel giorno dell’Immacolata (8 dicembre 1891) iniziò per lui il periodo da novizio a Caccamo (dove rimarrà fino al 1906): alla fine del 1892 prese i voti semplici e alla fine del 1895 fece la professione di adesione alla regola.
Sino al 1914, anno in cui fu trasferito stabilmente a Castronovo, stette in vari conventi per diversi periodi (Salemi, Caccamo, Sutera, Castronovo).
Nel convento del paese natio fu custode della dispensa e questuante, viene inoltre ricordato molto incline alla pia pratica della preghiera.
Sin d’allora s’impegnò affinché quella sede venisse restaurata: la sua iniziativa di sensibilizzazione permise di concludere quest’opera nel 1932.
Nel 1951 si recò a Roma con altri confratelli in occasione della canonizzazione del francescano sant’Ignazio di Laconi (1701-81).
La figura di fra Vitale era avvolta da un alone di santità grazie alla sua capacità di operare prodigiosamente e di inserirsi nelle vicissitudini umane e darvi una soluzione: utilizzava come “farmaco” la “pulisicchia”, ossia dei santini (della Madonna o di san Francesco d’Assisi), al cui dono per il soggetto bisognoso accompagnava delle preghiere.
In seguito a questa lodevole attività si guadagnò una fama di taumaturgo; in diversi casi intervenne con successo in favore di chi aveva problemi vari: con la salute personale, con la campagna, con le bestie, etc.
Un cugino di fra Vitale – Luigi Lino – andò a risiedere a Lercara nel periodo anni ’20 / anni ’50 in via Maria Santissima di Costantinopoli; costui qui aprì una bottega per il commercio tessile, passata poi a uno dei quattro figli, Vitale, che era sarto.
Anche per questo motivo fra Vitale si recava sovente a Lercara per la questua.
Era nei suoi desideri l’erezione qui di un convento – che purtroppo non sorse mai – di frati francescani, unito alla chiesa intitolata a santa Rosalia.
Soleva pure ogni tanto prendere parte alle manifestazioni religiose di Lercara.
Si spense il 13 febbraio 1960 a Palermo nel cui convento si trovava.
La salma fu tumulata a Palermo nel cimitero dei cappuccini, nel 1986 fu traslata in quello di Castronovo, e infine nel 1998 vi è stata la traslazione nei locali del convento.

