di
DANILO CARUSO
Il
linguaggio rappresenta per Hegel un collante astrattivo, cioè coinvolge, dentro
l’Assoluto, alla volta di una superiore unità rispetto all’Io singolo: è
l’anticamera dello Stato. Il filosofo tedesco qui è stato molto aristotelico. Esso
accomuna tutti gli “esseri umani”; ha uno sfondo concettuale, anche se si
esprime in vari modi (dal fonico al vario grafico). È una gelatina (gallerte, suggerirebbe Marx)
intellettuale. Non lo ritengo univoco e semplice nella sua facciata; può essere
suscettibile di ermeneutiche differenti. Perciò, nei miei studi letterari cerco
di applicare un’ermeneutica contestuale e non paranoica. In generale, credo che
il linguaggio abbia un sostrato di natura musicale: quando scrivo penso a
comporre una musica di concetti, cercando di darle il miglior abito retorico.
Chi legge un mio testo non dovrebbe trovare una cacofonia concettuale. Rumori,
purtroppo, sono quelli che abitano il mondo dei più: una visione un po’
platonico-pitagorica. Chiediamoci come faccia a parlare la gente, senza
conoscere la grammatica della lingua in cui si esprime. Bene o male tutti
imparano a parlare, però pochissimi sanno fare analisi logica e grammaticale.
Non ritengo che il linguaggio, a posteriori, diventi pensiero, semmai il
contrario: il logos endiáthetos diventa prophorikόs. D’accordo con Aristotele
opto in favore di un sostrato logico e comunitario, una potenza, la quale
tramite il linguaggio unisca ogni essere umano in società (zόon politikόn). Noi
pensiamo attraverso esempi, mediante immagini particolari, le quali si
traducono in un segno esteriore (scritto o fonico). Gli elementi semantici poi
vengono recuperati dai codici linguistici, artificiali e contingenti nella
sostanza, ma non nella forma originaria. Questa forma, la possibilità di
parlare e ragionare, è innata, secondo me. Le parole si definiscono e si
spiegano inter se: deve necessariamente esistere una base metafisica che
avvalora il linguaggio (il concetto-esempio, immagine di un’idea platonica). Se
non fosse così non avremmo uniformità semantica, né i neonati avrebbero la
potenza linguistica. Ogni bambino tutt’al più imparerebbe un suo proprio
animalesco linguaggio, ma questo non connota un “essere umano”. Gli animali
comunicano, però non hanno “logos”, non scrivono, non leggono, non dialogano,
si comunicano degli stati emotivi: c’è un enorme abisso tra gli umani e gli
animali. Un animale non può fare una legge che sia norma di una società civile.
Il pensiero produce la realtà: cogito, ergo sum. Poiché sono di orientamento
filosofico ideal-fenomenista non convengo che il linguaggio sia un’attività
biologica. La mia forma mentis si tiene lontanissima da una forma empiristica
di nominalismo. Non concepisco il linguaggio come un prodotto evolutivo umano
aggiunto, uno strumento mirante ad assoggettare la realtà (anche attraverso la
conoscenza scientifica). Non sono empirista, pertanto non accetto il meccanismo
lockiano introspettivo a posteriori di produzione e scoperta dei concetti e del
successivo linguaggio. Rimango vicino a Cartesio, il vero fondatore (in
pectore) dell’idealismo moderno, e all’innatismo delle (non tutte) idee. Non
sono neanche freudiano, quindi non penso l’essere umano in esclusivi termini
biologici. Penso la libido alla maniera di Jung: il linguaggio può accogliere
forme espressive simboliche originarie dell’inconscio collettivo, non
necessariamente vincolate a fattori sessuali freudiani. Mi pare riduttivo
vedere nel linguaggio il campo di esercizio di fisiologiche pulsioni dell’ES. I
concetti stessi li penso come degli universali logici (idee platoniche)
contenuti in un collettivo logos, parallelo all’inconscio collettivo di Jung
(che elabora e raccoglie universali libidici): immagine primordiale è
l’archetipo junghiano inconoscibile, immagine primordiale è l’idea platonica
altrettanto inconoscibile. Rispettivamente noi maneggiamo il concetto
universale grazie a un exemplum mentale, e l’archetipo per mezzo di simboli
(come dice Jung). Quindi il fatto che nel linguaggio si riversino problematiche
varie non dimostra, a mio modesto avviso, che queste siano un esercizio
retorico o accidentale rispetto alla natura umana. Una lettura di ordine
chimico-biologico dell’interlocuzione verbale fra soggetti mi sembra inadeguata;
e non dico che simili situazioni non accadano: cioè una dimensione logica che
si attua sopra un piano (limitato) di libido freudiana. La psicologia di Freud
è buona sino a un certo punto nell’analisi del bellum omnium contra omnes: ma non tutti sono vittime di una
pulsione di aggressività nell’espressione e nell’interpretazione. Simile
patologia nevrotica e/o paranoide affligge di solito un soggetto medio: non
tutti siamo però mediocrità. E perciò la visione freudiana davanti ai prodotti
intellettuali superiori si trova in difficoltà. Qui occorre la psicologia
analitica junghiana. E a tal proposito puntualizzo che non intendo asessuata la
anzidetta musicalità dei concetti. Ciò non vuol dire patrocinare assenza di
obiettività (inerente, invece, a una questione metodologica): la forma
fisiologica dell’individuo viene coinvolta nel suo linguaggio e nella sostanza
ivi contenuta. Non possiedono la stessa prospettiva una poesia di Saffo o una
di Catullo: il mondo è bipolare “maschile/femminile” (Jung tiene sempre
presente questa cosa). L’obiettività e la trasparenza di un’espressione non si
trovano nella dimensione dell’asessuato. Semmai assumendo la tensione di un
punto di vista “individuativo” junghiano: l’anima
e l’animus possono aprire le porte
della verità. Là è l’obiettività. Il linguaggio e le idee di ognuno
rappresentano il suo stadio evolutivo. Chi rimane “aggressivo” ha qualcosa che
non va: è a metà strada tra l’animale e l’umano autentico (zόon logon ékon,
Aristotele). Ordine, è musicalità; e può avere designer femminile o maschile.
