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giovedì 11 maggio 2017

CLIVE STAPLES LEWIS E I PIANETI DELL’INCONSCIO

di DANILO CARUSO

The love of knowledge is a kind of madness.

Clive Staples Lewis, “Out of the silent planet”


“Out of the silent planet (1938)” e “Perelandra (1943)” sono due romanzi di Clive Staples Lewis, i cui contenuti, in apparenza inscritti in una tematica fantastica o fantascientifica, sono da leggere e interpretare seguendo un particolare canone ermeneutico di matrice psicologica proveniente dal sistema analitico di Carl Gustav Jung. È lo stesso autore dei racconti, alla fine della prima opera facente parte della sua famosa trilogia cosmica, a fare dei velati riferimenti allo studioso svizzero (nelle iniziali «C. J.», «J.»), e quindi a offrire in maniera indiretta la chiave di lettura delle sue parole. I romanzi di tale famosa trilogia furono il risultato letterario scaturito da una scommessa dell’autore col suo amico Tolkien: ognuno dei due avrebbe dovuto scrivere una storia il cui asse portante fosse una trattazione del tema del mito, nel caso del primo, secondo un’ottica che si sviluppasse nello spazio, nel caso dell’altro, invece, secondo una prospettiva che prendesse spunto dalla dimensione temporale. Il fatto stesso che la materia mitologica avesse dato origine a un ciclo di testi molto pregnanti sotto tale profilo, indurrebbe di per sé a impostare l’approccio critico sulla base di un consono metro di analisi. E siffatto metro è possibile assumerlo grazie alla psicologia analitica junghiana, la quale offre strumenti interpretativi che danno ampio riscontro positivo nella lettura in siffatta direzione. Jung e Lewis hanno in comune l’idea per cui il mito non sia solo un insieme di libere fantasticherie prodotte dall’ingenuità e dall’ignoranza umane. A loro avviso nelle figurazioni mitologiche viene rappresentato qualcosa di più profondo e significativo di quanto possa mostrarsi a uno sguardo superficiale. La psicologia junghiana considera i miti e le loro immagini (simboli) il risultato di un’attività elaborativa inconscia di carattere universale e interpersonale: essa sintetizza modelli di comportamento (archetipi) i quali, attraverso i simboli, indicano la via d’uscita da conflitti e tensioni di natura psichica. Pertanto la mitologia viene a rivestire un ruolo pedagogico, il quale ritroviamo con una maggiore dimensione ontologica in Lewis, giacché a suo avviso, quello di un cristiano, il mito è prefigurazione di qualcosa di reale: è una sorta di profezia; preannunzio, intuizione, di una realtà religiosa a venire. Cosicché la psicologia analitica di Jung e il narrato di Lewis assumono, in detti di lui romanzi, la connotazione di due facce di una singola medaglia. I viaggi interplanetari del filologo Elwin Ransom (studioso di Leicester, fellow a Cambridge) non sono letterali nel loro piano fantascientifico. Non vanno visti come un percorso di fantasia, né come pretesto di esposizione di una teologia fantastica. I tratti delle narrazioni lewisiane orientano di là dalla loro superficie, da inquadrare bene, alla volta di significati che possiamo unicamente recuperare in maniera nitida soltanto mediante un’ermeneutica junghiana. Nel primo testo, risalente al 1938, il pianeta Malacandra (in tal modo chiamato Marte dai suoi abitanti) si ricollega all’archetipo dell’animus. Per quanto concerne la storia, Ransom è stato rapito e portato su Marte da una sua vecchia conoscenza (Dick Devine) e dal professor Weston (uno scienziato in grado di costruire un’astronave spaziale). Gli abitanti marziani incontrati dal filologo protagonista costituiscono una rappresentazione letteraria di funzioni dell’animus, il quale presiede alla componente della psiche umana ispirante i comportamenti mentali intellettivi. I séroni, i rossa, i pfifltriggi sono rispettivamente simboli dell’intelligenza speculativa, creativa e operativa. In particolare i secondi fungono da sponda verso l’archetipo dell’anima (il quale a sua volta, nell’ambito delle funzioni soggettive della razionalità, ispira un agire non logico-astratto, bensì di natura sentimentale). Sebbene i due archetipi dell’animus e dell’anima possano essere allineati lungo i binari del maschile e del femminile, non bisogna pensare che ogni singolo individuo nella sua configurazione somatica incarni al 100% uno dei due modelli. Ogni essere umano è impastato di una interiore dialettica “anima/animus”, senza dubbio condizionata dal bipolarismo biologico maschio/femmina. Tuttavia ciascuna entità psicosomatica ha davanti lo scopo esistenziale di sanare in sé l’altra controparte, in quello che Jung denomina “processo di individuazione”: nel lago della psiche personale, dalla coscienza fondata e incentrata sul complesso dell’Io sessuato, alla coscienza (globale) del Sé, che integra a seconda del sesso, per opposizione, o il complesso dell’animus (donna) o dell’anima (uomo)1. Al fine di chiarire la materia sopra accennata, pensiamo all’attributo caratteriale del coraggio, ritenuto un connotato dell’uomo: questo non vuol dire che non ci siano donne coraggiose, o esempio di coraggio fra di loro. D’altro canto, se ritorniamo ai coraggiosi rossa malacandriani, costoro attraverso una facoltà logica ordinatrice, riescono a produrre la poesia partendo da una base emotiva, la quale è giudicata proprietà distintiva della donna. Ma anche qui notiamo che le emozioni, come il coraggio, sono possibilità comportamentali a disposizione di tutta l’umanità, al di fuori di una distinzione somatica esteriore. I viaggi dello studioso di Leicester disegnano un quadro esplorativo di archetipi e simboli. Malacandra, o Marte, è il campo del maschile. Oyarsa, l’Elohiym a capo del pianeta, incontrato dal filologo nel finale del romanzo, rappresenta un simbolo dell’archetipo del vecchio saggio, meta del processo di individuazione di un uomo. Il Dio unico, creatore dell’universo (psichico), è narrativa “immagine primordiale” dell’indifferenziato (archetipo sommo). Egli è trino: Vecchio Padre («the Old One», «Father»), Maleldil, Terza Persona («Third One»). E guida Ransom nei suoi viaggi. Le esplorazioni dei testi lewisiani possono essere accostate al viaggio oltremondano dantesco. Creature