di
DANILO CARUSO
Antonia Pozzi, la cui famiglia era di
estrazione sociale borghese e nobiliare, nacque a Milano nel 1912, morì suicida
il 3 dicembre 1938. Sulla base di miei precedenti studi plathiani (si vedano i
miei due saggi “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia Plath”1), il parallelismo tra lei e l’autrice bostoniana offre non pochi spunti.
La tematica del legame fra la montagna e la Pozzi, ad esempio, alla luce – non
solo – della sua poesia “Le montagne”, richiama la mia attenzione ancora una
volta sul concetto archetipico junghiano di Grande Madre (il modello psichico
collettivo di ente creatore e reggitore della vita naturale). Si tratta di un
archetipo femminile che si concreta in simboli. Nella circostanza della Plath quest’insieme
di significati si concentra sull’immagine lunare, mentre in Antonia la sua
lirica testé ricordata fornisce un exemplum diverso. Sia la Grande Madre di
Sylvia che quella della Pozzi hanno un quid di roccioso (sterile), di interiore
contrasto il quale coinvolge le due poetesse. Per entrambe l’argomento della
maternità, in senso lato e stricto sensu, assume un peso decisivo. L’asperità,
che può connotare un negativo razionale hegeliano, colora la realtà con il
vuoto del positivo. Agli occhi della poetessa milanese le montagne «occupano
come immense donne la sera […]. Mute in grembo maturano figli all’assente».
Sottendono un arco alchemico-junghiano, ossia il tendere di un auspicato
movimento della coscienza individuale alla volta di una consapevolezza totale
dell’interiorità psichica, la quale da quell’altezza restituisca un equilibrio (che purtroppo è venuto a mancare
nella parabola esistenziale di Antonia Pozzi, soprattutto a causa del mondo a
lei circostante, il quale l’ha rigettata giacché esso incapace di comprendere e
integrare la sua sensibilità poetica “confessionale”, da lei elevata a “funzione
trascendente” junghiana, creatrice di poesia e dunque catartica nei riguardi di
un indotto disagio): «Madri. E s’erigon nella fronte, scostano / dai vasti
occhi i rami delle stelle: / se all’orlo estremo dell’attesa / nasca un’aurora
/ e al brullo ventre fiorisca rosai». Il componimento ha estremi simbolici
junghiani: nigredo, «la sera»; rubedo, «un’aurora». Tra i cui colori –
nero e rosso – il testo registra la gamma intermedia di quel cammino della
psiche su citato che Jung denomina “processo di individuazione”. In un’epistola
del 1938, diretta all’amico poeta Tullio Gadenz, la poetessa ricordava la sua
esperienza alpina presso le Tre Cime di Lavaredo (Grande, alta quasi 3000 m;
Piccola e Piccolissima: un complesso sulle Dolomiti) in compagnia di un’altra
giovane donna patavina e di Emilio Comici. Nel gennaio del ’36 quell’ascesa
aveva rappresentato per Antonia Pozzi un evento molto intenso sotto il profilo
interiore. In particolare, lo scenario di quell’azione sulle Alpi fu il
versante nord di Lavaredo. La comitiva passò dal lato della Cima Piccola – la
cui sommità fu raggiunta dal compagno di quell’avventura, cui ella dedicò la
poesia “A Emilio Comici” (datata 16 gen. ’36) in memoria di quell’impresa –, e
trovò riparo nei rifugi denominati “Principe Umberto” e “Locatelli”. Nell’animo
della poetessa è rimasta impressa una sensazione del sublime la quale rammenta
la visione del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich.
In Antonia Pozzi in luogo della nebbia, di un’imago, predomina il frutto della dimensione uditiva. Un magmatico silenzio infatti occupa lo spazio inferiore antistante. Lo slancio, di non esclusiva sostanza poetica, di Antonia scopre un aggancio di ulteriore musicalità nelle nuvole soprastanti. Le sue epistolari parole, che prima avevano accennato a un grande organo posto a metà fra l’elemento ctonio e quello uranico, si spingono alla ricerca di una unità fisica panica. Lei ambisce a soddisfare tale sua intima vocazione, la quale tuttavia rimane in uno status d’incertezza. La sinfonia cosmica suona dentro di lei, al di fuori predomina una sensazione di Natura leopardiana. Lavaredo con le sue cuspidi le appare un’enorme chiesa del periodo artistico gotico, una cattedrale la quale, dopo essere stata fulminata e squartata da un atto divino, diventa una base orante immersa nello strazio pietrificato. L’andare oltre, in alto, costituisce l’unica via di fuga. La poetessa non manca di ricordare pure come il pensiero dei militari italiani caduti durante la Grande Guerra in quelle zone incida sulle sue riflessioni, un pensiero che la sprona a salire vittoriosa su quella vetta metafenomenica la quale le consegna un premio di liberazione quasi schopenhaueriano. In occasione della visita alpina rievocata, Antonia Pozzi fece delle foto (la fotografia era un’altra sua passione), a testimoniare che la sua capacità di cogliere la vita (libido) non aveva soltanto uno sbocco lirico, letterario, ma altresì iconico. Ecco il modo in cui le sue foto del caso scattate dal rifugio “Principe Umberto” si ricollegano al paragone di sopra con il quadro del romantico Friedrich. In esse la proiezione dell’infinito (il sublime matematico), nella profondità del paesaggio delle Alpi, disvela un binario parallelo a quegli elementi estetici pertinenti a quell’accostamento col “Viandante sul mare di nebbia”. In dette due fotografie non compare figura umana. Alla Natura fanno da contraltare alcuni strumenti alpini: una leopardiana dialettica “Vesuvio/ginestra”. Di quelle spiritualmente ricche giornate sulle Dolomiti sono testimoni quattro poesie pozziane composte a Misurina (vicina al monte Sorapis), una frazione di Auronzo di Cadore (Comune bellunese posto ai piedi delle Tre Cime), nel corso del gennaio del ’36: “Notte di festa”, datata giorno 6; “Salita” e “Commiato”, 11; “Approdo”, 12. A esse si aggiungono la già citata “A Emilio Comici” e “Rifugio” (del 19), di cui si ignora la sede di redazione. “Notte di festa” è rivolta ai soldati alpini, delle altre vale la pena leggere per intero l’emblematica “Salita” (da “Antonia Pozzi, Parole, Garzanti 2001”).
