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lunedì 25 aprile 2011

ERMANNO MACIOCIO / IL PARTIGIANO “ROSSO”

di DANILO CARUSO

Ermando Decio Maciocio (all’anagrafe) nacque a Lercara Friddi il 25 settembre 1923 da Alfredo e Gaetana Borelli. All’inizio degli anni ’30 andò ad abitare con tutta la famiglia dal paese natio a Savona, dove il padre ferroviere era stato distaccato. Dopo la scuola elementare a Lercara, proseguì qui gli studi alla scuola media. Alla vigilia del suo richiamo per le armi – nella regia marina con la destinazione di fuochista –, dopo la caduta del fascismo, fu stipulato l’armistizio dell’otto settembre: precettato quindi nella marina della RSI si rese irreperibile unendosi ai partigiani e prendendo il nome di combattimento di ROSSO. Il 16 giugno 1944 entrò nella DIVISIONE FUMAGALLI, più in particolare nella BRIGATA VALBORMIDA “GIULIANI”. Sui rilievi liguri prese parte a molti attacchi partigiani nella regione attorno a Savona: a Calizzano, Noceto, Finale, nel settembre del ’44 alla presa di Santuario vicino a Montenotte, e poi all’offensiva al presidio repubblicano di Cadibona. Un gruppo partigiano della BRIGATA SAVONA composto oltre che da ROSSO da Lino, Dino e Gianella Di Pasquale, nel tentativo di procurarsi del benzene e del sale, il 2 novembre del ’44 si imbatté nel suo tragitto in un manipolo di settanta uomini della brigata fascista SAN MARCO guidata dal tenente Danon. Fu immediatamente chiesto ai quattro partigiani di arrendersi, ma questi risposero sparando, uccidendo tre fascisti e ferendone due. ROSSO nonostante fosse stato ferito decise di andare incontro al nemico per fare da copertura alla fuga dei compagni rimasti senza cartucce. Durante la sua azione di schermo venne ulteriormente pesantemente ferito, ma dopo aver gettato una bomba a mano all’indirizzo dei nemici fu ucciso dal fuoco avversario (che aveva ferito anche Gianella, il quale però riuscì a scappare con l’aiuto di Lino e Dino). La REPUBBLICA ITALIANA conferì a Ermanno Maciocio, essendo già morti i suoi genitori, la medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza (decreto 27 ottobre 1950, GURI 22 maggio 1951). Lercara Friddi lo ricorda con una via, come pure Scoglitti in provincia di Ragusa (delibera del consiglio comunale del 10 luglio 1989 n. 671).

