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mercoledì 14 agosto 2019

L’ONTOLOGIA DI KUNDERA TRA ESISTENZIALISMO E “KITSCH”

di DANILO CARUSO
 
“L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera (scrittore nato nella vecchia Cecoslovacchia nel 1929, il quale ha poi preso cittadinanza francese) è un romanzo, purtroppo, non alla portata di lettura di chi non possieda un bagaglio intellettuale adeguato alla sua ispezione critica. Il rischio obiettivo, di cui non si può far comunque colpa al lettore sprovveduto, è quello di non comprenderne i significati e di relegarlo fra le brutture letterarie. Prendendo spunto da questo romanzo, pubblicato nel 1984, è stato realizzato un film nel 1989. Il primo passo da compiere al fine di intraprendere una corretta ermeneutica consiste nel ricondurre l’opera al suo contesto genetico storico: non è ancora caduto il Muro di Berlino, né tanto meno il socialismo reale sovietico, e da pochi anni sono scomparsi i grandi filosofi esistenzialisti Heidegger e Sartre. Kundera, che risiede ormai da parecchi anni in Francia, all’inizio del romanzo evoca alcuni concetti filosofici e cita alcuni filosofi. Egli sottolinea nell’incipit dell’opera la rilevanza di una dicotomia: “pesantezza/leggerezza”. Si riferisce a dimensioni ontologiche ed esistenzialistiche legate al soggetto umano, la cosa che mi ha colpito è che egli non faccia menzione dell’analogia con Simone Weil. Naturalmente non era obbligato a farlo, giacché al limite appare possibile che durante l’atto redazionale la ignorasse. Tuttavia nell’apertura del testo compaiono tangenze weiliane. Della filosofa francese rimane tra l’altro uno zibaldone pubblicato postumo nel 1947 col titolo “La pesanteur et la grace [La pesantezza e la grazia]”. Rimane chiaro che gli ordini di riflessione mentale di Milan Kundera e Simone Weil sono separati da un abisso concettuale, però la dicotomia che costui evoca è, non solo formalmente, ma altresì in certi tratti ontologici, vicinissima a quella weiliana presentata nella raccolta testé ricordata. Con “pesantezza” entrambi indicano qualcosa di legato ontologicamente al lato materiale/terreno della vita, il quale sarebbe regolato da meccanicità: nel caso di Kundera si parla di “eterno ritorno” stoico-nietzschiano. Ancora per entrambi, ci può essere un’eccezione a ciò: la “leggerezza-dell’essere” kunderiana in Simone Weil si chiama “grazia”. Quest’ultima nella filosofia della pensatrice rappresenta il prodotto dell’intervento di Dio, nello scrittore invece simile smarcamento dal rigore dell’eterno ritorno troverebbe nell’essere umano la sua possibile sorgente. All’interno della narrazione kunderiana si parte dalla Cecoslovacchia comunista degli anni ’60, al di là della “cortina di ferro”. Tomáš, un chirurgo divorziato da anni, e deluso dall’esperienza matrimoniale, con un figlio e un assegno di mantenimento mensile da pagare, rivede Tereza (una donna dagli interessi intellettuali costretta a fare la cameriera) quando è lei, dopo essersi conosciuti casualmente, ad andarlo a trovare a Praga: lui decide di ospitarla. La relazione tra Tomáš e Tereza prosegue tra la promiscuità di lui e la gelosia di lei. Il che mi ha rammentato la vicenda sentimentale di Sylvia Plath e Ted Hughes, e in particolare le mie impressioni scritte in un mio saggio a proposito delle poesie plathiane “Pursuit” e “Gigolo”1. Tomáš finisce con lo sposare Tereza, e prende pure in casa un cucciolo di cane. Ella (la quale da tempo era diventata fotoreporter) e il marito, al momento dell’occupazione sovietica in Cecoslovacchia, decidono di emigrare a Zurigo, dove volevano assumere lui presso un ospedale. Tomáš a Ginevra ha ritrovato, temporaneamente lei là, l’“amica erotica” Sabina (cioè una persona appartenente a un novero diversificato volto all’esercizio dell’eros in modo non impegnativo e non verso un soggetto esclusivo nello stesso tempo: “amicizia erotica”; nel caso particolare costei è una pittrice anticonformista). Tereza decide di abbandonarlo e di fare ritorno a Praga. Lui alla fine sceglie di seguirla in patria, dopo una contrastata valutazione della sua situazione sentimentale. Il rapporto che Kundera descrive nella