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lunedì 25 luglio 2016

IL “DESTINO” DI SYLVIA PLATH E “DADDY”

di DANILO CARUSO

Due sono i saggi che ho scritto sulla poetica plathiana: 1) “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, 2) “Sulla poesia di Sylvia Plath”.
In essi ho presentato il mio modello analitico junghiano (per i cui maggiori approfondimenti suggerisco di leggere integralmente i suddetti lavori critici). Da questi ho estratto delle sezioni, qui riportate, al fine di illustrare assieme al contenuto della celeberrima poesia plathiana “Daddy” pertinenti elementi della mia lettura della grandissima scrittrice di Boston: la quale aveva sposato il poeta inglese Ted Hughes (1930-1998), una non positiva figura nel contesto del di lei suicidio nel ’63 a poco più di trent’anni.
“Destino” è un cortometraggio animato realizzato nel 2003, ma il cui progetto risaliva al 1945-46, all’iniziativa maturata tra Salvador Dalí e Walt Disney (è stato un nipote di quest’ultimo a riprendere i frutti di quel felice connubio artistico rimasti, prima del suo intervento nel ’99, senza esito conclusivo a causa di questioni di opportunità). Il testo in inglese che accompagna le immagini è di Ray Gilbert (“My destiny in love”), voltura per il cortometraggio di un brano del Messicano Armando Dominguez (“Destino”, da cui scaturì il titolo dell’opera animata).
Questo filmato non ha mai avuto un filo diretto con Sylvia Plath, tuttavia guardato con attenzione si rivela un’allegoria della dialettica junghiana “anima/animus” che calza pressoché alla perfezione al caso della scrittrice di Boston. Sembra una rappresentazione animata del processo di individuazione plathiano, motore della poetica della poetessa bostoniana.
La scena di apertura mostra delle analogie con i temi che ho evidenziato a proposito di “Conversation among the ruins”, la poesia plathiana che si ispira a un dipinto dechirichiano (“Conversazione tra le rovine”). La ballerina protagonista del video disneyano rappresenta l’io femminile che va alla ricerca del proprio animus junghiano.
E la piramide che costei si trova di fronte raccoglie una considerevole serie di simboli che rinviano a relativi contenuti dei miei saggi dove ho spiegato il loro legame con la Plath. Innanzitutto la piramide raffigura la tetrattide e il mondo fenomenico (quello spaziotemporale) dentro a cui l’autrice di Boston, e ogni altro essere umano, si trova a vivere: una realtà distopica, disagevole per chi ha una comprensione dell’essere di ampiezza maggiore rispetto alla consuetudine quotidiana, dove la vocazione negativa (frommiana) dell’avere non lascia margine di sviluppo positivo all’altra potenzialità di crescita creativa. Questi sono i limiti che hanno imprigionato Sylvia e le persone di talento, rigettate da un sistema che appiattisce le intelligenze (questo è il tema di “The bell jar”).
Scendendo oltre nel dettaglio di “Destino” ritroviamo i due complessi plathiani che hanno condizionato la psiche di Sylvia: quello paterno incombente durante la fase di ricerca dell’animus (la figura maschile sulla facciata frontale della piramide), e quello materno (la maschera gorgonica, rinviante all’archetipo di Grande madre, in questo caso negativa). Quest’ultimo complesso psichico agiva lungo il cammino di individuazione junghiano su un gradino superiore in confronto dell’altro, il quale gli contendeva un primato di attenzione (entrambi, in ogni caso, rimanevano motivi di malessere) presso l’Io plathiano. Quando la danzatrice prende e disintegra la piramide inizia il proprio percorso di elevazione nella dialettica “anima/animus”, dato che ha superato l’ingannevole facciata del reale guardando oltre nel surreale (costellato di tutti quei simboli intravisti non solo dall’analisi junghiana). Il giocatore di baseball rappresenta l’animus, ma subito compare la luna plathiana, guastafeste, simbolo archetipico della Grande madre (ancora negativa). La quale vanifica un approccio immediato, e mette in moto un cammino dell’anima rappresentato dall’ascesa sopra questo abbozzato corpo femminile posto sopra una torre di Babele). Tale ultimo aspetto richiama alla memoria il salire dantesco sulle balze del purgatorio.
Il viaggio di Dante è in fin dei conti un viaggio dell’animus verso l’anima (Beatrice) culminante con l’individuazione (la visione di Dio).
Gli occhi alla sommità ricordano il fenomenismo di Arthur Schopenhauer, e precisamente quel passo di “Die welt als wille und vorstellung” dove egli dice che il cosmo è sorto allorché si è aperto un occhio che percepisse l’empirico. Siffatti occhi costituiscono anche lo sguardo malevolo sistemico, lo sguardo che dal fondo della foresta insegue Sylvia (vedi la mia analisi di “Pursuit”): tali globi oculari imitano le fiere che insidiavano Dante nel I canto dell’“Inferno”.