Disordine, è cacofonia. Il mondo si vede con occhiali rosa o celesti, anche da
individuati: ciò non pregiudica l’obiettività poiché appunto la bipolarità
fisiologica non viene soppressa. L’armonia interiore ed esteriore, direbbe
Platone, sta alla base dell’ingresso del Bene nel mondo; tale armonia si
manifesta nell’individuazione, nella soppressione dell’aggressività, nell’uso
di un linguaggio veramente umano e riflesso iperuranico. La moderna filosofia
del linguaggio si rivela debitrice nei riguardi del grande filosofo ateniese.
Il pensiero del primo Wittgenstein, quello del “Tractatus
logico-philosophicus”, rispecchia una problematica già avanzata dal principale
allievo di Socrate. I dialoghi platonici, nel loro esaminare, non fanno altro che
presentare un “linguaggio agito (dialettica)”, il quale costituisce l’oggetto
di analisi di questa novecentesca corrente filosofica. Come Platone,
Wittgenstein si è avvalso dello strumento dialettico-linguistico (adottandolo
quale mezzo analitico) per ricercare la verità scientifica. Il filosofo
austriaco, dal canto suo, ha indagato quali fossero le condizioni di
applicabilità obiettiva del linguaggio. Allo scopo di attuare il suo progetto
si è dunque avvalso di un metalinguaggio analizzante il linguaggio medesimo.
Wittgenstein si mostra platonico nel presupporre una struttura ideale a priori,
mentre Platone può apparire wittgensteiniano nell’avvalersi sempre di
ragionamenti dialogati. Pure quello di Platone è un metalinguaggio, nel senso
che questo mira a rintracciare una base ideale originaria (semantica delle Idee
platoniche). Nel parlato convenzionale qualsiasi segno sta al posto di
qualcos’altro: questo “qualcos’altro” si mostra sì esterno al soggetto, ma non
inerente alla realtà materiale (composta di singolarità, la cui astrazione non
equivale a un “segno” fonico o grafico generalizzato). In relazione a ciò
Wittgenstein è rimasto ambiguo: su che cosa si baserebbe il suo investigativo
metalinguaggio? Socrate e Platone hanno mostrato come l’indagine filosofica
abbia una natura dialettica, dialogica, linguistica. Il loro metalinguaggio, a
differenza di Wittgenstein e dei suoi epigoni, però si fonda in maniera
esplicita su un apparato a priori logico-ideale: il che costituisce la cosa
mancante alla filosofia del linguaggio di ispirazione antimetafisica. Il
filosofo viennese, pur volendo essere rigorosissimo, non ha potuto fare a meno
di assumere nel “Tractatus logico-philosophicus” una posizione platonizzante.
Se da un lato il linguaggio quotidiano fa riferimento a oggetti esteriori (da
intendersi in senso lato) legati alla “materialità”, d’altro lato esiste un
metalinguaggio il quale è espressione di un impianto ideal-concettuale. La
filosofia adopera questo linguaggio-dei-concetti (metalinguaggio): la gente che
non si occupa di riflessione scientifica e filosofica, che non cura interessi
umanistici, rimane ancorata al modesto linguaggio-degli-oggetti (rappresentante
per loro di un “arido vero”). Il secondo Wittgenstein, quello delle “Ricerche
filosofiche”, si concentra su quest’ultimo. Schopenhauer dice una cosa molto
interessante allorché parla della musica in funzione di via d’uscita dal
negativo fenomenico. Il filosofo di Danzica sostiene che la musica e altre arti
possono proiettare il soggetto umano verso un piano di contemplazione dell’idea
platonica. Ciò si ricollega alla mia idea di musicalità riguardo alla
costruzione concettuale di un discorso, volta poi in una veste linguistica.
Tutto ciò che riguarda un’elaborazione mentale di natura umanistica ci avvicina
al Mondo iperuranio. Un asciutto ancoramento al fenomenico invece conduce alla
volta della bestialità (esiste la possibilità di disimparare a parlare): campo
di studio della psicologia comportamentista (più declassante di quella
freudiana).
NOTA
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
http://www.academia.edu/37182356/Percorsi_di_analisi_umanistiche