crescita di Tereza intercorrente fra lei e la madre (dipinta come una disinibita, poco di buono) mi rievoca un’altra tangenza plathiana a proposito della prima. Si badi bene, però, che si tratta di una analogia in parte formale dato che la mamma di Silvia Plath era inquadrata nei canoni di una mentalità media femminile americana della sua epoca. Quella di Tereza appare la copia in veste anarco-marxista d’oltrecortina. Ma la cosa che emerge al mio sguardo è che entrambe agli occhi delle rispettive figlie siano fonte di disagio attraverso il messaggio ideologico deteriorato (distopico) di cui si pongono sulla scena quali rappresentanti. Il tema della maternità, anche se sotto profili diversi, appare nevralgico in alcuni passaggi del romanzo in relazione alla formazione di Tereza, e altrove parallelamente, per quanto concerne la linea del mio accostamento, nella vita della scrittrice di Boston. Davanti a queste donne, a prescindere dal loro status di esistenza letteraria o reale, le madri hanno costituito dei mostri: un carattere di presenza gorgonea, che la Plath ha riportato nella sua produzione2. A conclusione dell’intermezzo nel romanzo rivolto alla storia fra Sabina e il suo amante Franz (un professore universitario, il quale lascia la moglie per lei, ma che poi viene di riflesso allontanato da questa), Kundera chiarisce l’idea che dà il titolo al suo romanzo: l’insostenibile-leggerezza-dell’essere. In un passaggio ci riporta all’incipit del testo, dov’egli aveva evocato filosofi e concetti filosofici. Anche qui, pur non facendo nomi, l’autore offre spunti che fanno intravedere quella che si rivela essere la sua forma mentis.
L’insostenibile-leggerezza-dell’essere, così come vissuta da Sabina, viene presentata quale una continua ricerca della contraddizione. La pittrice la vive nella veste di anticonformismo, ma nella di essa dimensione astratta kunderiana simile atteggiamento non può non rievocare una radice marxiano-hegeliana: la contraddizione (l’opposizione) motore della vita davanti alla “pesantezza” di quanto si è consolidato, compare vita autentica solo nel mettere in atto una “dialettica negativa” (T. W. Adorno). Se si vuol superare l’omologazione nell’eterno-ritorno-dell’uguale, la quale ha appiattito e annichilito l’essere umano su un piano statico, l’unica via di salvezza rimane l’andare-contro. Unicamente in questa maniera la vita non tradirà se stessa. Il concetto marxiano di “lotta di classe” viene volto da Kundera in una individuale ed esistenzialistica “dialettica negativa”, e il personaggio di Sabina incarna alla perfezione suddetto modus vivendi. Non appare più uno schieramento di classe sociale omogeneo e indistinto a contrapporsi alla reazione nei confronti del progresso, bensì un insieme di atomi-persone, i quali si staccano dalla superficie a una dimensione (H. Marcuse). La componente dell’esistenzialismo porta nella riflessione kunderiana il primato della persona, sulla quale, isolata, si scarica l’insostenibile-leggerezza-dell’essere. All’insostenibile-leggerezza-dell’essere di Sabina fa seguito nel romanzo l’exemplum della pesantezza-dei-corpi nel caso di Tereza allorché costei finisce in modo del tutto surreale nell’appartamento di un pressoché sconosciuto ingegnere il quale vorrebbe tenere con lei un congresso carnale. In simili descrizioni offerte da Kundera risalta la circostanza della fisiologia di lei che si pone in contrasto con la psiche. Tereza affronta proprio un disturbo psicosomatico nella contrastata situazione interiore del momento la quale finisce per condurla letteralmente in bagno. Quanto lei attraversa durante quell’approccio sessuale da parte di quegli è uno stato di profondo turbamento, dove la dicotomia “corpo/psiche” entra in conflitto nei suoi due termini. La dimensione del disagio scaturente compenetra reciprocamente i due poli: la corporeità vorrebbe adeguarsi a una pulsione sessuale di stampo freudiano e manda alla psiche un messaggio di un suo adeguamento in tal direzione, mentre la psiche (da un più alto gradino di una libido che pare junghiana) dal suo canto risponde con un atteggiamento di rifiuto. Tale contrasto si sana, per così dire, nella mediazione di un