Rifugiarsi nel cavo di una conchiglia ha quei significati che ho evidenziato riguardo alla ricerca di un rifugio dalla realtà matrigna: la danzatrice, al pari di Sylvia, ambisce a (ri)entrare in un rassicurante grembo materno offerto da una Grande madre positiva. Questo per la Plath studentessa è un momento critico, è quello del tentato suicidio del ’53, da cui risorgerà (Lady Lazarus). La forma d’occhio verso cui cade la ballerina non la risucchia, spoglia dell’equivalente delle P dantesche salta su delle cornette telefoniche (pensiamo alla scoperta della telefonata di Assia Wevill al marito fedifrago di Sylvia), le quali cornette si accompagnano a un momento di visione dell’animus intrappolato nella piramide (questo rappresenterebbe l’ambiguo Ted Hughes, versione dell’animus in relazione alla Plath legata al nocivo complesso paterno).
Nonostante tutto l’individuazione prosegue per il meglio alla fine, e la danzatrice/Sylvia va al di là della campana (pneumatica, si veda quanto ho scritto a tal riguardo su “The bell jar”), una campana fatta di ombra che lei annienta.
L’“ombra” è un concetto junghiano che riassume il negativo della psiche, negativo qui ormai superato. L’armonia interiore si fa danza. E la petalosa Sylvia raggiunge un animus genuino.
Nel corso della scena finale viene ribadito un risalto dato all’ethos spirituale greco antico, familiare a De Chirico e alla Plath, e antitetico alla industrializzata distopica modernità (una testa di Zeus era già apparsa prima).


Espressione poetica plathiana di risoluzione non solo del rapporto col padre è “Daddy”, lirica datata 12 ottobre ’62: tale regolamento del suo legame, accelerato dagli eventi di quel ’62, è posteriore a “Little Fugue” (del 2 aprile 1962) che lo introduce. Quando Sylvia Plath declamò “Daddy” alla BBC spiegò che la protagonista dei versi è figlia di un aderente al nazismo e di una madre forse di origine ebraica. Il personaggio narrante, affetto da complesso di Elettra (schema psicologico interpretativo ideato da Jung), ha perso il padre il quale considerava Dio (la proiezione freudiana “padre/Dio” qui si ribalta), e soffre la interiorizzata contraddizione accennata nazismo/ebraismo, riuscendo tuttavia a sfuggirle.
I motivi autobiografici del componimento sono però troppo evidenti, come altresì le sue connotazioni psicologiche, che la Plath stessa non cela. Ma esse sono più ampie rispetto a quel pur importante accenno. Questo «daddy», «pesante come marmo», è definito una «orrenda statua», un “colossus rodiese”, avente «una testa nello stravagante Atlantico».
L’impressione è che l’altra testa di siffatto mostro, ridestatosi, sia Ted Hughes, l’artefice del risveglio del malessere esistenziale di Sylvia. Lei stessa nei suoi diari parla della preoccupazione di essere accantonata dal marito. Un episodio la aveva molto turbata, facendola infuriare, allo “Smith College” nel ’58, in occasione della chiusura dell’anno accademico, allorché non vide Ted sul posto di un appuntamento, e cercatolo lo scoprì in compagnia di una studentessa la quale, appena si accorse di lei, scappò via. Identificandolo col padre quindi eleva simile potenziale caso al livello della perdita del genitore, il quale viene a coincidere con la figura di Ted: è però il passato a proiettarsi davanti a condizionare la psiche della poetessa con il suo groviglio di relazioni dissestate (quella virtuale in direzione del padre e quella reale e attuale con la madre). Hughes, da surrogato positivo della figura paterna, si era tramutato con la sua condotta fedifraga in una “nuova testa” di quell’antico mostro. La parola “daddy” presenta una forte paronomasia col vezzeggiativo “Teddy” (da riferirsi a Hughes): il mostro bicefalo di cui parla il componimento è “daddy/Teddy (Hughes)”. Non avrebbe senso al termine del ’62 un elaborato del genere senza il fattore Hughes. La Plath utilizza livelli intenzionali di comunicazione sovrapposti. Il non contare più («you do not do / any more») e l’aggressività hanno un destinatario allora più attuale: il marito, con cui tra l’altro aveva condiviso la spiaggia della sua infanzia, quella di Nauset (sita vicino a Boston), durante il loro periodo americano. Le consonanti “d” e “t” sono definite in fonetica “dentali”.