giovedì 7 aprile 2011

ALFONSO GIORDANO

di DANILO CARUSO

Alfonso Maria Giordano venne al mondo a Lercara Friddi l’undici gennaio 1843 alle 15:00 (fu battezzato il giorno seguente, padrini Giuseppe Tedesco e Giuseppa Giordano1). Figlio di Maria Miceli e di Giuseppe, un medico, seguì la carriera del padre. Nell’ateneo palermitano vi insegnò poi igiene mineraria. «Piccolo di statura fisica, cortese nei modi, modestissimo, di una ineguagliabile bontà di animo, filantropo nella più alta espressione del termine»2. Consacrò la sua esistenza alla difesa dei disagiati, soprattutto dei minatori, creando a Lercara anche un proprio ambulatorio per la loro cura. Riscosse per la sua attività medica dai colleghi in Italia e all’estero giudizi di encomio e riconoscenza. Il suo pensiero fu di input alle leggi di tutela del lavoro, specialmente quello femminile e dei giovanissimi. Diede vita nel 1871 a un’associazione di solidarietà per i lavoratori lercaresi – la Società Operaia Fratellanza e Lavoro, di cui fu a capo –, inaugurata domenica 4 giugno di quell’anno. Alfonso Giordano si unì in matrimonio il 14 dicembre 1872 – celebrante don Giuseppe Fiorentino – a Calcedonia Rosalia Caterina Nicolosi (figlia di Luigi e Rosa Viola), furono testimoni di nozze Luigi Sartorio e don Vincenzo Fiorentino3. Promosse il ruolo della cultura e della coltivazione del sapere (è del 1867 un suo scritto intitolato La lega dell’insegnamento): fu membro di un comitato per l’istituzione di una biblioteca a Lercara e alla cerimonia inaugurativa, il 28 agosto 1873, il suo intervento sostenne la validità di supporto nell’edificazione dello spirito umano dello strumento libro. Come e quando questa biblioteca scomparve non è accertato. Prestò pure la sua attenzione al mondo della politica: esponente moderato del partito locale dei Nicolosi, ricoprì per svariati anni la carica di consigliere comunale. Alla fine del 1875 il consiglio comunale di Lercara indicò alla prefettura per la scelta del sindaco due fratelli Nicolosi – Francesco e Giovanni –, ma il neoprefetto Gerra (succeduto al Malusardi protettore dei Nicolosi) era intenzionato a riportare un ordine amministrativo più equilibrato nel comune e propose Alfonso Giordano. Il sottoprefetto precedentemente fra i due aveva segnalato Giovanni, il quale per non far nominare Alfonso Giordano – peraltro suo nipote – ne fece deliberare dal consiglio comunale la decadenza da consigliere poiché medico condotto, quando tale lo aveva designato lui in precedenza. Alfonso Giordano presentò un ricorso alla prefettura e il 5 marzo 1876 venne nominato sindaco con regio decreto governativo: entrò in carica il 15 e stette fino al 26 maggio 1877; il 20 il consiglio comunale fu sciolto con decreto del ministro degli affari interni a causa delle interferenze nell’amministrazione provenienti dalla maggioranza consiliare capeggiata da Giovanni Nicolosi che non si era rassegnato. Sul Gazzettino di Lercara Friddi (1880-1884) dimostrò la sua poliedricità di interessi trattando argomenti di storia locale. Nel 1885 durante l’epidemia colerica scrisse un prontuario (Il colera – nozioni e consigli popolari) per la sua cura e prevenzione. Un’altra sua creatura fu un ente di assistenza medica operante tra il marzo del 1886 ed il giugno del 1889 – la Cassa di Soccorso fra i solfatari in Lercara –, nata, dopo la mancata collaborazione del comune, con l’appoggio di John Forester Rose che vi indirizzò i minatori alle proprie dipendenze. Nel 1888 individuò gli elementi che causavano l’anchilostomiasi, un’anemia di origine parassitaria, che afflisse gli zolfatari e i cui sintomi erano ritenuti prima della sua scoperta una debilitazione malarica. Studiò quindi la tea-pneumoconiosi che ne colpiva l’apparato respiratorio tramite l’inalazione del pulviscolo solforoso presente nell’aria depositandovisi. A un simposio dei medici a Palermo nel 1892 illustrò come il peso sulle spalle durante il trasporto di materiale faceva insorgere nei minatori adolescenti alterazioni nello sviluppo del sistema osseo. A un altro simposio dei medici isolani a Messina nel 1897 la sua esposizione delle disumane condizioni dei lavoratori nelle miniere di zolfo spinse il governo a nominare l’anno seguente una commissione d’inchiesta, il cui relatore fu Alfonso Giordano: il Consiglio superiore di sanità espresse compiacimento per il suo operato. Il ministro per le attività produttive Giulio Baccelli, presente Vittorio Emanuele III, a Palermo nel 1902 in occasione di un convegno ne tessé l’elogio. Successivamente fu di nuovo relatore in una commissione d’inchiesta sul lavoro industriale: il testo della relazione, poi pubblicato col titolo La fisiopatologia e l’igiene dei minatori, rappresenta un po’ una summa delle sue ricerche e dei suoi interessi medico-filantropici. Il 7 ottobre 1902 Alfonso Giordano ritornò a fare il sindaco di Lercara, scelto anche stavolta come moderator rei publicae. Ebbe garantito il richiesto appoggio dei Sartorio Scarlata e dei Nicolosi, i quali poi però tirarono i remi in barca: conseguentemente l’amministrazione priva di forza in consiglio si dimise il 16 settembre 1903. Per ingovernabilità questo fu sciolto e il comune commissariato. Nella sua vita Alfonso Giordano coltivò rapporti epistolari con Louis Pasteur. L’ateneo parigino gli conferì la laurea honoris causa e in Italia dietro proposta del ministero dell’istruzione ricevette il titolo di cavaliere. Il suo paese lo ebbe anche come delegato scolastico e medico del corpo militare di stanza. Alfonso Giordano si spense a Lercara Friddi la mattina del 15 luglio 1915 alle 11:00. Le sue esequie furono tenute sociante clero (concelebrazione di più sacerdoti)4. Fu padre di cinque figli (Maria, Giuseppe, Stefano, Luigi e Rosa) che, con l’ulteriore discendenza, hanno tenuto alto il nome della famiglia Giordano. Lercara lo ricorda affettuosamente, e anche Palermo gli ha dedicato una via. Dopo la sua scomparsa la comunità gli ha intitolato la via della sua abitazione (oggi in via A. Giordano, 48) dove è stata apposta pure una lapide, e un monumento con un suo busto gli è stato eretto nella piccola piazza Giuseppe Garibaldi di fronte alla chiesa di sant’Antonio da Padova.