sintomo psicosomatico, il quale è invece nella sostanza soltanto un segnale dell’avvenuto conflitto interiore. Infatti Tereza, a differenza di Sabina, attraversa un rapporto problematico in generale con la propria corporeità, la quale vorrebbe imporre unica ed esclusiva in campo erotico al cospetto di Tomáš. L’intero episodio, alla fine, restituisce un’allegoria della sofferta ipocrisia umana. Per quanto riguarda Tereza, ella poi si tormenterà con l’idea del suo occasionale partner, in maniera più o meno paranoica, sospettando di essere rimasta vittima di un complotto di estranei, forse al servizio del regime comunista in Cecoslovacchia; un complotto che avrebbe dovuto portarla fra le braccia di quell’ingegnere a scopo di denuncia per immoralità. Tomáš, dopo il ritorno a Praga, finisce col perdere il lavoro all’ospedale, e quello di medico completamente, a causa di un articolo pubblicato su un periodico, nel quale contestava la dirigenza comunista cecoslovacca: davanti a ben due opportunità di ritrattare le sue idee, preferisce desistere dal compiere tale atto, volendo mantenere integra la sua coscienza. Nel finale del romanzo Kundera riserva una tragica morte a quasi tutti i suoi protagonisti: Tomáš e Tereza, Franz. Solo Sabina sopravvivrà emigrata negli USA a un ciclo di intrecciate vicende umane. I personaggi di primo piano moriranno in un incidente stradale, dopo essersi trasferiti in campagna. Ritornano le tangenze plathiane: la poetessa bostoniana col consorte era andata ad abitare in una residenza campestre (denominata “Court green”), e in quel periodo, compreso il tradimento da parte di Ted con Assia Wevill, aveva cercato di suicidarsi, mentre guidava l’auto, andando fuori di strada. Oltre a questi due dettagli, nella narrazione kunderiana, relativa a suddetta permanenza, in una zona di campagna, di Tomáš e Tereza, compare una sinistra evocazione della Luna, un’imago che è saliente nella produzione plathiana (col suo significato archetipico di Grande Madre negativa/positiva). Voglio infine rammentare altresì un altro piccolo particolare: la poetica di Hughes ruotava attorno al rapporto fra uomo e natura. “L’insostenibile leggerezza dell’essere” costituisce un testo dentro a cui Milan Kundera ha intrecciato diversi piani concettuali e narrativi. Si va da contenuti filosofici di marca esistenzialistica, come sopra visto, ad approfondimenti e riflessioni di spessore politico. Un velato sfondo di pessimismo permea tutto, un pessimismo la cui radice sembra avere una tangenza nel pensiero di Schopenhauer, di cui lo scrittore evoca alcune puntuali idee a proposito di innamoramento, amore e sessualità: in fin dei conti agli occhi del filosofo tedesco un colossale inganno della Natura, la quale mirerebbe soltanto alla perpetuazione della specie in un cieco e irrazionale slancio vitalistico. E in effetti ciò che alla fine emerge dall’intero romanzo è un senso di assurdità dell’esistenza umana, il cui significato Kundera porta alla luce mediante un disvelamento (ma oserei dire, stando nell’orbita kunderiana, uno sputtanamento) di tutta l’ipocrisia della società umana a lui contemporanea. L’autore affronta nell’opera l’ambivalenza del concetto di “kitsch”: cose-di-cattivo-gusto. E lo fa mostrando le due prospettive della sgradevolezza: agli occhi dei perbenisti e a quelli degli osservatori critici obiettivi. Quanto nel romanzo appare non gradevole ha il preciso scopo di urtare per dare una spallata all’ipocrisia costituita puritana. Lì stanno la forza e il pregio de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: un testo che, indubbiamente, potrebbe mostrarsi sgradevole qualora non compreso nella sua, anche provocatoria si potrebbe dire formalmente, natura di “kitsch”. In simile logica trovano lo spazio di innesto i vari livelli di narrazione, i quali non risultano qui sintomo di policentrismo. La ciclica eterna tragica morte di Tomáš, Tereza e Franz, e la parziale salvazione di Sabina, si rivelano esemplificazioni (attraverso maschere) dell’assurdità della vita (non soltanto nel ’900, ma in ogni tempo); e unicamente alla maniera di Sabina può esserci una soggettiva via di fuga alla condanna ontologica dell’Essere. 