IL SERVO DI DIO PIETRO DI VITALE

di DANILO CARUSO 

Pietro Di Vitale, sesto di otto fratelli – di cui due morti prima della sua nascita – venne al mondo il 14 dicembre 1916 a Castronovo di Sicilia, da Vitale e Anna Scimeca, in una modesta famiglia di contadini ma di solide tradizioni cristiane.
Venne battezzato il 21 dicembre e ricevette l’unzione crismale il 2 maggio 1921.
Entrò nella scuola elementare, sostenuto da una particolare intelligenza, nell’anno scolastico 1922-23.
Di profonda buona indole sin dall’infanzia in quegli anni fece il chierichetto alla Chiesa Madre della Santissima Trinità con uno zelo che era presago della sua vocazione sacerdotale (uno zio e una zia materni erano entrati in convento).
A causa della disagiata situazione economica della sua famiglia nel 1926 dovette interrompere la frequenza della scuola, ma in campagna dove badava alle mucche portava con sé i libri su cui studiava.
L’ambiente castronovese, oltre al clima familiare, con la presenza dei cappuccini fu di ulteriore stimolo alla maturazione spirituale del servo di Dio: nella sua breve esistenza ebbe contatti tra gli altri con fra Vitale Lino (1868-1960) morto in fama di santità.
Nel 1930 Pietro Di Vitale manifestò alla zia suora il proprio desiderio di aderire alla vita religiosa, e con il di lei sostegno e l’aiuto economico di amici per pagare la retta del seminario vi entrò l’anno successivo, dopo che l’arciprete di Castronovo Calogero Reina lo aiutò a completare gli studi elementari e lo avviò per quelli seminarili.
In quel periodo si iscrisse all’Azione cattolica castronovese (che frequentò nei suoi ritorni in paese suscitando apprezzamento) e divenne pure terziario francescano.
Entrato in seminario (l’otto dicembre 1931 aveva vestito nella rituale cerimonia la veste talare) ottenne per concorso una borsa di studio: costante obiettivo fu l’adeguamento della sua persona al progetto di santificazione che Dio ha in serbo per ogni uomo, perseguito con semplicità e vigore.
Sempre zelante nella sua condotta e ottimo conoscitore del latino ottenne, con altri seminaristi, in premio la possibilità di recarsi a Roma nell’Anno santo straordinario del 1933.
Fu dedito allo studio, nel suo diario personale scriveva: «Il Signore mi ha dato una intelligenza aperta e una volontà energica, un giorno di questi doni dovrò rendergli strettissimo conto; perciò bisogna che ne faccia buon uso col farmi santo e dotto per la sua gloria».
Ben presto divenne oggetto dell’ammirazione dei superiori e del rispetto degli altri compagni.
Verso la fine del 1933 passò dal seminario minore a quello maggiore.
Di ritorno per le non molto lunghe vacanze si prestava a Castronovo a opere di carità per i più bisognosi e di sensibilizzazione del prossimo ai valori della fede con particolare predilezione per i fanciulli in uno spirito di letizia francescana durato anche quando la malattia non gli permise più di allontanarsi da casa.
Ebbe una intensa devozione verso il Santissimo Sacramento e la Madonna: si tramanda che durante le sue estasi di preghiera nella sacrestia della Matrice di Castronovo si sollevasse da terra.
Nel 1934 si presentarono sintomi di malattia allo stomaco, che lo condurrà alla morte, e che lo costrinse nel tempo a ritornare diverse volte a casa per soggiorni di riposo più protratti.
Nel ’37 il servo di Dio Pietro Di Vitale ebbe temporaneamente, tramite Padre Giuseppe Germanà, un guanto di san Pio da Pietralcina, a cui era stata rivolta richiesta di intercessione in favore del suo recupero.
In questi anni al seminario venne preposto in infermeria come aiutante al fine di esentarlo da tutti gli obblighi cui, a causa della malattia, era impedito di attendere.
Molto debilitato finì per fare definitivo ritorno a Castronovo, recandosi a Palermo qualche volta per delle visite mediche.
Morì nella propria abitazione il 29 gennaio 1940, le sue ultime parole, rivolto alla madre, furono: «Mamma, viva Gesù e Maria!».
Il giorno seguente il suo corpo non manifestava i segni del rigor mortis, e i medici verificarono, ma invano, di un possibile caso di apparente decesso.
L’omaggio alla salma della gente castronovese fu così grande che questa fu trasportata nella chiesa di san Sebastiano.
Le esequie furono celebrate il 30 nella chiesa di san Francesco d’Assisi, per l’indisponibilità della matrice, alla presenza di molte delegazioni (tra cui quella del seminario).
Si racconta che quel giorno e in quella circostanza fossero caduti petali dal cielo.
Le spoglie vennero deposte in un loculo offerto dall’Opera castronovese dopolavoro tra quelli del gruppo riservato ai propri iscritti.
Il resti mortali del servo di Dio furono riesumati il 9 maggio 1986 e traslati il 14 dicembre nella Chiesa Madre della Santissima Trinità (dopo un passaggio nella sepoltura gentilizia dei Tramontana).
La causa di beatificazione di Pietro Di Vitale è stata aperta il 6 marzo 1987: nel 1997 si è chiuso il processo diocesano col passaggio alla seconda fase in Vaticano alla Congregazione per le cause dei santi.