1 Liber baptizatorum ab anno 1841 usque ad annum 1847 – vol. XV, pag. 141 n. 15, Archivio Chiesa Madre.
2 F. Salpietro in Rivista Sanitaria Siciliana, n. 14 – 1935.
3 Liber coniugatorum 1871-1880, vol. XV, Archivio Chiesa Madre.
4 Registro dei defunti dal 20 novembre 1912 al 2 ottobre 1918, pag. 226 n. 105, idem.




La lapide sul prospetto della casa lercarese di Alfonso Giordano



per approfondimenti sul pensiero di Alfonso Giordano

martedì 5 aprile 2011

PIAZZA DUOMO A LERCARA FRIDDI

di DANILO CARUSO

La piazza del Duomo ha rappresentato a Lercara l’epicentro di sviluppo territoriale che la signoria degli Scammacca subentrando alle intenzioni urbanistiche di Baldassare Gomez de Amezcua, e, prima di lui, di Leonello Lercaro, diede al paese nel ’600 e agli inizi del ’700.
Originariamente in terra battuta, fu pavimentata con l’introduzione di due aree di marciapiede lastricate con pietre provenienti dalla vicina cava di San Luca a fine ’800 per opera delle amministrazioni dei Sartorio Scarlata.
Il monumento al re d’Italia Umberto I di Savoia, realizzato dal Palermitano Domenico De Lisi (1870-1946), vi fu posto per iniziativa di un comitato di cittadini, essendo sindaco Alfonso Giordano, il 31 marzo 1903 e inaugurato il 18 agosto alla presenza di molte autorità, tra cui l’onorevole Camillo Finocchiaro Aprile, e di diverse rappresentanze comunali.
Intorno alla seconda metà degli anni ’30 un palchetto di cemento per esibizioni artistiche fu costruito nel perimetro di marciapiede antistante alla Chiesa Madre: venne demolito subito dopo la fine dell’ultima guerra mondiale.
Il 26 gennaio 1937 la piazza Duomo fu per determinazione del podestà Luigi Nicolosi, considerata soprattutto la presenza del busto del monarca sabaudo, intitolata a Umberto I nel contesto della riforma toponomastica celebrativa della vittoria nella seconda guerra d’Abissinia (1935-36): la ex piazza Umberto I (già Malusardi) fu rinominata Piazza dell’impero. Con la scomparsa del fascismo (l’Opera nazionale dopolavoro ebbe sede negli attuali locali della Banca di Credito Cooperativo) ritornarono i toponimi precedenti.
Durante la seconda guerra mondiale il monumento del re fu privato a causa del fabbisogno bellico di metalli della sua recinzione (reimpiantata nel ’61 e tolta nuovamente nel 2010).
L’onorevole Gioacchino Germanà, da assessore regionale all’agricoltura (’51-’54), promosse l’impianto nella piazza di una cornice di alberi.
Nel 1972 l’amministrazione comunale presieduta dal socialista Vincenzo Fontanazza fece smantellare la pavimentazione ottocentesca e la fece sostituire con mattonelle di una tonalità rossa: del lavoro originario rimangono solamente due lampioni (opera della ditta di costruttori palermitani Ciccarelli e figli) di fronte al prospetto della Matrice.
Nel 2007 con un rifacimento è stata riportata la zona pedonale più o meno allo status quo e aggiunta una nuova serie di lampioni.