particolari immaginate da Lewis sono gli eldila, esseri quasi invisibili, difficilmente percepibili, il cui compito è quello di essere al servizio, e messaggeri, di Maleldil. Nella prima opera il filologo sfuggito ai suoi sequestratori incontrerà Oyarsa, il quale poi rimanderà tutti e tre sulla Terra (Thulcandra per i Malacandriani, ossia pianeta silenzioso). L’Oyarsa – l’Elohiym – terrestre, respingendo l’ordine dato al cosmo (psichico) da Maleldil, ha fatto sì che il nostro pianeta fuoruscisse dal circuito di comunicazione tra le intelligenze ordinatrici planetarie: in questo modo è rimasto avvolto nel silenzio, o per meglio dire in termini junghiani nell’ombra. L’“ombra” di cui parla Jung è una forza dell’inconscio collettivo ispiratrice di comportamenti irrazionali, illeciti. Simili atteggiamenti, cui conduce, sovvertono l’equilibrio di sanità generato dalle facoltà della razionalità (pensiero logico e sentimento). L’irrazionalità fa parte delle possibilità esistenziali dell’agire umano. Jung collega la funzione percettiva dell’esteriore e quella alogica intuitiva di qualcosa attraverso oltre o situata altrove a questo piano irrazionale. L’“ombra” di per sé, in veste di potenza di libertà, è insopprimibile senza sopprimere la libertà umana medesima. In qualità di causa di un deliberato atto può essere bloccata. Essa è, alla base della libertà, un perpetuo monito all’agire dell’umanità: al di là di una consapevolezza, la quale deve però rimanere sempre potenziale, del male, non c’è né bene né libertà. Nonostante l’avvertimento, purtroppo pratico della possibilità di azioni irrazionali, l’“ombra” trova ampio spazio nella storia umana. Il che viene sottolineato in “Out of the silent planet” per mezzo degli antagonisti dello studioso di Leicester: Devine, che brama la ricchezza; Weston, araldo di un imperialismo occidentale allargato a uno spazio interplanetario. Quest’ultimo sarà nel secondo racconto della triade lewisiana ancora una volta il campione dell’irrazionale, sino al punto che l’“ombra” stessa prenderà posto nel suo corpo della sua persona. “Perelandra” (uscito nel 1943) presenta un testo più articolato nel suoi contenuti concettuali rispetto al precedente, di cui è prosecuzione in quella investigazione psicoanalitica che Elwin Ransom si trova a vivere grazie alle sue esperienze di letterari contatti alieni. La seconda opera parla del viaggio del filologo su Perelandra, ossia Venere. La modalità in cui egli raggiunge il pianeta è meno usuale di quanto ci si possa aspettare in un romanzo, a prima vista, di fantascienza. Costui infatti, sotto la regia dell’Oyarsa di Malacandra, raggiunge Perelandra dentro un singolare veicolo: qualcosa che ha le fattezze di una bara di materiale trasparente. Ciò potrebbe disorientare un lettore sprovveduto e superficiale, quando in effetti non c’è niente di impressionante. Questa specie di sarcofago spaziale evoca un’immagine opposta a quella che il primo impatto vorrebbe (in maniera non ragionata) in una mente volgare. Siffatta bara al cui interno il cantabrigian fellow alloggia nudo nel suo transito è il simbolo del grembo materno. È un’immagine che si può rintracciare, ad esempio, in “Edge” di Silvia Plath2. Allo stesso modo di “Edge”, l’icona uterina ha il semplice obiettivo di indicare, avviare, un processo di rinascita (spirituale). Il soggiorno del filologo su Venere illustra mediante tappe questo cammino di rigenerazione mirante alla volta del raggiungimento del Sé. Perelandra rappresenta il pianeta simbolo dell’archetipo dell’anima: in virtù di esso si esce fuori di una esclusiva comprensione logica e fenomenica della realtà chiusa sotto questo riguardo in coordinate spaziotemporali. Le isole galleggianti di Venere («the floating islands of Perelandra») indicano il venir meno di una conoscenza ordinata secondo lo spazio e il tempo, conoscenza generante il “fenomeno”. Dette isole, zattere mobili sul mare, simboleggiano contenuti meta fenomenici: i kantiani “noumeni”. La terraferma («Fixed Land»), che all’inizio del racconto costituisce una zona interdetta a una libera permanenza alla donna verde («the Green Lady», «Queen of Perelandra»; svestita al pari di Ransom, e simbolo dell’archetipo dell’anima), rappresenta il mondo fenomenico da calpestarsi meglio dopo aver conseguito l’individuazione junghiana3. Questo personaggio femminile nel suo incontro con lo studioso di Leicester esibisce all’inizio qualità di semplicità, le quali in generale in una donna tendono, dall’archetipo dell’anima passando nel solco dell’individuazione attraverso quello dell’animus, a conseguire, oltre questo, l’archetipo della Natura madre (non per niente ella si presenta con una carnagione verde e gli dice: «I am the Mother»). Sarà l’esperienza di Ransom a offrirle lo spunto, poi nel finale, per raggiungere il grado più elevato. È da notare nel romanzo che il simbolo archetipico dell’animus (al centro della prima opera della trilogia lewisiana) verrà fuori nella parte conclusiva, allorché il livello femminile più ingenuo e inesperto si sarà evoluto e sanato in quello superiore, a sua volta ponte dell’animus verso “il vecchio saggio”. Perelandra è il pianeta del “femminile” (che gode di un particolare canale di comunicazione col divino), pertanto l’animus e “il vecchio saggio” non possono che mostrarsi soltanto dopo l’individuazione del Sé. Tra questi due estremi di avvio di conclusione di simili cammini di crescita spirituale si collocano delle tappe intermedie. La «Green Lady» deve resistere alle lusinghe libertarie dell’“ombra”. Weston infatti è riuscito ad arrivare su Venere, stavolta, dopo aver mutato punto di vista, nei panni di araldo di un panlogismo hegeliano (associabile a quello dello Stato Unico zamjatiniano)4. Il suo corpo però cede il passo a una sorta di possessione demoniaca da parte dell’Oyarsa della Terra («Dark Lord», «black archon», «The Bent One»). Se l’apologia di una Ragione universale, da Weston sostenuta mentre era in sé, testimonia una deviazione della corretta razionalità nel momento in cui la si isola, d’altro canto altrettanto deleterio è il canto della sirena che l’“ombra” rivolge insistentemente alla donna verde. La suggestione che offre a lei di una pratica della