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mercoledì 19 giugno 2013

L’ALHAMBRA DI GRANADA

di DANILO CARUSO 

Durante la prima metà del XIII sec. nella penisola iberica il lungo processo di espansione delle monarchie cattoliche settentrionali di Portogallo, Castiglia e Aragona aveva continuato a provocare una notevolissima riduzione territoriale del dominio islamico meridionale, la cui sovranità entrò in crisi nel 1212 lasciando dunque spazio in Andalusia a una serie di staterelli – via via conquistati dagli Spagnoli – fra i quali sorse il sultanato di Granada. Estremo residuo moresco di quello che fu il grande emirato di Cordova, cadrà anch’esso nel 1492. Muhammad ibn Nasr dopo aver sfruttato una serie di avvenimenti favorevoli diede vita in sei anni a questo regno. A conclusione, nel 1238, fece ingresso a Granada: replicò alla festosa acclamazione da parte degli abitanti che lo esaltava come vincitore che l’unico vittorioso è Allah. Tali parole passarono sopra lo scudo del casato nasride e la bandiera dello Stato (entrambi hanno lo sfondo rosso). Sotto il nome di Muhammad I governò fino al 1273 e cominciò a costruire la sede regia granadina, diventata nei decenni una sorta di domus aurea, posta sul vertice collinare urbano della Sabika (790 m s.l.m.), la quale ai suoi tempi ebbe una genesi suggerita da finalità protettive. Perno strategico di questo nucleo primordiale era la “Qasaba (fortezza)” con i suoi torrioni: la colossale “torre della veglia” era terminale di un intelligente circuito comunicativo segnaletico di consorelle diffuse sul territorio. L’Alhambra, letteralmente “la rossa” è un articolato insieme architettonico sopravvissuto sino ai nostri giorni, in passato una separata comunità residenziale all’interno della città (a sua volta dotata di proprie mura difensive). Il perché del nome non è molto chiaro. Si pensa a una qualità eponima del suo ideatore (stante la sua barba detto “il rosso”). Oppure si crede che, all’epoca dell’edificazione, operandovi nella fascia notturna, un apparato di luci artificiali avrebbe fatto riflettere un colorito rossastro il quale avrebbe colpito gli osservatori (al completamento dei suoi iniziali lavori sarebbe forse stata rivestita all’esterno di bianco). Infine c’è l’ipotesi che si riallaccia al colore naturale della cerchia muraria fabbricata usando la locale argilla. Copre, senza fare violenza all’ambiente, la superficie di circa 100.000 mq circoscritta da un’ellisse irregolare molto schiacciata: l’asse longitudinale E-O è un po’ oltre i 700 m, quello latitudinale è quasi 200 m. La sua cinta possiede 4 porte e 27 torri (di natura perlopiù fortificatoria). Non pochi i visitatori celebri rimasti incantati. Una poesia del giovane Victor Hugo intitolata “Granada”, dalla raccolta “Le orientali” edita nel 1829, recita (vv. 70-71): «L’Alhambra! L’Alhambra! Palazzo che i Geni hanno adornato come un sogno dorato e riempito d’armonie». In una riflessione Hans Christian Andersen ne rileva la proporzionata grazia. Si tratta infatti del massimo esemplare dell’arte ispanoislamica. Attrae grazie a geometrie non casuali, pregiate ceramiche, muqarnas, intarsi, arabeschi e giardini, arricchiti dalla possibilità di leggere migliaia di composizioni poetiche, versetti coranici ed epigrafi varie riportati sugli spazi visibili (unitamente al motto araldico nasride): il tutto secondo l’ottica musulmana che unisce la dimensione pratica e quotidiana a quella religiosa. Al ’300, seguenti all’embrione della Qasr (abitazione regale) costituito dal “Partal”, risalgono nuovi settori palatini: uno regio (dai vetri colorati di finestre detto “de comares”) e l’altro “dei leoni” (per le dodici sculture della fontana di un bellissimo cortile, in origine può darsi lastricato del tutto in marmo), promossi da Yusuf I e dal figlio successore Muhammad V (la cui sepoltura potrebbe essere dentro “il cortile dei leoni”, quantunque a pochi passi esista un cimitero di famiglia). Sono aree con dipendenze piene di attrattive estetiche e riservate non solo alla vita privata e pubblica dei monarchi nazaridi (noti anche come i Rossi) ma in più utili allo svolgersi di attività burocratiche (si mettono in evidenza nel primo mediante la ricercata raffinatezza di forme la stanza del trono, e nel secondo tramite la studiata modalità d’impianto dei dipinti il “salone dei re”). L’estremità orientale alhambrina ospitava gli alloggi di servitù e funzionari (assieme a tutto