SAN VITALE DA CASTRONOVO DI SICILIA

di DANILO CARUSO

San Vitale venne al mondo a Kars-nubu (una Castronovo di Sicilia di epoca islamica) nei primi anni del 900: padre Sergio de Mennita, madre Crisonica.
La sua famiglia era di origine bizantina, ricca e di alto lignaggio.
Fu battezzato nell’allora chiesa madre di Maria Santissima dell’Udienza e educato nella fede da precettori ecclesiastici di rito greco: in quell’ambiente isolano, al tempo della dominazione araba, i Cristiani usufruivano di una certa autonomia negli affari religiosi.
Maturò però in lui, non interessato agli studi, un’inclinazione spirituale che lo portò intorno al 950 a mettere da parte tutto ciò che era benessere e a ritirarsi nel monastero dei monaci basiliani – intitolato a san Filippo – ad Agira (in provincia di Enna): qui indossò la veste religiosa.
Vi rimase cinque anni dedicandosi quotidianamente con eccellente impegno alle pie pratiche religiose e lavorative.
Dopo questo quinquennio con una delegazione di confratelli si recò pellegrino a Roma presso i luoghi sacri.
Durante il viaggio, all’altezza di Terracina (in Campania), un serpente velenoso lo morse, ma riuscì a salvarsi miracolosamente facendo un segno di croce sulla ferita.
Dopo il pellegrinaggio, sulla via di casa, scelse di non rientrare in convento, e di fermarsi come eremita in Calabria su un’altura in località di Santa Severina: questa esperienza di ascesi durò due anni.
Nei successivi dodici anni stette in un imprecisato cenobio siciliano, che seguiva la regola basiliana, a perfezionare l’esercizio delle sue virtù.
Terminata quest’altra fase del suo percorso sentì il richiamo dei territori incontaminati calabresi che si offrivano alla vita degli anacoreti.
Trovò quindi sede su un fianco del monte Lipirachi.
In queste zone conobbe l’abate del convento di Locri, come lui proteso al distacco dalla mondanità attraverso la preghiera e il rigore (san Vitale gli ebbe a rivolgere fecondi ammaestramenti).
Andò successivamente a risiedere in un luogo solitario nella regione di Capo Spulico che dà sul mare, la quale per il suo isolamento si prestava a dare ospitalità peraltro a criminali.
Qui san Vitale riportò un clima di pace e di cordialità, e i residenti in quelle terre a Roseto vollero erigere riconoscenti una chiesa dedicandola a san Basilio.
Di questo periodo si tramanda anche il miracolo in cui egli pregò in favore dei raccolti minacciati da un’inondazione, la quale così invece alla fine diede frutti benefici.
In quegli anni cambiò più volte luogo d’eremitaggio (monte Rapparo, Sant’Angelo d’Asprono, monte San Giuliano).
Tornò dunque, temprato nello spirito, in alcuni cenobi, anche se per poco tempo, poiché la sua vocazione lo spingeva ad ascoltare il Signore nella quiete della solitudine.
Si stabilì perciò in un antro nelle vicinanze di Armento (in Basilicata) dove divenne proverbiale la sua familiarità con gli animali; una piccola composizione popolare  castronovese così recitava: «SANTU VITALI / FEDDA DI PANI / E DI LU RIESTU / NNI DUNA A LI CANI».
In diverse circostanze si rivolse, con esito positivo, a Dio chiedendogli di porre rimedio a bisogni più o meno gravi.
Gli eventi miracolosi legati alla sua vita proseguirono quando il governatore della provincia bizantina di Bari lo fece convocare, data la sua fama, per conoscerlo.
Con due religiosi che lo accompagnarono si recò da costui: lo confessò, e si adoperò pure durante quel soggiorno affinché un violentissimo temporale non arrecasse danni.
Lasciata Bari si mise all’opera per rimediare alla distruzione, attuata dai Musulmani, del monastero e della chiesa dei santi Adriano e Natalia: questo punto divenne un grande riferimento per i fedeli che nell’azione di san Vitale vedevano l’impronta della santità.