libertà alle spalle dei confini del lecito e della sana ragione non avrà presa. Due aspetti della filosofia hegeliana tornano utili nella comprensione dei capitoli centrali di “Perelandra”. Nonostante le realtà psichica e fenomenica siano sottoposte a una esclusiva egida razionale, il meccanismo triadico della dialettica di Hegel ha luogo e valore interpretativo. Al nostro proposito ciò che occorre ricordare è che l’“immediatezza” offerta quale possibilità comportamentale dall’area dell’irrazionalità non è un bene. L’“ombra” indica un cammino non mediato dalle funzioni razionali: un agire sì libero, e in fin dei conti non del tutto, ma privo di quel momento intermedio che conduce alla matura coscienza (anche morale) dell’azione. L’irrazionalità quando è fonte di azione immediata, è causa di male. Ciò costituisce altresì l’assenza di quella base vocazionale dell’uomo collocata da Aristotele al principio della sana deliberazione della volontà che abbia di mira il bene, ossia il giusto mezzo. L’idea stando alla quale quanto sfugge a un’elaborazione di sintesi non porta suddetto bene sta a fondamento della dottrina junghiana degli archetipi. Il modello dell’archetipo si contrappone dunque in virtù della sua “medietà” a quello non positivo dell’“ombra”. Questa a sua volta indica schemi comportamentali che sono negativi pseudoarchetipi (con relativi simboli negativi), i quali non sono nient’altro che materia elaborativa di un archetipo vero e proprio: immediatezza che deve elevarsi alla medietà, simbolizzata in qualcosa che ha il potere di guidare al di fuori di tensione e contrasto, anziché produrlo e alimentarlo. Questo è quanto la «Green Lady» (anima) giunge a cogliere nel suo confronto col Weston demoniaco (ombra), grazie pure all’apporto di Ransom il quale nel suo duello con quest’ultimo ha il compito, nella veste di paladino delle capacità razionali, di garantire a ella l’opportunità di crescita psichica nella direzione auspicata. La partita fra il professore indemoniato e il filologo rivela la caratteristica di una hegeliana dialettica “signore-servo”. Incominciata sopra un piano dove la persuasione della maggiore o minore opportunità di una libertà immediata assumibile da parte della donna verde aveva requisiti di una battaglia intellettuale, finisce per trasformarsi in una vera e propria lotta fisica. Entrambi i contendenti compaiono attraverso delle parti intermedie rappresentate dai loro corpi. L’“ombra”, quantunque avesse tratto in partenza un vantaggio a servirsi della figura di Weston, alla fine sarà costretta a subire la distruzione del suo medium proprio in virtù di un’ostinata propensione all’immediatezza, la quale è motivo di annientamento del suo strumento, che non viene preservato grazie a un ordine di valutazioni comportamentali più consone. Davanti a questo assalto (dall’esito suicida) il cantab fellow si comporta in maniera diversa. Utilizza sempre la corporeità nel dare il via all’attacco fisico, e nel portarlo avanti allo scopo di sconfiggere il canale che veicolava le suggestioni dell’irrazionalità, ma conduce questa fase a guisa del padrone hegeliano della “Fenomenologia dello Spirito”: il suo obiettivo è quello di conseguire il riconoscimento della sua superiorità (di natura non corporale), utilizzando il suo corpo come termine medio per raggiungere la meta, anche a costo della vita. Egli vincerà il duello, però, poiché combattevano tramite elementi di intermediazione forniti dalla corporeità, ciò non comporterà una definitiva vittoria sull’“ombra” nel senso di imbrigliarla perennemente o annientarla. Questa, quale potenziale garanzia della libertà umana, è indistruttibile; tuttavia, al contempo, va vista, studiata e ricordata, appunto perché un’autentica luce può essere solo apprezzata mediante la conoscenza dell’oscurità. Questa riveste simile ruolo, al quale non deve essere dato un margine di uscire nell’immediatezza. Nel momento in cui ciò succede su qualsiasi cosa può proiettarsi un cono di negatività, il quale viene a scomparire col rifiuto dell’“ombra”: pensiamo al caso del mostro, surreale simbolo di un contenuto psichico, evocato da Weston nel cap. XIV, che dopo la di lui morte non susciterà più un’impressione di terrore. È il caso di rammentare il fatto che il concetto di libido in “Perelandra” è quello junghiano e non quello freudiano, il quale ultimo è interamente schiacciato su una posizione riduttiva che appunto nel romanzo esaminato non compare. La libido secondo Jung offre una gamma di possibilità comportamentali che nel pensiero di Freud emergono piuttosto come conseguenze di un arginamento libidico. Le nudità della «Green Lady» e di Ransom non sono inquadrabili, come sottolineato nel testo lewisiano, in una cornice freudiana. L’ulteriore legame junghiano dell’autore prosegue negli ultimi capitoli del racconto. Lewis riprende in modo molto profondo l’idea del mito quale espressione di una verità da esso additata. Questo è un altro forte aspetto di tangenza con la psicologia analitica di Jung. Innanzitutto ritornano gli archetipi del vecchio saggio e della Natura madre nei personaggi di Malacandra e Perelandra, a testimonianza che il percorso dell’individuazione junghiana ha ottenuto i suoi frutti sperati. In seguito a ciò le realtà biologiche personali del maschile e del femminile traggono la liceità di libero soggiorno sulla «Fixed Land»: vale a dire che il mondo fenomenico può assumere una veste diversa agli occhi di chi non soffre la scissione anima/animus (il complesso dell’Io sessuato cosciente di fronte a uno dei due complessi complementari: animus se donna, anima se uomo). Lewis esprime delle acute considerazioni allorché ricorda che il “maschile” e il “femminile” non sono polarità di natura somatica, ma che vanno al di là di queste (del resto come detto già da Jung): «he of Malacandra was masculine (not male); she of Perelandra was feminine (not female)». Malacandra e Perelandra, espressioni simboliche degli archetipi su citati, sono, per ciò che riguarda la psicologia analitica, altresì rappresentazioni di due tipologie basilari del carattere: l’estroversione e l’introversione, le quali rispettivamente prendono corpo concettuale nelle immagini archetipiche del “maschile” (animus) e del “femminile” (anima), attraverso le quali giungere alle mete della Natura madre e del vecchio saggio5. Ci rendiamo quindi conto perché la singola realtà biologica non possa incarnare in toto una delle due propensioni caratteriali psichiche individuali, bensì questa sia mossa dal prodotto scaturente dalla dialettica “anima/animus”; una dialettica la quale si sovrappone all’altra, parimenti fondamentale, “razionale/irrazionale”. Nell’ultimo tratto del romanzo il suo autore compie una riforma ideale del racconto veterotestamentario della creazione degli esseri umani. Attua superamento dei limiti misogini della narrazione della Genesi. Lo scrittore edifica pure una parateologia che si completa con una mitica Apocalisse terrestre. È importante rilevare il senso del suo discorso, che principia con un’elaborazione figlia di un’adeguata lettura della biblica creazione dell’umanità6. La dicotomia androginica da cui provengono i singoli soggetti sessualmente differenziati, nel testo lewisiano, non si evolve in maschilisti modelli comportamentali repressivi del “femminile”: tutt’altro, la sua teologia mitologica, assieme ai suoi connessi simboli, dopo la rimozione delle zone d’”ombra” si rivolge con migliore spirito di adesione ai principi della dottrina psicoanalitica junghiana. Il viaggio dantesco dello studioso di Leicester sui pianeti dell’inconscio Malacandra e Perelandra si conclude, tornato sulla Terra, così offrendo al lettore un’esplorazione di siffatti luoghi della psiche. In “Perelandra” emerge, nella di lui dialettica con Weston, un di lui ciclo alchemico-junghiano, allorquando nella fase finale della lotta, inseguito da costui indemoniato, compie un percorso che lo porterà dall’oscurità alla luce, cioè dalla nigredo all’albedo. Una guadagnata luce di consapevolezza, la quale è servita poi a dare la svolta all’intero meccanismo simbolico-narrativo della seconda opera della trilogia lewisiana. Un’allegoria alchemica (cosmico-escatologica) sembra celarsi nel concetto «di Grande Gioco, di Grande Ballo [of the Great Game, of the Great Dance]» del finale cap. XVII. Quest’idea di una “danza alchemica” mi proviene dall’accostare quest’immagine con una riflessione svolta in un mio secondo saggio su Sylvia Plath7. In quella sede ho paragonato il percorso di individuazione junghiana della poetessa bostoniana, al contenuto di un cortometraggio animato di Walt Disney (“Destino”), la cui protagonista è una ballerina: dato il fatto che “individuarsi” equivale in termini simbolici a compiere l’iter alchemico junghiano, dove “anima (femminile)” e “animus (maschile)” si uniscono a conclusione nella “sizigia (individuazione)”, mi pare lecito applicare, per analogia, l’interpretazione proposta nel rendere ciò cui alluderebbe Lewis. L’ultima sezione di “Perelandra” contiene gli spunti di una particolare mitica teologia di cui giudico fattibile una lettura in chiave psicoanalitica. Questa operazione allarga il suo orizzonte di applicazione naturalmente al sostrato cristiano da cui Lewis sembra prendere la materia. Proseguendo nella mia ermeneutica junghiana del testo, e riallacciandomi a cose che ho già detto nel mio lavoro critico ricordato nella nota 78, credo che laddove si parli di incarnazione divina sia celato il ciclo dell’anima individuale (intesa come entità sostanziale, non anima o animus junghiani). Maleldil è una letteraria “immagine primordiale” dell’animus, sopra lo sfondo dell’inconscio collettivo. Sia l’incarnazione del Dio evangelico (del Verbo) in Cristo che la parallela di Maleldil costituiscono un’esemplificazione della singolare anima sostanziale che attraversa fasi di ingresso e di uscita assumendo come riferimento il mondo fenomenico, e quindi non facendo altro che riproporre in una forma narrativa esemplare il meccanismo dell’individuazione junghiana. Il peccato originale verrebbe a rappresentare l’esperienza in relazione all’“ombra”, con l’unica differenza che la tradizione giudaicocristiana, a differenza della teologia mitologica lewisiana, si è comportata al pari di Weston, e ha impedito all’animus junghiano l’integrazione della corrispettiva anima. Il deficit in “Perelandra” viene superato, al punto tale di far sorgere il dubbio se, su fondamenta provenienti anche da Jung, Lewis abbia voluto proporre, in accordo alla sua concezione della mitologia quale potenza di un concreto atto reale, un suo ideale di Cristianesimo. Un simile progetto concilierebbe la prospettiva junghiana con quella mitologico-religiosa. La colpa originaria nella trattazione lewisiana, rivede in modo completamente diverso i ruoli recitati dal “maschile” e dal “femminile”. In “Perelandra” non si attribuisce una responsabilità di cedimento all’irrazionalità al soggetto biologico donna: viene detto che questo “femminile” è altro; una componente psichica metasessuale, suscettibile (in quanto diversa dalla pura razionalità) di essere adescata dalle sirene dell’“ombra”. Il pensiero cristiano, al contrario, non è stato in grado di comprendere ciò. E una delle conseguenze più rilevanti è stata l’esclusione delle donne dal sacerdozio. Il concetto di “incarnazione” in Lewis si avvicina a quello dell’“individuazione”, giacché il logos che entra nella storia è il “maschile” cui spetta il compito di porre l’argine più alto all’irrazionale (ombra). E questa storia è in primis la vicenda individuale degli esseri umani: l’apocalisse è lo scenario di ogni singolo spettatore. Questa diviene collettiva nel momento in cui l’estroversione (il maschile) e l’immediatezza fanno distogliere lo sguardo dal vero percorso, il quale è personale e in gran parte interiore (introversione “femminile”). Quindi si spiega con ciò il difetto strutturale dell’Apocalisse biblica, la quale opta alla volta di un disegno di chiara matrice politico-religiosa, dopo aver smarrito il senso greco-razionale del Vangelo. Il racconto del non sinottico di Giovanni, nella corretta traduzione e interpretazione del v. 1,9 a opera di Simone Weil9, afferma che il Logos «illumina ogni uomo che viene al mondo». Sicché comprendiamo meglio grazie alla filosofa francese che tale “maschile” è il razionale di ognuno a prescindere dalla sua differenziazione sessuale. Il suo ruolo di