Piazza Duomo: prima e dopo il 2007.




Il monumento a Umberto I: prima e dopo il 2010.


sabato 2 aprile 2011

LA REGINA BIANCA A CASTRONOVO DI SICILIA

di DANILO CARUSO

Quando Martino I re di Sicilia morì in Sardegna nel 1409, nel tentativo di sedare le ribellioni contro gli Aragonesi, ne prese posto, sino alla morte avvenuta l’anno successivo, il padre, Martino il Vecchio re d’Aragona.
Il Regno di Sicilia da decenni addietro era tormentato dagli scontri feudali.
In quei frangenti la personalità di rilievo impostasi a condizionare la monarchia era quella di Bernardo Cabrera, gran giustiziere del regno ed ex comandante dell’esercito aragonese giunto in Sicilia nel 1392.
Era stato proprio costui a prelevare Bianca, figlia di re Carlo III, dalla Navarra per condurla nell’Isola come moglie di Martino I il Giovane (a cui l’anno precedente era morta l’altra moglie Maria).
La regina Bianca era stata delegata dai due Martini per l’esercizio del governo isolano, ma alla morte di Martino il Vecchio sorsero nuovamente aspri scontri.
Infatti l’anziano Cabrera, cui nell’interregno spettava il governo, ambiva al trono e pensava di sposare la regina vedova (che le cronache tramandano fosse molto bella e dotata di talento politico).
La regina nel 1411 si era rifugiata presso il barone Matteo Moncada nel castello di Castronovo di Sicilia (che risale all’undicesimo secolo) sul Colle San Vitale: da lì aveva promesso l’amnistia ai ribelli se avessero sospeso le loro azioni e avessero riconosciuto la sua autorità. Quando Cabrera la incontrò in un convento catanese e le manifestò le sue intenzioni fu immediatamente scacciato da lei che esclamò: «Ah, vecchio depravato!».
La regina quindi si rifugiò a Siracusa, Cabrera cinse d’assedio la città, ma lei riuscì comunque a scappare grazie ai suoi partigiani che la preferivano come reggente.
Diretta a Palermo, dove avrebbe atteso dall’Aragona i nuovi consiglieri di governo, sostò una seconda volta a Castronovo. I partigiani di Cabrera a Palermo, dove l’aspettavano, erano stati allontanati con le armi prima che la regina la raggiungesse.
Tuttavia il vecchio spagnolo tentò un ultimo colpo di mano notturno cercando di catturare Bianca dopo aver simulato una ritirata: non ci riuscì per poco, la regina avvisata scappò direttamente in camicia da notte su una nave diretta a Catania.
E Cabrera trovando il letto vuoto e tiepido ci rimase moltissimo male. Si tramanda che avesse detto: «Ho perso la pernice, ma mi è rimasto il nido!», e che in preda ad uno sconvolgimento mentale dopo essersi tolto i vestiti si gettasse sul letto rotolandovisi ed annusandolo come i cani da caccia.
Alla fine il ribelle Bernardo Cabrera fu preso prigioniero e tra l’altro sospeso nudo dentro una rete per due giorni al muro di un castello dove tutti potessero vederlo.


