di DANILO CARUSO
Il “Titus Andronicus”, tragedia attribuita a William Shakespeare, rappresenta un’opera teatrale richiedente una ponderata analisi
volta a farne emergere le sottostanti radici concettuali, le quali devono
essere quelle della forma mentis dell’autore del testo, e non quelle
provenienti da un’operazione di lettura ed esame ermeneutico con categorie
culturali di altri tempi e altri contesti posteriori estranei. Il “Tito
Andronico” shakespeariano così inquadrato figura tra le cose peggiori che io
abbia letto, e ne illustrerò con chiarezza analitica il perché. Voglio
cominciare la mia esposizione dei miei pensieri critici rilevando nella
tragedia una dicotomia canonica negli ambienti di cultura cristianizzata e
cristiana: la divisione della gente in “buoni” e “cattivi”. Su un fronte sono
indicati tutti i cattivi, le loro colpe e i loro difetti. Gli altri, che hanno
effettuato tale selezione morale, risultano dunque essere i buoni sine macula.
L’Occidente – sia che fosse protestante sia che fosse cattolico – da quand’è
cristiano continua a proporre simile rigida dicotomia nella morale e nella
politica, nei fatti interni e in quelli esteri. Io reputo questo modello
interpretativo molto inappropriato, in quanto frutto di radicalismo nevrotico
religioso. A mio modesto sentire non esistono realtà angelicate che combattono,
al pari degli eroi dei fumetti, contro un raggruppamento di demoniaci
farabutti. La realtà mi sembra più complessa e di difficile comprensione a
sguardi superficiali, ingenui, ignoranti. Ho notato nel caso del “Titus
Andronicus” che le stesse nefande condotte se attuate dai buoni producono
azioni moralmente buone, se viceversa sono i cattivi a macchiarsi di gravissime
colpe analoghe (e ovviamente restano sempre ingiustificabili e da condannare)
sono ritenuti responsabili in negativo. È chiaro che il problema è costituito
dai primi, da una loro non corretta valutazione. Vedremo subito meglio come il
cruento comportamento dei buoni non possa essere qualificato positivo. Se
andiamo a guardare con sincero occhio critico l’apertura della tragedia
analizzata non possiamo negare che tutte le vicende traggano origine da una
decisione inaccettabile assunta da Tito Andronico. Egli sta nello schieramento
dei buoni, vive in un Impero romano ormai cristiano, e chiede di sacrificare il
primogenito della sconfitta regina nemica Tamora in memoria dei di lui figli
caduti nello scontro coi Goti. Un cristiano ha preteso un sacrificio umano: non
quadra niente davanti alla ragionevolezza. Certamente possiamo pensare al
veterotestamentario caso della figlia di Iefte, ma una tale organicità
rappresenterebbe l’ennesimo inciampo dei cosiddetti buoni al cospetto di una
morale molto più sensata e ragionevole quale quella kantiana. Se ancora
all’epoca shakespeariana è possibile comunemente pensare l’uccisione di un
individuo umano in maniera leggera, quasi fosse un ludo offerto dalla giustizia
(secolare o divina), ai nostri tempi in cui possiede cittadinanza migliore
riflessione illuministica non possiamo fare a meno nell’esame di evidenziare
quei limiti nella vita sociale, limiti i quali io giudico molto gravi. Il
diritto alla vita, all’integrità personale, alla salute rimangono diritti di un
condannato che espia una pena in una struttura di reclusione. Non è mai stato
lecito ammazzare e/o torturare qualcuno/a con procedure pseudogiudiziarie.