mediazione, che la Weil sottolinea nella “Lettre a un religieux”, simbolico in ambito religioso, è attivo nel sommerso psichico allo scopo di contribuire alla costruzione archetipica, la quale smarca dall’“ombra”. Simone Weil parla addirittura della nozione di media nella matematica greca come di una profezia: in effetti non sbaglia poiché le idee che presiedono all’ordine e al ragionamento sono quelle da utilizzarsi nella battaglia contro l’irrazionalità (mediatezza da preferirsi all’immediatezza). La pensatrice francese è altresì accostabile a Lewis grazie alla sua visione generale delle religioni: se per costui il mito è prefigurazione di Cristianesimo, agli occhi di ella Dio è intervenuto e si è manifestato in differenti credenze religiose. Vale a dire che per entrambi la mitologia non costituisce una montagna di fantasie, più o meno, ingenue, ma un ambito di indagine in cui poter rintracciare i principi di una religione che abbia i caratteri dell’universalità (che sia, come vorrebbe Hegel, la versione popolare della Verità, la quale a livello di analisi concettuale più elevata può trovare una spiegazione migliore anche nella psicologia analitica di Jung). Lewis ha ben compreso che anima e animus junghiani interagiscono inter se lungo l’asse della razionalità, asse che mantiene una vocazione introspettiva; mentre l’irrazionalità si manifesta con più libertà presso le funzioni legate all’esteriorità (intuizione e senso). In tal guisa ha salvato il processo di “individuazione”, poiché il maschile-razionale non resta scisso e conflittuale in relazione al femminile-sentimentale. Lewis, se contrappone all’ombra-irrazionale il maschile-razionale, non compie lo sbaglio nevrotico in questo schema psicologico di associare l’“ombra” al “femminile”. Questo è il tragico errore della forma mentis ebreo-cristiana: quello di separare il campo razionale, proiettando l’oscurità sulla zona del “femminile”10. L’equivalenza “ombra”= donna ha generato la caccia alle streghe, che aveva un presupposto teorico-dogmatico in una produzione letteraria deviata verso la nevrosi. Il testo lewisiano scarta del tutto l’ipotesi di qualcosa del genere: anima e animus (interezza della persona) devono rimanere saldati se si vuole sconfiggere la suggestione dell’irrazionalità (la quale, ad esempio, ha animato le varie inquisizioni di confessione cristiana). Sotto questi profili di analisi, e alla luce dei risultati, appare evidente che nel Vangelo accanto al Messia, il maschile-logos, manchi la parte dell’anima junghiana:  ciò in ossequio a schemi di pensiero semibarbarici, irrazionali. “Perelandra” emenda la teologia cristiana dal suo radicale nevrotico difetto di fare della donna, in quanto soggetto biologico, la porta del diavolo. Esiste un abisso nevrotico tra la Madonna evangelica e gli archetipi del femminile della cultura greco-antica. Moderni studi e nuove scoperte archeologiche hanno consentito di vedere che nel magmatico Cristianesimo delle origini esisteva un culto associante Gesù Cristo e Maria di Magdala in una coppia divina espressione di una sizigia, la quale sarà cancellata a vantaggio di un distorto primato maschilista. A causa di ciò Lewis sembra rievocare Afrodite (e Ares) quando sta parlando, de facto, degli archetipi generali collegati. Inoltre: allorché nel romanzo, al cap. XVII, Perelandra chiede al Re («the King»; divenuto prototipo biologico di genere, haecceitas dell’idea platonica di uomo) se può rimanere, la risposta è positiva (pure la «Green Lady» si è evoluta in prototipo biologico di donna: la Regina, nel contesto della loro sizigia). Il che evita il darsi del processo di nevrosi sopra delineato, da cui invece viene fuori la Maria del Vangelo. La società greca dell’antichità non è stata preservata dall’incamminarsi sulla via del medesimo errore. Tuttavia, benché vedendo nella biologia femminile qualcosa che fosse ritenuto inferiore di fronte al corrispettivo maschile, i Greci, in quest’insana prassi di separare (e bloccare) i poli dialettici psichici anima e animus, e di spezzare l’asse delle facoltà razionali, si limitarono a impantanarsi in un’inclinazione nevrotica di tono minore: la donna non veniva a rappresentare il male assoluto, ciononostante rimaneva relegata alla considerazione di un soggetto umano quale potrebbe essere oggi un minorenne; cioè qualcuno che, allora perennemente, non avrebbe avuto la capacità naturale di conseguire maturità intellettuale e senso di responsabilità. Quantunque, in maniera erronea, i reputati odierni requisiti da maggiorenne fossero circoscritti a permanere esclusivo possesso della biologia maschile, si può osservare che si tratta di pregiudizio diverso e meno dannoso, tant’è che non precluse l’accesso delle donne al rango sacerdotale (perché il “femminile”, a tutti i livelli, conservava le sue prerogative di contatto privilegiato con la dimensione del divino e del metasensibile)11. La Trinità lewisiana, pertanto, dopo aver palesato un primato del “razionale” nelle sue maschere maschili, postula nella Terza Persona la presenza di un termine medio “femminile”. Tale primazia tra le funzioni della psiche è sottolineata da alcune parole della donna verde al protagonista filologo nel cap. V: «Dal momento che il nostro Amato assunse la natura umana, in che modo la Ragione dovrebbe prendere in qualche mondo un’altra forma? [Since our Beloved became a man, how should Reason in any world take on another form?]». In questa configurazione iconico-teologica, l’“ombra” agente in Weston si qualifica come «the Un-man». Il sostantivo inglese “man”, in aggiunta a significare il concreto soggetto “uomo”, può indicare l’insieme di tutti gli esseri umani, l’“umanità”. Quest’ultima sembra l’accezione che meglio si confaccia a queste estrazioni dal testo inglese lewisiano: il logos, prerogativa di ogni membro dell’umanità, si oppone all’irrazionalità mettendo da parte la veste somatica. La tradizione giudaicocristiana si è viceversa radicalizzata in un quadro pregiudiziale, il quale non ha colto il valore di vari archetipi dell’uomo e della donna. Il Verbo, per la Chiesa, si è incarnato nella qualità di vir; Maleldil, per Lewis, in quella di homo.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”