l’occorrente per vivere): la “medina (cittadella)” era contigua ai giardini del Partal (valorizzati dal palazzo di Yusuf III). Il fiume Darro alimentava una fornitura idrica. I Nasridi utilizzarono inoltre un distinto gruppo architettonico che è ubicato nei pressi della Rossa (sul suo fianco di nordest) i cui parchi rappresentano il corpo principale di questa appartata dimora, di fine ’200, chiamata “Generalife (Yannat al-Arif)”: nell’immaginario islamico il giardino (florido, sensuale, abbondante d’acque) simboleggia un luogo paradisiaco (al-yanna). Perciò qui “al-Arif” (l’Architetto) è figura del Creatore. Nel ’500, completata la reconquista, dopo che la corona spagnola aveva fatto dell’Alhambra una propria residenza, un dissonante palazzo fu aggiunto alla zona della Qasr (Alcázar), in un punto a oriente del lembo della Qasaba (Alcazaba), da Carlo V: in stile manieristico-rinascimentale restò a lungo incompleto a causa del disagio arrecato da una serie di terremoti nel corso della costruzione (dal passato secolo è sede museale e di eventi culturali diversi, e la sua biblioteca si è trasferita nel 1994 in prossimità del Generalife). Successivamente a Filippo V e alla moglie Elisabetta Farnese nessun monarca di Spagna si prese cura della Rossa né vi risiedette. Quindi cadde alcuni decenni nell’oblio. Venne riscoperta dai Francesi del periodo napoleonico: le restituirono l’antico prestigio, il comandante del loro esercito stanziatosi a Granada (1810-12) ne fece la base del suo quartier generale. L’opera di recupero rischiò di essere vanificata in maniera irrimediabile quando le truppe di Napoleone furono costrette ad allontanarsi: tanto è vero che avevano pensato di farla saltare in aria, però il sistema delle detonazioni fu bloccato da un militare spagnolo il quale con tempestività e coraggio limitò così i danni. Considerevole e poliedrico l’incontro tra la Rossa e le muse, compresa la decima che ha tratto spunto dal fortunato lavoro letterario di uno scrittore il quale una sua lapide menziona: quel Washington Irving creatore dei “Racconti dell’Alhambra” mentre nel 1829 vi soggiornò. La conoscenza di questo libro ispirò a Jack London da bambino la realizzazione di un modello in scala. Irving, diplomatico americano, fu in seguito ambasciatore degli USA a Madrid (1842-46). Il testo dei “Racconti dell’Alhambra”, pubblicato nel 1832, è composto da 31 capitoli che, toccando storia e fantasia, fanno rivivere e conoscere questa meraviglia e la sua passata civiltà. La Rossa, monumento nazionale dal 1870, è stata restaurata nel 1920 sotto la guida dell’architetto Leopoldo Torres Balbás. Nel 1984 l’UNESCO deliberò di includere fra i patrimoni dell’umanità essa, il vicino nordoccidentale quartiere “Albaizín” (di fondazione moresca) e il “Paradiso dell’Architetto” («trono» alhambrino, per Ibn Zamrak, poeta e uomo di Stato nazaride), quand’ormai secoli addietro la furia devastatrice dei reconquistadores, istigata dall’integralismo religioso cattolico, aveva cancellato moltissimi beni monumentali islamici. Basti pensare, ad esempio, che al posto di una moschea rossa, del 1308, comparve a cavallo tra ’500 e ’600, davanti al lato est del palazzo di Carlo V (avente la pianta di una ciambella quadrata), la chiesa di Santa Maria (a croce latina). Non va nemmeno trascurato, d’altro canto, il regio editto teso a scacciare gli Ebrei dalle giurisdizioni spagnole ed emesso proprio dall’Alhambra il 31 marzo 1492. L’ultimo sultano di Granada, Boabdil, passato alla storia come “il giovane” e “lo sfortunato”, è risultato vittima di una discutibile notizia che gli fa rivolgere un pesante rimprovero dalla madre Aisha al-Hurra. Durante l’abbandono della capitale sulla via dell’esilio, lasciata la Rossa dalla meridionale “porta dei sette suoli”, e raggiunta a 12 km un’altura (non a caso oggi il “Sospiro del moro”), poiché l’avrebbe in pianto contemplata, si sarebbe sentito dire: «Piange da donna ciò che non ha avuto la capacità di salvare da uomo». Il complesso alhambrino, circondato dalla flora dei pendii della Sabika (altresì Colle San Pedro), ha concorso, privo di fortuna, alla fase finale di una selezione, conclusasi nel 2007 e curata da una società svizzera, che indicasse le sette meraviglie del mondo moderno. Oggi dentro l’Alhambra, la cui vista all’imbrunire nella cornice della Sierra Nevada è da mille e una notte, un albergo in mano pubblica occupa l’ex convento francescano (già abitazione moresca).