Tuttavia nel “Titus Andronicus” l’omonimo protagonista non sfoggia la moderna
intesa carità evangelica, per lui appare caritatevole sacrificare un altro
umano vivo – al pari di Iefte o come stava operando Abramo – alla memoria dei
suoi figli defunti. Se si mette in scena un incipit simile in un ambiente di
formazione cristiana (non riveste particolare importanza che sia a vocazione
protestante), e non ci si preoccupa di eventuali reazioni avverse, allora v’è
da reputare che si sta dando alla massa in pasto ciò che vorrebbe mangiare. Se
in quell’era a essa piaceva, io oggigiorno lo giudico disgustosissimo. Nella
tragedia, nel momento in cui Tamora cerca di salvare il figlio dall’inumana
volontà di Tito Andronico ella conclude che la “pietas” di lui si mostra
“irreligiosa” e “crudele”. Ce l’ha appena detto la cattiva Tamora, perciò quel
sacrificio in ambiente cristiano, nella logica di Shakespeare accettata da
quelli che gli stavano attorno, è canonico e giusto: si può sacrificare
tranquillamente la figlia di Iefte. Quando in seguito alcuni mostri ne fanno
emergere altri, di che cosa ci si stupisce? Resto enormemente contrariato a
vedere che fra i buoni i mostri tendano a rimanere buoni, e lo rileveremo più
avanti con rinnovata mia disapprovazione. Comprendere le dinamiche genetiche
del comportamento dei cattivi naturalmente non equivale a sollevarli dalle loro
responsabilità. Ciò vale per la realtà e pure per le fiction. Nel “Tito
Andronico” voglio però evidenziare con quale spirito sia stato costruito il
personaggio di Aronne, l’amante di Tamora. Io considero il negativo spirito
suprematista bianco che lo informa, e dico negativo a indicare il contrasto
poiché lui è un nero, estremamente vergognoso. L’autore della tragedia ha
letteralmente paragonato un uomo in relazione al colore della sua pelle a un
diavolo infernale. Il suprematismo bianco, che c’era e c’è negli USA, proviene
da quello dei coloni inglesi. L’inqualificabile costruzione del personaggio di
Aronne, connotato nella tragedia in modo innegabilmente diabolico, ci dice
parecchio in quale guisa pensassero gli Inglesi sulle due sponde dell’Atlantico
settentrionale. Il nero Aronne nella sua vocazione a progettare il male si
rivela surreale. Sotto il profilo psicanalitico appare degno di un romanzo
sadiano. La sua abnormità psichica, tendenziosamente per spirito suprematista
bianco, collegata dall’autore della tragedia al colore nero della pelle, ci
spalanca una nuova porta critica: tematiche sadiste sono variamente presenti
nel testo shakespeariano1. Aronne parla come un mostro sadico e induce
i due rimanenti figli di Tamora a stuprare Lavinia, la figlia di Tito
Andronico. Pure Tamora approva l’iniziativa. Cosicché seguendo un copione
sadista per psicopatici fruitori i due mostri la violentano, quindi le tagliano
la lingua e le mani. A questo punto formulo la domanda sottintesa: che specie
di gente andava a guardare rappresentazioni teatrali del genere allo scopo di
svagarsi? Il “Titus Andronicus” è un’opera sadista. Tra tutti i dettagli di
sadismo presenti nel testo, e in conclusione ne segnalerò altresì a carico di
Tito Andronico, mi ha colpito di trovare la meno psicopatologica delle
analogie: una menzione significativa dell’Etna. Tant’è che ipotizzo che D. A.
F. de Sade possa aver letto questa discutibilissima
tragedia shakespeariana, la quale gli abbia lasciato suggestioni. Comunque,
adesso passiamo al personaggio di Tamora. Analogamente al suo amante nero anche
lei incarna un altro topos negativo. Se ai neri schiavizzati nella realtà si
prospetta l’etichetta di diavoli infernali, a Tamora tocca la più classica
elaborata dalla misoginia cristiana: lei è l’amante del Diavolo, è la lussuriosa
senza limite porta dell’inferno. Simile circolo di idee messe in scena a fine
propagandistico razzista e misogino mi lascia molto urtato nel tempo in cui
lamentiamo ancora questi mali, e soprattutto a vederne vecchie radici. Tamora e
Aronne rappresentano due exempla di pregiudizi. Una mente equilibrata all’epoca
shakespeariana non avrebbe prodotto una tale tragedia dove il figlio nero dei
due (lei è bianca) viene descritto in una maniera cristianamente tutt’altro che
convenzionale: viene accostato a un animale che non fa pendant con la
bianchezza dei buoni. Questa vomitevole chicca suprematista dovrebbe indurci a
riflettere quando leggiamo qualsiasi cosa: parlando in generale, non è
difficile manipolare i lettori i quali non verificano su eventuali originali in
altre lingue, né è altrettanto difficile indurre a interpretazioni deviate e
devianti chi sconosce la storia studiata bene. Se volessi fare un paragone del
“Titus Andronicus” shakespeariano con un’altra opera formalmente simili nelle
intenzioni, indicherei il “Tractatus adversus Judaeos” di Agostino d’Ippona2.