NOTE 

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Studi critici (2019)”
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici 


1 Dal mio saggio “Silvia Plath e l’utopia dell’essere” del 2016
“Pursuit” […] si segnala non solo grazie al suo connotato profetico, ma anche per una diffusa atmosfera dantesca. Il maschio di pantera, di cui parla, che insegue l’autrice è Ted Hughes di cui dice al v. 2: «un giorno io avrò la mia morte da lui». Al di là di ciò la lirica è pervasa da sensi di eccitazione e ansietà analoghi a quelli di Dante, rivelati nel primo canto dell’“Inferno” allorché egli incontra le tre bestie simboliche. I versi plathiani ricalcano dettagli danteschi. I vv. 2-3, recitanti: «la sua cupidigia ha messo il bosco in fiamme, / egli cerca la preda più altero del sole», da un lato ci fanno rivivere la pressione sentita da Dante alla vista delle forze che vogliono impedirgli il cammino di salvazione, dall’altro offrono una proiezione unificata di quelle tre fiere sull’immagine saliente in “Pursuit” della lonza (ossia, sul piano concettuale, dell’istinto erotico). Il maschio di pantera («panther») della Plath assomma l’avidità della lupa («greed» del v. 3 ; si vedano pure il v. 13: «insaziabile…», i vv. 23-24: «… le donne giacciono / divenute esca del suo corpo affamato», il v. 32 «… affamato, affamato…», i vv. 38-40: «per estinguere la sua sete sciupo il sangue; / egli mangia, e tuttavia il suo bisogno cerca cibo, / esige un sacrificio totale»), e la superbia del leone (al v. 4 la fiera plathiana «cerca la preda più altera del sole», tant’è che l’autrice afferma ai vv. 43-44: «scappo da tale assalto di radiosità», e il sole dantesco è simbolo rinviante a Dio). I baci della pantera che inaridiscono (v.19) hanno inoltre alquanto del potere della lupa, il quale è altresì manifesto nei vv. 21-23: «Nella scia di questo fiero felino [fierce cat: la “lussuriosa” lonza dantesca] / accese a mo’ di torce per la di lui gioia le donne giacciono». In questi ultimi versi si può vedere in aggiunta alla fine di Sylvia anche quella di Assia Wevill. Sia la Plath che Dante iniziano i rispettivi incontri nella prima metà del giorno, però davanti a entrambi, braccati, si prospetta il momento dell’oscurità della junghiana “ombra”: l’essere ricacciato nella «selva oscura» per il secondo dalla quale egli sarà tratto in salvo da Virgilio, e il sopraggiungere della notte per la prima. La dinamica di costei è sospesa tra due poli: la luminosità iniziale nel contesto del «mezzogiorno» (v. 10) e l’oscurità finale nell’altro contesto della «mezzanotte» (v. 26) in cui «le collline covano una minaccia, generando l’ombra [shade]». Il maschio di pantera plathiano si presenta e adesca con forza incantatrice e certa grazia della lonza dantesca: «La sua voce mi tende un agguato, significa un’estasi» (v.41). La poetessa di Boston avverte il disagio provocato dalla dilagante (freudiana) libido (un momento dell’eros junghiano) (vv. 33-34), e nella conclusione della lirica sente la necessità di una ritirata (vv.45-47; percepisce un saffico somatico turbamento: v. 48 della Plath, seconda parte del v. 11 di Saffo del frammento 31 dell’edizione Voigt ), ma ella è consapevole d’altro canto di non poter resistere a quel richiamo e di cedere a quello che sarà il suo destino con Ted Hughes (vv. 49-50): un verso di Jean Racine (1639-1699) riportato dalla Plath dopo il titolo della sua poesia, «Nel fondo della foresta la tua immagine mi segue», rievoca da un lato la già vista potenza di eros e dall’altra la figura della suicida Fedra, dalla cui omonima tragedia detto verso fu tratto (si tenga presente però che a parlare è Ippolito ad Aricia). A Hughes è molto probabilmente rivolto lo strale della poesia plathiana “Gigolo”, datata 29 gennaio ’63. Tale personaggio di gaudente senza cuore, che parla di sé, è antitetico, speculare nelle analogie tematiche, al leopardiano “pastore errante dell’Asia”. Questo si rivolge alla luna lamentando la sua infelicità (e quella del genere umano, ovunque e sempre) e riconoscendo al suo gregge una speranza di animale inconsapevolezza di tutto il negativo dell’esistenza. Lo Hughes-gigolò invece si proclama contento del suo successo con le donne, le quali adesca con la sua monumentale immagine. Loro sono il suo gregge, in rapporto a cui la prospettiva di felicità è invertita: è lui colui che non si annoia mai, non incorrente nel pericolo di restar solo (a guisa delle sue vittime). Egli appare una sorta di narcisistico re Mida di «bitches [alla lettera “cagne; indica pure l’uggiolio” e quindi per estensione lagnanze, gemiti, nonché “donne scostumate”; n.d.r.]» che lui converte «in mormorii di argentei / rotoli». Questo pastore (poeta) errante per Assia pare essere invidiato da quello leopardiano: «… s’avess’io l’ale [per potere; n.d.r.]… come il tuono errare di giogo in giogo, più felice sarei…». Sylvia Plath tempo addietro aveva definito la voce di Ted simile al tuono di Dio («voice like the thunder of God»). I gioghi del gigolò sono i «violoncelli [cellos]», evocanti non solo la sagoma femminile, ma anche inequivocabile linguaggio di “Brave New World” quando Aldous Huxley parla di “saxphonist / sexophonist”; una forma figurata la quale rimbalza all’interno del poetico monologo plathiano nelle «nuove ostriche [new oysters; fuor di metafora “muliebria genitalia”]» che si offrirebbero in maniera spontanea a Hughes (definito da Sylvia altresì un «leone»), il quale attraverso la bocca del gigolo, imitando uno dei migliori α[...], dichiara prima pure: «Mai invecchierò». 

