UNA MARCHESA ILLUMINISTA TRA MONARCHIA E REPUBBLICA
di DANILO CARUSO
di DANILO CARUSO
Immanuel
Kant, alla vigilia della Rivoluzione francese, scriveva nel 1784:
«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli
deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del
proprio intelletto senza la guida di un altro. […] La pigrizia e la
viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura
li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter
maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita
minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. […]
Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali
domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche
creature osassero muovere un passo fuori della carrozzina da bambini in
cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano a essi il
pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. […] A
questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più
inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della
propria ragione in tutti i campi». La Marchesa Eleonora de Fonseca
Pimentel incarnò e testimoniò nel secolo dei lumi questa inarrestabile vocazione di crescita della civiltà che si riallacciava alla più pura e radicale ricerca-della-verità-e-della-felicità da
cui nell’antichità greca era sorta la filosofia (occidentale). Nacque
il 13 gennaio 1752 a Roma, all’interno di una nobile famiglia
portoghese, da Clemente e Caterina Lopez. Assieme ai familiari si
trasferì nel 1760 a Napoli quando, interrottisi i rapporti diplomatici
tra Stato della Chiesa e Portogallo, per via della cacciata dei Gesuiti
dal territorio lusitano, i Portoghesi residenti furono espulsi dai
domini papali. Guidata da uno zio abate si avviò agli studi
umanistico-scientifici ed ebbe modo di conoscere e frequentare
personalità del mondo culturale napoletano del tempo, fra i quali
Francesco Vargas Macciucca mediante la frequenza del cui salotto
letterario entrò sedicenne nell’Accademia dei filaleti (=amanti-della-verità): nel 1768 entrò pure nell’altra Accademia dell’Arcadia.
Ricevette l’apprezzamento da parte di Pietro Metastasio con cui
manteneva una corrispondenza, il quale aveva letto i suoi esordi poetici
iniziati nel ’68 scrivendo un epitalamio (“Il tempio della gloria”)
dedicato a Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, e a Maria
Carolina d’Asburgo (sorella della futura regina di Francia Maria
Antonietta). Entrerà in contatto epistolare anche con Goethe e Voltaire
(che le compose un sonetto). In questa prima fase filomonarchica la sua
poesia continuerà a mettere in risalto tra l’altro personaggi e fatti
legati alla casa reale: ad esempio la nascita del principe ereditario
Carlo. Del ’77 era invece il “Trionfo della verità” dedicato al primo
ministro portoghese autore della prima espulsione europea dei Gesuiti.
Il 4 febbraio 1778 si unì in matrimonio a un nobile, ufficiale delle
truppe borboniche, di una ventina d’anni più vecchio di lei, da cui ebbe
un figlio (Francesco) morto prematuramente a otto mesi nel ’79. La
madre dedicò alla compianta memoria di questo bambino i cinque “Sonetti
di Altidora Esperetusa [nome assunto all’entrata nell’Arcadia] in
morte del suo unico figlio”. Questo è il terzo: «Sola fra miei pensier
sovente i’ seggio, / e gli occhi gravi a lagrimar m’inchino, /
quand’ecco, in mezzo al pianto, a me vicino / improvviso apparir il
figlio i’ veggio. / Egli scherza, io lo guato, e in lui vagheggio / gli
usati vezzi e ’i volto alabastrino; / ma come certa son del suo destino,
/ non credo agli occhi, e palpito, ed ondeggio. / Ed or la mano stendo,
or la ritiro, / e accendersi e tremar mi sento il petto / finché il
sangue agitato al cor rifugge. / La dolce visione allor sen fugge; / e
senza ch’abbia dell’error diletto, / la mia perdita vera ognor sospiro».