Verso la fine del secolo questo convento fu preso di mira dagli invasori islamici per essere depredato.
I confratelli di san Vitale temendo il peggio si misero in salvo fuggendo, lui rimase ad affrontarli: quando uno dei musulmani stava per ucciderlo questo fu colpito da un fulmine che gli fece cadere la scimitarra e si accasciò vittima di un’improvvisa sofferenza.
San Vitale fece sì che il suo attentatore guarisse, e che altresì, ammonendoli, gli aggressori si ritirassero da quelle terre.
Chi gli si rivolgeva con animo sincero era sempre ben accolto e raccomandato all’assistenza della grazia divina (come, per esempio, un uomo che ottenne di avere figli), e in particolar modo chi era caduto nell’errore aveva l’occasione di emendarsi e di liberarsi dalla sua punizione (come, in un altro esempio, la mentitrice che aveva pronunciato a sproposito il nome di Dio).
San Vitale applicò appieno la norma evangelica dell’amore universale, specialmente nei confronti dei peccatori per il fatto che considerava più importante il momento del recupero che quello della penitenza in sé e per sé.
Negli ultimi anni della sua esistenza terrena diede vita a due monasteri lucani: quello di Torri (con l’aiuto del nipote, il beato Elia, di origine castronovese pure lui, e che contemporaneamente allo zio si era fatto monaco ritirandosi allora nel cenobio basiliano a pochi chilometri da Castronovo in contrada Melia) e quello di Rapolla (monasteri che furono le ultime due sue dimore).
L’abitato di Castronovo di Sant’Andrea, in provincia di Potenza, vicino ad Armento, deve a san Vitale la sua fondazione, e la sua denominazione, essendo egli memore della città natia (la specificazione “di Sant’Andrea” fu aggiunta secoli dopo).
Si spense il 9 marzo 994, dopo aver indicato il nuovo abate: la sua salma fu tumulata inizialmente nella chiesa del convento in cui morì, nel 1024 fu traslata in quella di un altro cenobio (a Guardia Perticara, il cui abate era il nipote Elia), da qui fu spostata a Torri (per proteggerla dagli assalti dei Musulmani) e poi ad Armento (per volontà del feudatario di quel territorio che la fece collocare a latere di quella di san Luca di Demenna), entrambi furono posti poi a Tricarico (in provincia di Matera) nella cattedrale.
Un trittico quattrocentesco con questi due santi e in mezzo la Vergine si trova nel duomo di Armento.
In ultimo i resti di san Vitale ritornarono ad Armento, dove sono custoditi dentro una teca recante la scritta “SANCTI VITALIS RELIQUIAE” (in questo paese nell’anno della sua morte fu eretto un convento di monaci basiliani).
Una sua prima biografia, opera redatta da un monaco basiliano suo contemporaneo, in greco antico su pergamene andate perse, venne ritrovata nel monastero di Armento: questo testo fu, un secolo dopo la scomparsa del santo, tradotto in latino: la versione in tale lingua è l’unica rimasta.
In Sicilia la notizia che avessero un concittadino elevato all’onore degli altari giunse ai Castronovesi da Armento con notevole ritardo nel 1660/70, tuttavia non tardarono a dedicargli una chiesa (già aperta nel 1671), a ottenere qualche reliquia e a eleggerlo loro patrono al posto di san Giorgio (6 settembre 1704).
Successivamente, dal ’700, si tramanda in Castronovo che san Vitale venuto in sogno a un lavoratore del legno e al proprietario di un certo olivo avesse chiesto di realizzargli un simulacro: l’opera, di Antonino Giordano, è custodita nella chiesa del santo.
San Vitale è patrono di Armento (PZ) e di Castronovo di Sicilia, paesi gemellati; viene festeggiato in entrambi il 9 marzo, e in più a Castronovo a inizio del mese di agosto.
In passato l’otto marzo i Castronovesi festeggiavano pure il beato Elia nipote di san Vitale.