In Antonia Pozzi in luogo della nebbia, di un’imago, predomina il frutto della dimensione uditiva. Un magmatico silenzio infatti occupa lo spazio inferiore antistante. Lo slancio, di non esclusiva sostanza poetica, di Antonia scopre un aggancio di ulteriore musicalità nelle nuvole soprastanti. Le sue epistolari parole, che prima avevano accennato a un grande organo posto a metà fra l’elemento ctonio e quello uranico, si spingono alla ricerca di una unità fisica panica. Lei ambisce a soddisfare tale sua intima vocazione, la quale tuttavia rimane in uno status d’incertezza. La sinfonia cosmica suona dentro di lei, al di fuori predomina una sensazione di Natura leopardiana. Lavaredo con le sue cuspidi le appare un’enorme chiesa del periodo artistico gotico, una cattedrale la quale, dopo essere stata fulminata e squartata da un atto divino, diventa una base orante immersa nello strazio pietrificato. L’andare oltre, in alto, costituisce l’unica via di fuga. La poetessa non manca di ricordare pure come il pensiero dei militari italiani caduti durante la Grande Guerra in quelle zone incida sulle sue riflessioni, un pensiero che la sprona a salire vittoriosa su quella vetta metafenomenica la quale le consegna un premio di liberazione quasi schopenhaueriano. In occasione della visita alpina rievocata, Antonia Pozzi fece delle foto (la fotografia era un’altra sua passione), a testimoniare che la sua capacità di cogliere la vita (libido) non aveva soltanto uno sbocco lirico, letterario, ma altresì iconico. Ecco il modo in cui le sue foto del caso scattate dal rifugio “Principe Umberto” si ricollegano al paragone di sopra con il quadro del romantico Friedrich. In esse la proiezione dell’infinito (il sublime matematico), nella profondità del paesaggio delle Alpi, disvela un binario parallelo a quegli elementi estetici pertinenti a quell’accostamento col “Viandante sul mare di nebbia”. In dette due fotografie non compare figura umana. Alla Natura fanno da contraltare alcuni strumenti alpini: una leopardiana dialettica “Vesuvio/ginestra”. Di quelle spiritualmente ricche giornate sulle Dolomiti sono testimoni quattro poesie pozziane composte a Misurina (vicina al monte Sorapis), una frazione di Auronzo di Cadore (Comune bellunese posto ai piedi delle Tre Cime), nel corso del gennaio del ’36: “Notte di festa”, datata giorno 6; “Salita” e “Commiato”, 11; “Approdo”, 12. A esse si aggiungono la già citata “A Emilio Comici” e “Rifugio” (del 19), di cui si ignora la sede di redazione. “Notte di festa” è rivolta ai soldati alpini, delle altre vale la pena leggere per intero l’emblematica “Salita” (da “Antonia Pozzi, Parole, Garzanti 2001”).
Questa
tua mano sulla roccia
fiorisce:
non
abbiamo paura del silenzio.
Immenso
grembo
la
valle spegne l'ansia
di
lontane valanghe,
fumo
lieve
sulle
pareti nere.
Si
accendon le tue dita sulla pietra
alte
afferrando
orli
di cielo bianco:
non
abbiamo paura del deserto.
Andiamo
verso il Sorapis:
così
soli
verso
l'aperto
altare
di cristallo.
Alla
scrittrice milanese è stato dedicato, fra l’altro, un film (“Antonia”, 2015),
dove alcune scene rappresentano un’arrampicata alpina della giovane poetessa, e
in cui incidentalmente viene menzionata la località di Lavaredo.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio
saggio “Note di critica (2017)”
http://www.academia.edu/35449885/Note_di_critica
È stato altresì pubblicato su “QVOTA 864 / Semestrale del CLUB ALPINO ITALIANO – Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” AURONZO DI CADORE” sul n. 36 – dic. 2017.
https://www.academia.edu/35891613/Articolo_su_Antonia_Pozzi
Il video, non riguardante il film sulla poetessa, invece proviene da un collegamento con YouTube, dove l'ho trovato.
1 http://danilocaruso.blogspot.it/2016/12/due-saggi-dedicati-sylvia-plath.html
È stato altresì pubblicato su “QVOTA 864 / Semestrale del CLUB ALPINO ITALIANO – Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” AURONZO DI CADORE” sul n. 36 – dic. 2017.
https://www.academia.edu/35891613/Articolo_su_Antonia_Pozzi
Il video, non riguardante il film sulla poetessa, invece proviene da un collegamento con YouTube, dove l'ho trovato.
1 http://danilocaruso.blogspot.it/2016/12/due-saggi-dedicati-sylvia-plath.html