1 In alcuni miei saggi precedenti ho adottato una terminologia in relazione alla psicologia analitica junghiana riguardante i vocaboli “anima” e “animus” (in partenza esclusivamente punti di interazione con l’Io cosciente) i quali nell’ambito delle mie analisi critiche hanno assunto possibilità di significato allargate rispetto a quelle date da Jung. Ciò, forse, ha causato, e può causare qui, disorientamento nel lettore circa la comprensione semantica dei suddetti due concetti. Tuttavia, operando in ambito critico-letterario, e godendo di autonomia creativa nell’impostare un vocabolario d’analisi, manterrò l’uso già fatto di “anima” e “animus”, pur rendendo più semplice l’intendimento del mio dire. In parole povere, allorché Jung ha parlato della dialettica “io cosciente / anima (controparte generica inconscia: “anima” o “animus”), è stata da me assunta una diversa formula verbale per esprimere tale relazione: dialettica “anima/animus” o “animus/anima”, dove il primo termine specificasse in maniera precisa il sesso del soggetto in questione (del cui complesso coscienziale si discute) e il secondo puntualizzasse altrettanto in modo evidente, in un meccanismo retorico di contrasto (“protagonista/antagonista”), quale fosse il genere del complesso junghiano inconscio complementare. Una premessa a quanto ho fatto mi ha indotto a ritenere che gli archetipi che possano presiedere alle alternative del binomio così configurato non siano quattro (maschile, femminile, animus, anima: con specificazione di ascendenza sul complesso dell’Io cosciente o sull’altro posto nella zona inconscia), ma che siano soltanto due (femminile­­+anima; maschile+animus): i due archetipi superstiti presiederebbero, a seconda delle due circostanze, ai due complessi della psiche (“anima” e “animus” nelle mie possibili accezioni semantiche). I due omonimi archetipi si polarizzerebbero, per quanto concerne il fattore coscienziale di riferimento, in tal guisa, nel momento in cui prendono contatto con la psiche soggettiva in base al complesso di riferimento. Cosicché, grazie al “rasoio di Ockham”, passeremmo direttamente nella scala gerarchica archetipica dall’“androgino (o indifferenziato)” ai due di “anima” e “animus”, i quali ingloberebbero e fonderebbero in sé quelli di “maschile” e “femminile”.