Non mi pare positivo il fatto di consentire a questi grandi classici (?) della
cultura occidentale l’etichetta di buoni per tutte le ruote allorché, ammesso
che abbiano scritto pure qualcosa di apprezzabile, tra i loro scritti si
trovano monumentali bestialità. Si chiama onestà intellettuale e ci restituisce
una verità più vera e meno gnostica: i buoni non sono santi al 100%; i cattivi
non sono usciti dall’inferno, e a volte potrebbero magari mostrarsi migliori
dei primi se posti sotto diversa luce. Non è il caso del “Titus Andronicus”,
dove due schieramenti di simile valore negativo si misurano. È dalla parte dei
buoni che viene fuori l’idea, a quanto pare buona (?), di uccidere il neonato
nero. Tale gravissimo crimine si chiama infanticidio, e sta là a ornamento
narrativo avanzato dai buoni. Se i cattivi sono sadici, i buoni non scherzano.
Studiando la civiltà occidentale e i suoi prodotti culturali ho capito che
occorreva una ermeneutica contestuale, e che al riguardo delle società
cristianizzate i più non ne capiscono l’evoluzione. Nella nostra era la massa
pensa la carità evangelica e i valori cristiani come contenuti positivi.
Perlopiù è ormai così ora: regnano spiriti conviviali nei gruppi, la
religiosità si accompagna a lieti momenti consumistici e di divertissement. Si
cerca di pensare altresì ai bisognosi in qualche circostanza, ma senza turbare
il clima festoso con idee fuori mano (del tipo: abolire le banche private). In
effetti il Cristianesimo ha camminato sempre da Costantino in avanti accanto al
potere politico. Sino all’epoca illuministica è stato dominante,
successivamente è iniziato il declino a vantaggio del liberalcapitalismo vicino
al Protestantesimo (Weber). Puntualizzo ciò per rammentare che le evoluzioni
sociali dei contesti cristiani non sono tutte uguali. Ciò che intendo dire è
che quanto oggi si intende con carità evangelica e valori religiosi cristiani
non costituisce la medesima cosa di era anteilluministica. V’è stato un
graduale passaggio di correzioni di posizioni nei cristianesimi durante
l’Ottocento e il Novecento fino a giungere a oggi dove in luogo di roghi e
torture di streghe, omosessuali, eretici, non allineati, ci sono panettoni,
colombe e uova di pasqua festosamente scambiati in dono. Ai tempi di
Shakespeare le categorie ideali del Cristianesimo erano altre. Quelle le quali
possiamo osservare nel “Titus Andronicus”, per me un monumento di radicalismo
nevrotico e pregiudiziale di ascendenza religiosa. Qualcuno potrebbe replicarmi
che quello fu cristianesimo mal capito. Con tutto il rispetto, modestamente
secondo me, altri hanno mal compreso il Cristianesimo preilluministico. Una
delle primissime novità del morente Impero romano assorto alla religione unica
di Stato fu il rogo riservato agli omosessuali, per dirne una. Per dirne
un’altra: è nota la plurisecolare “mal comprensione” dello schiavismo, non
condannato dalla Bibbia, e ritenuto dunque lecito troppo a lungo per poter
ipotizzare quest’idea fantasiosa di “mal comprensione”. In alcune circostanze
le cose sono quelle che appaiono, basta verificare bene, però girarci attorno
non serve a gran che nel tentativo di salvataggio3. Il Dio biblico
uccide tutti i primogeniti degli Egizi: che problema c’è nella logica
shakespeariana a proporre con disinvoltura l’uccisione di un neonato nero
figlio di un diavolo e della porta dell’inferno? Risposta: a quanto pare,
nessuno. È una cosa che i buoni possono fare. Su questa falsariga viene
consentito a Tito Andronico di giurare odio sino alla vendetta. Il fratello di
costui mostra persino toni xenofobici. Loro, essendo i buoni, possono fare e
dire quello che vogliono. Mentre i cattivi sadici stupratori Chirone e Demetrio