I RESTI DEL CASTELLO DI CASTRONOVO


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venerdì 1 aprile 2011

GIUSEPPE PICONE

DA CASTRONOVO DI SICILIA AL SUCCESSO IN USA

di DANILO CARUSO

Giuseppe Picone è stato uno dei figli più illustri della terra di Castronovo. Nacque a Castronovo di Sicilia il 7 novembre 1918 da Giusto e da Rosaria Passavanti (la quale era cugina del mio bisnonno Giuseppe Caruso, entrambi erano figli di due fratelli Passavanti: Giuseppe e Concetta). Fu il terzogenito tra cinque fratelli (Vincenzo, Maria, Marianna, Antonio). Ebbe sin dalla prima fanciullezza un carattere vivace e volitivo. Si accompagnava spesso al nonno Passavanti (persona istruita: era stato in seminario sino ai 23 anni). Il padre era stato un dipendente della ferrovia; dopo l’affermazione del fascismo in Italia turbato dai disordini e dagli scioperi che avevano caratterizzato il primo dopoguerra era partito per gli USA in cerca di un nuovo lavoro, ma a Jersey City – nel New Jersey, dove era andato – non ottenne un posto fisso. Nel frattempo il resto della famiglia, rimasto a Castronovo, si era trasferito in casa dei nonni materni. Per indirizzare le giovanili energie di Giuseppe – dato che le disponibilità finanziarie della famiglia non gli avrebbero consentito di proseguire oltre la scuola dell’obbligo – nel 1927 la madre lo avviò all’apprendimento presso la locale sartoria di Gattuso e Drago. Inizialmente svolse mansioni di supporto secondario all’attività, il che non lo entusiasmò. Ma l’intuito di un assistente lo introdusse, ancorché piccolo, alle tecniche del mestiere. Seguito dai dirigenti e gratificato dai primi buoni esiti, prese a cuore quell’attività e decise di mettere cura nell’imparare l’arte di sarto. All’età di 11 anni confezionava pantaloni e a quella di 14 giacche. Nonostante le ripercussioni sociali della crisi del ’29 Giusto Picone decise di farsi raggiungere in America dalla famiglia: nel 1930 giunse il figlio Vincenzo, nel 1934 giunsero la moglie e la figlia Maria. La restante parte della famiglia restò a Castronovo dove viveva in casa della nonna Marianna (nel 1930 era scomparso il nonno Passavanti). L’impresa Gattuso e Drago aprì nel 1932 a Villalba una filiale in cui Giuseppe Picone si trasferì a lavorare, ma questa finì col chiudere e anche i due dirigenti finirono col separarsi: Picone rimase con Gattuso. Nel 1934 – in seguito alla partenza della madre – si trapiantò a Palermo dietro la promessa di un’assunzione in un laboratorio dove migliorare la sua arte, come era stato suo desiderio. Ma arrivato l’impiego era già stato ricoperto da un altro. Ospite comunque di una cugina della nonna fu invitato a rimanere un mese a Palermo. La sua intraprendenza e il suo interesse lo portarono a trovare un’occupazione presso un’altra sartoria nella quale rimase quasi un anno. Intanto era venuto il suo momento di raggiungere i familiari che si trovavano negli Stati Uniti. Nel periodo di disbrigo delle pratiche burocratiche per poter partire (ci volle ben un anno) nel 1935-36 prestò la sua attività, fattovi ritorno, a Castronovo, nella sua originaria sartoria (prima in paese, poi a Palazzo Adriano). Successivamente fu al servizio di un altro sarto castronovese che lo retribuiva meglio. Lasciò l’Italia nel 1936: il 7 settembre abbandonò Castronovo, e in due giorni passando da Palermo a Napoli in nave si diresse a New York dove arrivò dopo sei giorni di viaggio. Riunitosi con i familiari a Jersey City, trascorso un brevissimo periodo di ambientamento e sostenuto dalla presenza e dall’aiuto di altri emigrati siciliani trovò un lavoro in una fabbrica di jeans collocata nelle vicinanze. La sua aspirazione non era quella di operare in un determinato punto di una catena di fabbricazione seriale, ma di esercitare appieno la sua arte creativa nella fattura completa di un capo di abbigliamento: gli si prospettò quindi la possibilità di cambiare andando presso un laboratorio di sarti a Manhattan. A New York già lavorava la madre come sarta, in famiglia solo il padre non aveva più trovato un impiego: la sorella Maria era operaia in un cappellificio, il fratello Vincenzo barbiere. Giuseppe Picone oltre a svolgere la sua attività si impegnò ad apprendere la lingua inglese frequentando la sera un corso conclusosi positivamente nel giugno del 1937. L’anno