2 Vedasi al riguardo nella mia monografia “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”, alle pagg. 14-15.

3 Queste considerazioni mi hanno spinto a riflettere sul significato delle isole dei morti dipinte da Arnold Böcklin. Si tratta di un pittore (Svizzero come Jung) rivelatosi sensibile verso il pensiero di Arthur Schopenhauer (e al criterio che la vera bellezza abbia una collocazione oltremondana, dove vada colta), e che a propria volta ha ricevuto l’attenzione, per quanto qui mi interessa, di Giorgio De Chirico, Sylvia Plath e del padre della psicologia analitica. Alla luce della lettura di Lewis, la mia impressione è che le menzionate isole dei morti possano rappresentare non un’interpretazione pittorica di una condizione o di una sede ultraterrene, bensì, al contrario delle apparenze, il mondo fenomenico, visto come luogo di vita materiale, non ideale, e quindi pressoché di morte dell’anima al principio del suo percorso di carcerazione nel fenomeno in cui si trova intrappolata.

4 Per approfondimenti si veda l’opera: “Danilo Caruso, L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”.

5 La maniera in cui, nel cap. XVI di “Perelandra”, Lewis affronta l’argomento dà spazio non solo a un rilievo interpretativo in direzione junghiana: « Sembrava a lui [Ransom; n.d.r] che Malacandra avesse lo sguardo di uno che sta in piedi armato, ai bastioni del suo proprio remoto mondo arcaico, in incessante vigilanza, i suoi occhi sempre vaganti verso la terra donde il suo [his; n.d.r.] pericolo venne tempo addietro. “Uno sguardo di marinaio”, Ransom disse a me una volta, “Sai... occhi che sono impregnati di distanza”. Viceversa gli occhi di Perelandra aprivano, come era, una parte interna, come se essi fossero l’entrata nascosta ad un mondo di onde e sussurri e vagabonde brezze, di vita che si dondolava nei venti e cadeva su pietre coperte di muschio e discendeva a mo’ di rugiada e si levava verso il sole nella delicatezza filiforme della pioggia leggera». Le parole del passaggio rievocano le immagini di due quadri aventi lo stesso tema: “Odysseus und Calypso” di Böcklin e “L’enigma dell’oracolo” di De Chirico (e non è da trascurare che siffatti due dipinti ispirarono la poesia plathiana “On the decline of oracles”). Malacandra rappresenta il tipo di Ulisse, un estroverso che indaga il mondo fenomenico al fine di meglio orientarsi dentro di esso. Perelandra raffigura quello della ninfa Calipso, un’introversa che irretisce allo scopo di condurre il suo prescelto sul versante del metempirico: si tratta in tutti questi casi di un’allegoria della dialettica “anima/animus”, “complesso dell’Io sessuale / complesso psicosessuale di complemento”, la quale auspica un’armonizzazione e un’integrazione delle due componenti (individuazione junghiana), in luogo del suo opposto (il che darebbe origine a manifestazioni di disagio mentale dalla gamma variabile). A proposito di questo tema si può leggere a pag. 28 della mia monografia menzionata nella nota 2.