vengono accusati di aver ereditato dalla madre la loro natura deviata e
ipocrita, il che produce l’ennesimo esempio della feroce misoginia di
quest’opera teatrale. Neanche a Lavinia, la figlia di Tito Andronico, è
riservato un trattamento di favore in qualità di vittima, come vedremo, nel
finale della tragedia. Il suo personaggio, così orrendamente trattato, alla
nostra più moderna matura sensibilità suscita uno spirito di immediata
solidarietà emotiva. Ma in quell’epoca dove le donne si potevano facilmente
torturare e uccidere per stregoneria, io reputo che la figura di Lavinia
colpita fosse percepita diversamente. Una società che causa il massacro di Salem
non rispetta le donne, non pensa come noi. Pensa invece che queste innanzitutto
si possano torturare e ammazzare in forza di assurde motivazioni religiose
oscuranti una lucida razionalità e impedienti il suo valido uso. Il caso di
Lavinia costituisce exemplum del modo in cui la vecchia cultura cristiana
misogina potesse pretendere e mettere, poi a parte nella realtà, in atto
qualsiasi forma di violenza sopra il corpo femminile. Non posso giudicare
altrimenti la proposizione al pubblico di allora di simili contenuti sadici
senza sospettarne assuefazione. È come se si volesse rendere convenzionale la
violenza estrema a danno del gentil sesso, a prescindere dalla fonte: le donne
sono porte dell’inferno ontologicamente e quanto meno in potenza, a colpirne
una si colpirebbe sempre un soggetto di natura diabolica, per cui non vale la
pena prendersela così tanto. E infatti noteremo che a Tito Andronico non
interessa vendicare la figlia in quanto donna offesa, a lui interessa vendicarsi
dello stupro (per cui sua figlia avrebbe perso la sua purezza originaria) e
dell’offesa familiare di ritorno. Lui stesso ci dice che le mutilazioni patite
da Lavinia sono inferiori alla perdita della castità. Quando uno si esprime in
siffatta guisa convalida tutti i miei ragionamenti. Che Cristianesimo è quello
che autorizza Tito Andronico a usare i cadaveri di Demetrio e Chirone per farne
pietanze da offrire a Tamora? Ciò è puro sadismo. Se la tragedia greca
possedeva uno scopo catartico, qua invece si fa propaganda di misoginia,
razzismo, xenofobia, e si offre al fruitore macabro compiacimento. Siamo agli
antipodi: se da un canto esisteva un fine pedagogico, qui l’obiettivo si rivela
differente. Manipolare e adescare il pubblico in direzione di contenuti estremi
e psicopatologici. I moderni possono rileggere il “Titus Andronicus” alla luce
della forte simpatia verso Lavinia, mettendo in secondo piano tutto il resto
come fosse acqua passata. Però così non capiremo molto, a cominciare dal
passato le cui radici archetipiche si prolungano sino a oggi. Non potremo mai
capire il presente al di fuori di un’adeguata conoscenza del passato. Io credo
ad esempio che i femminicidi che si verificano ai nostri tempi in Italia siano
il prodotto di una sedimentazione di inerzia comportamentale maschilistica e
misogina di cui si è smarrita la visione della radice nevrotico-religiosa
sepolta dai secoli e dall’ignoranza storica. Per comprendere le cose c’è da
scavare, la superficie non dà tutta la verità. Prima di passare alla
conclusione della mia analisi c’è un dettaglio testuale della tragedia
esaminata che vorrei far notare, principalmente nell’ottica della mia
trattazione. Ho parlato di Lavinia quale un personaggio nella costruzione
shakespeariana non molto tutelato nella sua femminilità personale. Il senso di
quest’offesa completa il testo lo esprime in un punto preciso, laddove lo zio
Marco trova Lavinia violentata dai due mostri sadici e la definisce «cervo che
ha ricevuto alcune ferite incurabili». Non so se qualcuno prima di me abbia