Al primo incontro fra Hughes e la Plath nel ’56, lei gli diede un morso sulla guancia (un segno non d’aggressività), facendogli uscire del sangue dopo essere stata baciata sul collo. Quest’immagine mi ricorda l’intensità del gesto di Eva che mangia dall’albero della conoscenza, un albero che alla fine deluderà Sylvia. Nel testo in esame lei afferma che la protagonista narrante (la sua trasposizione letteraria), ha dieci anni nel momento in cui perde il padre, mentre nella realtà la scrittrice fu un poco più piccola. Detto “10” è una tetraktys pitagorica e individua il sistema di riferimento del mondo sensibile: 1 (il punto)+2 (la linea)+3 (la figura piana: la prima il triangolo)+4 (il solido: il primo il tetraedro).
In parole povere Sylvia afferma che la dipartita del suo genitore fu l’evento primordiale a far scattare la molla della sua personale dialettica di elevazione: la realtà quotidiana le si rivelò una tappa di partenza alla volta di mete più alte, una tappa dove molti altri rimangono zavorrati nell’ignoranza e nella mediocrità le quali rigettano personalità al di fuori di una pseudonormalità, che di fatto è smarrimento e perdizione dell’essere. La parte spregevole del mondo dichiarò guerra a lei: non è stata Sylvia a non andare, è il resto che non funzionava al meglio. Inoltre un arco decennale nel suo dire indica una delle quattro ere della sua esistenza, idest un arco cronologico simbolico di riferimento: cosicché nel punto in cui dichiara «a venti [anni; n.d.r.] cercai di morire» si riferisce all’atto culminante della seconda stagione esistenziale. I versi finali di “Daddy”, passanti attraverso la profonda immagine del rimettere assieme i cocci e rincollarli in un nuovo mosaico, sono molto incisivi e vigorosi allorché l’autrice dichiara di aver chiuso i conti col mostro che la perseguitava da quando era bambina. Ella dice: «Se ho ucciso un uomo [simbolicamente, adesso, il padre; n.d.r], ne ho uccisi due [l’altra testa del mostro, bicefalo, è Ted Hughes: il surrogato, il luogotenente paterno, cui è rivolta l’immagine seguente; n.d.r.] – / il vampiro che disse che eri tu / e bevve il mio sangue per un anno, / sette anni, se vuoi saperlo [7-1=6, gli anni di matrimonio; ma 7 è pure la totalità della sua vita; n.d.r.]».
Questi ultimi versi rappresentano un’accusa indirizzata a Hughes di essersi servito di lei a guisa di un vampiro (una suggestione da immagine freudiana) alimentante il suo ego. Diversi indizi rimandano a lui e ad Assia Wevill: 1) «l’uomo nero che / sbranò il mio leggiadro cuore in due»; 2) «un uomo nero con un look da Meinkampf»; 3) «il telefono nero è fuori uso alla radice, / le voci appunto non possono insinuarsi»; 4) «ogni donna adora una fascista». 1) L’«uomo nero», «black man» e «man in black» dei rispettivamente citati versi di 1) e 2), ci riporta a un componimento della Plath dell’aprile del ’59: “Man in Black”. Qui il personaggio «in cappotto di color nero lutto, scarpe nere [si veda «black shoe del v. 2 di “Daddy”»; n.d.r.]» è Ted Hughes, consustanziato al padre di Sylvia: un intreccio di intenzioni di significato di tal fatta, però più articolato e complesso, si ripresenta in “Daddy”. 2) La relazione nazismo/ebraismo attraversante “Daddy” esprime il malessere personale della Plath, non assume una espansa dimensione storica: la sua letteraria ed esistenziale condizione di Ebrea denota il suo disagio individuale (o se vogliamo dirla in maniera più precisa con Jung, di “individuazione”). Non trascurando che le connotazioni naziste si addicono e pertengono pur sempre anche al padre, è da rilevare un’allusione, a questo riguardo, a Hughes: costui era considerabile “ortodosso” nei confronti del dominio letterario e critico in quei tempi esercitato negli ambienti inglesi da Thomas Stearns Eliot (1888-1965), il “premio Nobel” misogino e antisemita. Il «Meinkampf look» pertanto può essere altresì il suo in considerazione della sua innocua poetica osservante del modello dominante conservatore (Ted Hughes riceverà in patria altissimi riconoscimenti sia da vivo che da morto). 3) Sylvia Plath aveva scoperto una telefonata della Wevill a Hughes: la sua reazione fu quella di sradicare l’apparecchio telefonico dal suo collegamento alla rete. 4) In virtù del ragionamento esposto in 2) il v. 48 di “Daddy” si può benissimo intendere nel suo fondo alludente ad Assia Wevill. Cioè: ogni donna in grado di rubare il marito di un’altra si merita, essendone degna, un altro essere spregevole («Fascist»): «il bruto cuore di un bruto» le riserverà «lo stivale sulla faccia». E quel «bastard» del verso terminale ha più forza pensandolo per Hughes, seconda incarnazione del mostro, che non collegato maggiormente al padre, il quale rimane tuttavia l’antico simbolo di fondo del male che ha inquietato la Plath nell’arco della sua esistenza (il «sette» di prima).