successivo un compagno di sartoria lo convinse ad associarsi con lui per aprire un proprio esercizio a Manhattan. La società durò un anno, nel 1939 Picone si mise a lavorare da solo nella produzione di giacche all’interno di un laboratorio che forniva una clientela prestigiosa. Durante la seconda guerra mondiale fu arruolato nell’esercito americano. Svolse il suo servizio nella 151a unità di ospedale militare nella quale ottenne per la sua perizia il ruolo ufficiale di sarto. Nel 1942-45 fu con il suo reparto in Inghilterra e in Algeria. Suo fratello Antonio – rimasto in Italia – prestava servizio nell’esercito italiano: prima che i suoi compagni passassero dall’Africa in Sicilia chiese di essere rimpatriato poiché non voleva rimettere piede nella sua terra in circostanze di ostilità (l’altro fratello Vincenzo era in Pacifico sempre con gli Americani). Ritornato negli USA, fu poi congedato alla fine del 1945 dopo essere stato definitivamente riconosciuto cittadino statunitense. Si rimise quindi al lavoro con la volontà di migliorarsi ed emergere, e dopo un momento interlocutorio fu assunto nella migliore sartoria di New York (la Teppel’s Tailors) da un disegnatore stilistico che in precedenza lo aveva respinto. Da costui ebbe anche delle lezioni di taglio maschile. In poco tempo raggiunse la notorietà per l’abilità con cui confezionava capi e per la loro notevole qualità. Nel 1947 costituì una società con Anthony Massa e Nick Argentieri, accettando la proposta del primo (di cui ne aveva rifiutato alla fine della guerra una precedente) di aprire un opificio di pantaloni per uomo. Questa avventura, nonostante i disagi dovuti alla sua inesperienza in attività d’impresa, fu per lui un trampolino di lancio. Impiantarono la sede in New Jersey a West New York in uno stabile affittato. Gli altri due soci disponevano di soldi propri, Giuseppe Picone ricorse ad un prestito bancario. In seno alla nuova ditta MPA Tailors gli toccò il ruolo di tesoriere (presidente era Massa). Producevano pantaloni non di alto pregio (il che non gli piaceva molto) per un rifornitore, il quale in un secondo momento, poiché la MPA non era iscritta ad alcun sindacato, non poté più acquistare i suoi prodotti. La situazione – che già di per sé non era molto florida – sembrava precipitare. Consigliato e appoggiato da conoscenti e amici che ne apprezzavano il talento rilevò l’intera società (grazie pure all’aiuto economico del fratello Vincenzo) con la prospettiva di trovare sbocchi commerciali quando avesse presentato sul mercato dei pantaloni di ottima fattura. Da una realtà indebitata e avviata al fallimento Giuseppe Picone con le sue capacità creative e con spirito di abnegazione seppe dar vita a una creatura imprenditoriale gratificata da risultati accettabili. Successivamente infatti le cose cambiarono: il lavoro, che egli dirigeva e seguiva sempre con moltissima attenzione, era sufficiente e gli operai impiegati (tra cui anche donne) erano saliti a 25. Nel settembre del ’49 fece il grande salto: con Charles Evans, un affarista figlio di un dentista, formò una nuova società (in cui confluì la sua MPA) finalizzata alla creazione di abiti femminili di qualità a costi molto competitivi, cosa consentita dalle sue tecniche di confezione applicate nella MPA. Il padre di Charles Evans aveva conosciuto tempo prima Giuseppe Picone, e fiutando la possibilità di grandi profitti aveva spinto il figlio a proporgli questo progetto. Era così nata la Evan-Picone: a Picone spettò il compito di direttore generale e di designer, a Charles Evans quello di vicedirettore e di tesoriere. Per la Evan-Picone fu un’escalation di successi ed affermazioni: nel campo dell’abbigliamento femminile divenne la prima e insuperata nel rapporto costo / qualità. Giuseppe Picone originariamente disegnava i modelli di gonne e pantaloni, però quando si passò alla produzione di coordinati occorse un altro stilista. Centinaia di operai furono assunti e trattati meglio di qualsiasi altra impresa (tant’è che erano più riconoscenti a Picone che ai sindacati), e un nuovo grande stabilimento fu aperto nel 1955 a New York, dove già era sin dall’inizio la sala espositiva per la mostra delle collezioni d’abiti. Si ricordò pure della famiglia e fece assumere i due fratelli Vincenzo e Antonio. Charles Evans gli propose nel 1951 la