rilevato l’analogia con “Il cervo ferito” di Frida Kahlo. Il dipinto kahloista
ci comunica la condizione di Lavinia, giacché rileva la femminilità offesa e
ferita in ogni tempo e in ogni dove in un’immagine concreta pittorica. Questa è
comunque imago unisex poiché l’ho ritrovata pure nel “Frankenstein; or, the
modern Prometheus” di Mary Shelley in relazione al protagonista scienziato. Il
cervo ferito rappresenta un simbolo junghiano dell’umanità in generale offesa e
ferita. Dopo aver evidenziato le aberrazioni di gran parte del “Titus
Andronicus” mi resta di visitarne il finale alla luce di quanto ho scritto
sinora. In tale finale di tragedia compare una chicca di fatalismo protestante
protoweberiano. Ma mi voglio soffermare meglio sulle bestialità di Tito
Andronico. Quando costui definisce Tamora «madre di cani usciti dall’inferno»,
mi fa pensare al Gesù evangelico che insegnò a non dare le cose sante alle
cagne (secondo me il sostantivo del testo greco biblico è al femminile). Dalle
bestialità dette (perché Tito Andronico dimentica che è stato lui il primo a
uccidere e a innescare il meccanismo tragico) passiamo alle bestialità fatte
alla fine. Dopo aver fatto mangiare a Tamora a di lei insaputa le carni dei
figli preparate ad hoc nel migliore stile sadico (però rammentiamo che lui
appartiene all’esercito dei buoni) uccide ex abrupto la figlia, in quanto, a
detta di lui, avendo perso la castità costituiva motivo di vergogna e dolore
per lui. Questo non è un buono, è buono per la detenzione di criminali
psicopatici. Tuttavia l’impostazione dicotomica narrativa della tragedia ci
spiega che è giusto compiere determinate per noi moderni ormai nefandezze
giacché una morale nevrotica religiosa esige condotte da folli. Tito Andronico
trova la faccia di affermare che i reali assassini siano stati de facto
Demetrio e Chirone col loro sadico gesto. Il “Titus Andronicus”, in parole
povere, sta proponendo, per bocca dei buoni, l’eutanasia a carico delle
fanciulle violentate. Un femminicidio a Tito Andronico non basta e ammazza pure
Tamora. Che cosa avrebbe dovuto imparare di utile la gente del popolo a
guardare simile sadico surrealismo orrorifico? A diventare più insensibile e
accondiscendente verso un regime misogino e razzista? In un irreale gioco di
uccisioni la tragedia si chiude con le altri morti di Tito Andronico e
dell’imperatore. Un figlio del primo prende il posto del secondo: i buoni (?)
sono salvi e possono fare giustizia (il resto di sadica vendetta). In
particolare al cadavere di Tamora tocca una sorte simile a quella della regina
Gezabele. La conformità religiosa è stata fatta salva. Soprattutto se pensiamo
al Gesù evangelico il quale sostenne di non essere venuto a portare pace bensì
spada. Tutti i morti ammazzati della conclusione del “Titus Andronicus” si
mostrano “canonici”. L’importante è che i buoni trionfino, poi se c’è una
logica malata in tale pretesa, all’epoca, pare non lo percepissero in molti.
C’è voluto l’Illuminismo al fine di cominciare un percorso migliore e diverso
per l’Occidente, cammino che tuttavia a tutt’oggi, nonostante larghissimi
miglioramenti, resta ancora da completare.
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Analisi
letterarie e filosofiche”
1 Circa un approfondimento sul sadismo indico un mio studio: La tanatolatria di de Sade contenuto
nella mia monografia Filosofie sadiche
(2021).
2 A chi interessasse approfondire il paragone consiglio la
lettura di un mio lavoro: Nevrosi e
irrazionalismo in Agostino d’Ippona presente nel mio saggio intitolato Teologia analitica (2020).
3 Reputo utile al lettore ricordare una mia analisi pubblicata
dentro la mia opera menzionata nella nota precedente, recante il titolo Aristotele e il pericoloso regno di Dio.