6 Vedasi a tal proposito nel mio lavoro intitolato “Considerazioni letterarie (2014)” la sezione dal titolo “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi”.

7 “Sulla poesia di Sylvia Plath (2016)”, alle pagg 9-12.

8 Ibidem, pagg 22-24.

9 Vedasi al riguardo nella mia opera “Ermeneutica religiosa weiliana (2013)”, alle pagg. 3-4.

10 Stando a questo distorto secondo punto di vista, sotto l’etichetta di “femminile” (in senso lato, astratto) è confluito il resto di quanto è stato giudicato “deviato” dalla presunta “normalità”. Da qui nel Cristianesimo traggono origine le persecuzioni degli omosessuali e degli Ebrei. Nei riguardi di questi ultimi basti pensare a come Weininger li collochi dentro la categoria (degenerata) del “femminile” per rendersi conto del pregiudizio gravante su di loro. Nei confronti degli omosessuali il cliché è il medesimo, tuttavia voglio approfondire l’argomento secondo una prospettiva junghiana. Nell’edizione definitiva de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Schopenhauer affronta, dalla sua ottica, i temi dell’amore  e della sessualità umana in alcune note sezioni. Egli reputa che, a priori, la Natura intervenga su uomini e donne attraverso le pulsioni sessuali, spingendoli mediante una condotta fuori del controllo razionale ad accoppiarsi a fini procreativi (a tutela della prosecuzione della specie). Nella visione del filosofo tedesco, un input arriverebbe dall’esterno allo scopo di garantire l’ingresso nel mondo fenomenico di un nuovo essere umano, la cui nascita sarebbe già stata decisa. Sono d’accordo con Schopenhauer (e Platone) che l’anima sostanziale abbia una fase prenatale: per l’autore di “Die welt als wille und vorstellung” in particolare si tratterebbe del preludio suddetto. Egli, in questo ripetitivo, a suo avviso insensato, meccanismo rintraccia una spiegazione dell’omosessualità. La Natura indirizzerebbe i soggetti inidonei a procreare individui all’altezza di affrontare l’esistenza umana verso soggetti del proprio genere sessuale. Qua dissento da Schopenhauer. Penso che, invece, nell’ambito della psiche soggettiva sia un “imprinting”, proveniente dalla forma biologica di una vita precedente, nei confronti del complesso dell’Io, alla base di un orientamento gay. Tale “impronta” residuale sarebbe così intensa ed evidente sopra l’Io da far mutare l’assetto psichico personale. Quindi, in un uomo omoerotico passivo-soggettivo, l’ordine degli archetipi a guida della parte cosciente e del contrapposto complementare complesso junghiano di riferimento sessuale nella parte inconscia sarebbe “invertito”: non “animus/anima”, bensì “anima/animus” (una cosa speculare accadrebbe in una donna lesbica). Nei casi di ogni omoerotico attivo-oggettivo non c’è “inversione archetipica interiore”, ma solo “inversione oggettuale esteriore” (questi soggetti ricercherebbero il “femminile” o il “maschile” che non trovano in una donna o in un uomo in un omoerotico passivo-soggettivo). Pertanto, secondo simile teoria (di cui ignoro un’eventuale altrui formulazione), in un corpo maschile potrebbe albergare una donna (e viceversa). In un soggetto siffatto non ci sarebbe formalmente nulla di “deviato” nell’individuale ordinamento psichico: la dialettica “anima/animus” non verrebbe meno. Il problema di comprensione del fenomeno si manifesta in funzione della veste corporea, la quale non rispecchierebbe l’ordine interno. Sottolineando che non ho parlato di una “malattia”, concludo il mio argomentare con dei corollari. L’omoerotismo passivo-soggettivo è: a) una dimostrazione dell’esistenza di un’anima sostanziale (“Io penso” kantiano, complesso dell’Io cosciente), e di b) una sua esistenza prenatale quanto meno in una sfera metafisica o c) in aggiunta in una o più vite nel mondo dei fenomeni (metempsicosi). Adesso è il momento di tornare al filo generale, non prima però che io abbia indicato la triade “femminile” dei nemici della Cristianità: streghe, Giudei, omosessuali.

11 Di questi temi ho già discusso in una sezione di un mio saggio: “Breve antropologia del diverso nell’antica Grecia” in “Donne della libertà (2012)”.