IL SERVO DI DIO FRANCESCO PAOLO GRAVINA

di DANILO CARUSO
  
Francesco Paolo Gravina, principe di Palagonia e di Lercara Friddi, nacque nel 1800 a Palermo. Sua madre, Provvidenza Gravina e Gaetani (1774-1805), aveva sposato lo zio, Salvatore Gravina e Cottone (1742-1826), per garantire ai Gravina la continuità del titolo di principe (concesso nel ’600), poiché figlia unica di Ferdinando Francesco II: una norma testamentaria di Ignazio Sebastiano Gravina aveva creato questo meccanismo in previsione. Fu l’ultimogenito della coppia, dopo due gemelli nati morti e quattro sorelle nate tra il 1792 e il 1797 (Agata, Francesca Paola, Giulia, Gioacchina: la prima sposerà Vincenzo Grifeo principe di Partanna, le altre si monacheranno).
La sua famiglia, proveniente dalla Puglia e presente in Sicilia dal 1300, coltivava una devozione per il santo di Paola: infatti il suo nome fu esattamente Francesco di Paola Ferdinando […] Gravina. La sua educazione fu improntata agli insegnamenti della Chiesa Cattolica: sarà sempre un cristiano nella fede e nelle opere.
Ebbe una giovinezza spensierata appartenendo a una famiglia tra le più influenti dell’isola (Palazzo Comitini sede in passato della prefettura di Palermo e ora della provincia apparteneva ai Gravina). Il padre di Francesco nei fatti non godeva del titolo di principe, ma nel loro palazzo residenziale la servitù e gli altri si rivolgevano a lui come tale. Durante l’epoca napoleonica i Gravina ospitarono tra gli altri Inglesi l’ammiraglio Nelson. Allora la corte borbonica si era trasferita a Palermo (a Napoli c’era Giuseppe Bonaparte), e per loro fu un periodo di particolare fulgore.
Francesco Paolo Gravina sposò nel 1819 la coetanea Maria Nicoletta Filangeri, figlia del principe di Cutò, la quale finì però ben presto per tradirlo con Francesco Paolo Notarbartolo, figlio del principe di Sciara (di quattr’anni più giovane di lei). Non appena la notizia, che fermentava lentamente, si diffuse a Palermo fu uno scandalo: nel 1829 il principe, che nel frattempo aveva adottato la misura di dormire in un camera per sé, raggiunto il limite dell’umana e cristiana sopportazione, ordinò all’usciere di casa di rispedire al mittente la consorte di ritorno una notte. Lei ritornò indietro volentieri. Non si sarebbero più rivisti.
Dopo la sua morte (il principe lascerà nel testamento la disposizione per messe in suffragio di entrambi) lei sposerà religiosamente il Notarbartolo. Inizialmente la nuova condizione fu per lui difficile da affrontare: si ritirò a meditare sul da farsi, aveva quasi trent’anni.
Due erano le strade che aveva di fronte: divorziare, rifarsi una vita e una famiglia per garantire quel meccanismo di successione (dalla moglie non aveva avuto figli) artificiosamente aggirato in precedenza; oppure rimanere coerenti in Cristo e aprirsi a nuove prospettive. Prevalse questa seconda via, il Gravina non volle mai divorziare conformemente agli insegnamenti del Vangelo: ciò gli ha meritato l’appellativo di ultimo principe. Iniziò il suo apostolato di carità e beneficenza quasi in sordina a Palermo. Tutti i suoi immobili diverranno a poco a poco centri di accoglienza per i poveri, gli emarginati e i diseredati.
Divenne in breve tempo noto per il suo attivismo nella testimonianza dei principi cristiani. Dopo essere stato sindaco (chiamato allora pretore)  di Palermo (1832-1834), gli fu affidata l’emergenza colera, che esploderà in Sicilia negli anni ’36-’37, nel capoluogo isolano, emergenza che superò tramite la creazione del Deposito di Mendicità, un ente per il ricovero degli indigenti. Nel 1839 divenne responsabile del Reale Albergo dei Poveri, un altro ente di concentramento, stavolta pubblico.
Nel suo palazzo che aveva destinato pure a struttura di accoglienza, alloggiava in una stanza vicino al suo segretario. La sua giornata trascorreva sovrintendendo ai suoi ricoveri.
Nel 1837 richiese e ottenne per il Deposito di Mendicità il distaccamento di un gruppo di suore; e nel 1847 ci sarà la concessione ecclesiastica della regola per il nuovo ordine delle Suore di Carità del Principe di Palagonia (lui le aveva effettivamente chiamate di san Vincenzo de’ Paoli). E’ stato sinora l’unico laico a istituire un ordine religioso. Rimarrà suo sogno non esaudito quello di poter istituire un analogo ordine maschile per la mancata disponibilità di frati.
Il principe si era distinto anche a Lercara per il sostegno che dava alla popolazione bisognosa (in particolar modo durante l’epidemia colerica del ’37), e per la difesa dell’ambiente e della salute dell’intera comunità in relazione alla questione della lavorazione dello zolfo. Qui possedeva una miniera, dei terreni e alcuni edifici. Tra gli altri: l’attuale Sala Principe di Palagonia (ex cineteatro) all’epoca da lui affidata a una compagnia di attori, e Palazzo Palagonia sede attualmente del comune, immobili (entrambi allora dei magazzini) che dopo la sua morte furono acquisiti dal comune di Lercara. Era solito venirvi ogni tanto, ma durante una sua visita, l’otto maggio 1849, fu assalito dalla folla e non vi mise più piede, non tralasciando però di avere ancora per Lercara una certa considerazione, nonostante l’amaro episodio, nelle sue opere di carità che avevano come centro Palermo.
La rivoluzione antiborbonica del ’48 lo vide schierato all’interno del parlamento siciliano (era membro della camera dei pari) in favore dell’indipendenza dell’isola. I Borboni ritorneranno nel ’49, ma lui per intima coerenza non farà abiura di quell’atto, a differenza di molti altri opportunisti, il che gli alienò le simpatie della corona. Il principe morì all’età di 54 anni: per le sue  esequie volle che la sua salma fosse vestita di un saio ed essere trasportato col capo appoggiato a una tegola come san Francesco: il giorno del suo funerale una folla enorme lo seguiva. La salma deposta nella chiesa di Baida fuori Palermo è stata traslata nel 1958 nella Casa madre delle Suore di Carità. Nel 1990 il cardinale, allora arcivescovo di Palermo, Pappalardo ha dato il via alla sua causa di beatificazione.