nascita della prima impresa affiliata alla Evan-Picone, la Diva (una società in tre coll’altro fratello Robert Evans) produttrice di pantaloni femminili. Questa e le altre due successive – la Epic (per le camicie) del 1956 e la Dione del 1959 – ebbero ottimi consensi nelle vendite grazie al talento creativo di Giuseppe Picone e alle intuizioni commerciali di Charles Evans. In questa grande esperienza mantenne costantemente la sua umiltà e le sue abitudini: nel lavoro era senza sosta presente e vicino ai suoi dipendenti, che dai pochi della MPA erano giunti a quasi un migliaio. A Castronovo, dove tornò più volte, fece edificare una nuova scuola materna inaugurata nel 1960 (intitolandola alla madre, che ammalata di cancro scomparirà nel 1964), e nello stesso anno si completò altresì il restauro della Chiesa di san Vitale e della Matrice: il tutto a sue spese, come pegno di affetto nei confronti del suo paese. Nel 1962 dietro ripetute pressioni di Charles Evans la Evan-Picone venne venduta alla Revlon (industria leader nel settore dei profumi) il cui presidente voleva acquisirla a tutti i costi: la pagò 15.000.000 $, Picone rimase oltre che in società – come gli altri due fratelli Evans – direttore generale con poteri formalmente più o meno assoluti. Ma la nuova gestione sostanziale della Revlon non fu nelle sue strategie molto felice quando decise di fare perno più sul prestigio del nome che sul prodotto, con immenso dispiacere di Picone. Per contenere i costi di fronte a ridimensionati guadagni si ricorse a manodopera di Hong Kong, alla riduzione dei salari e al licenziamento di uomini di fiducia di Picone – che li avrebbe preferiti al loro posto – non colpevoli di quello stato di cose. Il contratto del 1962 legava Picone e gli Evans alla Revlon per cinque anni: i due fratelli lasciarono anzitempo (Robert nel 1965, Charles nel 1966). Nonostante in quegli anni la Evan-Picone vivacchiasse la Revlon la rivendette a Picone, che nel 1967 riprese il timone: tutto fu riordinato e si ritornò all’antico con successo (nel 1968 fu premiato dalla Sales and Marketing Executives International). Nel giugno del 1969 sposò un’attrice, Stefania Careddu: l’unione, da cui nacque Joseph Picone Junior, durò pochissimi anni. Pensando che l’amministrazione potesse andare avanti da sola, e fidandosi, si era distratto dedicandosi anche ad attività filantropiche (per esempio le proposte in favore dei giovani disoccupati – sempre portate avanti in futuro – per calare l’età di assunzione lavorativa al di sotto dei 18 anni; o il ballo di beneficenza del settembre 1967 in favore degli alluvionati di Venezia da lui promosso a Palazzo Rezzonico per raccogliere fondi: gli costò più di 20.000 $, ma parteciparono centinaia di ospiti illustri e famosi). Qualche tempo dopo scoprì che una non chiara gestione dei bilanci da parte dei suoi collaboratori lo aveva portato addirittura in uno stato di deficit. Procedette dunque con vigore a uno snellimento della macchinosa impalcatura amministrativa costruita durante il periodo della Revlon e inevitabilmente a dei licenziamenti; due società da poco aggregatesi furono cedute; e sino al 1971 si dovette nuovamente avvalere di manodopera di Hong Kong. La riduzione dei costi di fabbrica unitamente alle vecchie strategie di produzione rilanciò negli anni ’70 l’impresa sul mercato che ridiventò vincente. Cosicché nel 1973 fu stavolta lui stesso, preoccupato per eventuali future crisi, a vendere la Evan-Picone – rimanendovi tuttavia come presidente – alla Palm Beach (che operava nel settore degli abiti per uomo): diverse società furono affiliate, si riassunsero operai licenziati in passato, e un nuovo stabilimento con centinaia di posti fu creato nel 1977. Nel 1974 perse il padre. Con la sua indole di Siciliano onesto e sincero rifiutò nel 1981 addirittura la presidenza della Palm Beach. Nel 1983 lasciò la presidenza della Evan-Picone (rifiutando contemporaneamente la vicepresidenza a titolo onorifico della Palm Beach), e nel 1985 si ritirò completamente dal lavoro. Nel giugno 1986 si risposò con Fannie Stamatopoulou, e nell’aprile 1990 nacque la figlia Sarina Justine. Nella sua vita ricevette tantissime onorificenze e riconoscimenti internazionali. Si è spento il 24 giugno 2001 a New York.


La Scuola materna "Rosaria Picone" (Castronovo di Sicilia)