2 Ibidem
In “Medusa” (poesia plathiana del 16 ottobre ’62) l’archetipo della Grande Madre, in veste soprattutto negativa, si mostra nella sua evidenza.
Suo simbolo è appunto Medusa, la quale riflette l’immagine dell’inconscio collettivo: «le orecchie rivolte [che fanno coppa, letteralmente; n.d.r.] alle incoerenze del mare [l’acqua è per Jung simbolo dell’inconscio; n.d.r.] / … snervante testa – palla di Dio». Ella si incarna e si sovrappone nella figura della mamma (da non trascurare che un genere marino di me-dusa si chiama Aurelia, come la madre di Sylvia) in modo tale da lasciare all’archetipo il suo gioco di ambiguità bipolare, cosicché Medusa può essere «lente di misericordie», ma d’altro canto provocare l’assedio dell’Io della poetessa (v. seconda strofa).
Il non sereno, ambiguo, legame archetipico del complesso materno attraversa le strofe 3-5, culminando nell’emblematica immagine della «placenta», il rassicurante luogo di una Grande Madre positiva. La Plath ricorda la condizione di estremo disagio di fronte a costei: «morta e senza denaro, / sovraesposta come una radiografia». E in un sussulto titanico, che segue quello di “Daddy” scaccia il negativo dell’archetipo. Dopo le ultime due incisive strofe, un singolo, isolato verso, lapidario dice: «Non c’è più niente tra noi». Da sottolineare la metafora uterina collegata alla Grande Madre: «bottiglia nella quale vivo, / orrendo Vaticano [il colle, nella cui zona fu il posto del martirio di san Pietro]». Questa riflette il carattere elementare dell’archetipo, la sua statica presenza (dunque positiva, tuttavia impantanante nella dipendenza) in un simbolo che è variante in merito del più classico vaso. Il verso terminale di “Medusa” si può accostare all’incipit di “Daddy” (nella sostanza sono molto simili): «There is nothing between us»; «You do not do, you do not do / any more».
In “Medusa” si compie la simbolica uccisione della madre (Grande Madre negativa presente, ad esempio, come detto nelle favole) affinché ci sia l’emancipazione dalla faccia oscura dell’archetipo; e il processo di individuazione, mirante a realizzare le interiori coerenza e integrità psichiche, dopo un’ulteriore rivisitazione del “maschile” (motore dell’azione menzionata, la quale comporta il recupero del “femminile” rifiutato), possa procedere libero verso il guadagno di un piano di equilibrio psichico di natura androginica (raggiungimento del Sé, riabilitante l’archetipo non più oscurato da qualità negative). È indubbio che le esperienze di maternità avessero condotto Sylvia Plath a una relazione archetipica con la Grande madre sotto un più maturo carattere trasformatore, consentendole di superare il livello del carattere elementare, e quindi di affrontare il mostro con più efficace vigore. Il muro materno, alla cui “ombra” in precedenza si era mossa (in maniera più agevole se di fatto distante dalla figura materna), le pare statica costruzione psichica da abbattere: lo confessa in una lettera alla madre dello stesso 16 ottobre, giorno di “Medusa”, lettera nella quale rifiuta la prospettiva simbolica del rifugio uterino, e riconosce la sua grandezza come autrice che ha raggiunto la maturità dell’essere: il suo potere creativo è completo, perfetto.