Ottenne la legale separazione coniugale dall’autoritario Pasquale Tria
de Solis, a causa della cui violenza aveva subito un aborto (evento cui
dedicò un’ode elegiaca), nel 1786. Grazie alla sua poetica celebrativa
dei Borboni conquistò un incarico di bibliotecaria a corte, il che le
consentì di superare i disagi in cui versava a seguito della divisione
dal marito e della morte del padre (nella cui casa era tornata a vivere
nel 1785). La soppressione della consuetudine della monarchia borbonica,
avvenuta nel 1788, di offrire un tributo feudale annuo al romano
pontefice, la spinse a scrivere, due anni più in là, con spirito di
adesione al giurisdizionalismo una traduzione dal latino di
un’opera dell’abate Nicolò Caravita (risalente al 1707 e messa
all’indice dalla Chiesa nel 1710) in cui si sosteneva che lo Stato non
fosse obbligato ad atti di vassallaggio nei confronti del Papa:
integrandola per mezzo di un’introduzione e note di commento, la
traduttrice esplicitò il proprio pensiero affermando che «il Regno non è
padronato, non è primogenitura, non è fedecommesso, non è dote: il
Regno è amministrazione e difesa dei diritti pubblici della nazione,
conservazione e difesa dei diritti privati di ciascun cittadino», e
perciò non poteva essere inserito in meccanismi superati dalla storia e
dalla giurisprudenza. Allorché scoppiò la Rivoluzione francese diffuse
la costituzione del ’91, e dopo la proclamazione della repubblica, il 21
settembre 1792, ebbe contatti con la delegazione transalpina in visita
alla fine di quell’anno nella capitale borbonica (la flotta al cui
seguito aveva condotto una dimostrazione navale al largo di Napoli) al
fine di conseguire un riconoscimento internazionale del nuovo assetto
postmonarchico dello Stato. Ghigliottinato Luigi XVI il 21 gennaio 1793,
in Europa si formò un’ampia coalizione per muovere guerra alla Francia
repubblicana composta da Austria, Inghilterra, Prussia, Russia, Spagna e
da Stati italiani tra cui lo Stato pontificio e il Regno delle Due
Sicilie (entrato nel conflitto il 12 luglio, il 6 giugno del ’96 stipulò
una tregua). Le posizioni progressiste dei reali borbonici – inaugurate
dal precedente re Carlo III e particolarmente coltivate, sulla scia del
giuseppinismo, dalla regina Maria Carolina d’Asburgo
(protettrice degli intellettuali illuministi anche iscritti alla
massoneria) – avevano lasciato il posto a una preventiva condotta di
conservazione antirepubblicana. Tale indirizzò trovò la de Fonseca sul
versante opposto, di chi aveva appreso le notizie d’Oltralpe
fiduciosamente con un sentimento di partecipazione. Il 16 ottobre 1793
Maria Antonietta venne giustiziata. E nel maggio del ’94 fallì a Napoli
una cospirazione rivoluzionaria. Numerosi sospetti si addensarono su di
lei: cosicché, perso il posto di bibliotecaria a corte nel 1797, un anno
più tardi, il 5 ottobre, a conclusione di una perquisizione domiciliare
l’arrestarono, traducendola al carcere della Vicaria, per averla
trovata in possesso dell’Enciclopedia curata da Diderot e
D’Alembert, e incolpandola di partecipare e di dar luogo nella propria
abitazione a incontri sovversivi. Dalla galera provò a mettersi in
contatto con il rappresentante diplomatico portoghese, ma il tentativo
non andò in porto perché scoperto dall’inquisizione cattolica.
Nell’agosto del 1798 si costituì una seconda coalizione internazionale
antifrancese formata da Austria, Turchia, Regno delle Due Sicilie e
Russia. Pochi giorni prima di Natale la corte borbonica, allarmata
dall’avvicinarsi dei Francesi (impegnati militarmente in Italia già dal
settembre del ’92), dopo aver invaso i Napoletani il 26 novembre la
Repubblica romana, si trasferì su una nave dell’ammiraglio Nelson a
Palermo. La de Fonseca riottenne la libertà (con tutti gli altri
carcerati di ogni risma) quando il proletariato napoletano (composto dai
cosiddetti lazzari) si sollevò nel gennaio dell’anno successivo,
istigato dai monarchici e dagli ecclesiastici reazionari – e poi armato
dal viceré Francesco Pignatelli (secondo le istruzioni del re) per
resistere all’invasore giacobino – e assalì la prigione in cui era
detenuta. Fu dunque ammessa nel comitato costituitosi a guida di un
progetto istituzionale repubblicano appoggiato da borghesi e nobili
progressisti che sollecitava l’intervento militare francese allo scopo
di porre fine alla disordinata insurrezione popolare, la quale aveva
obbligato l’arcivescovo della capitale a consentire una processione
delle reliquie del santo patrono Gennaro, invocante protezione proprio
dai Francesi in arrivo. I quali, superando l’esercito borbonico sotto il
comando dell’Austriaco von Mack e la resistenza dei lazzari,
giunsero a Napoli il 23, dopo che i repubblicani, fra cui la de Fonseca,
tra il 19 e il 20 gennaio 1799 avevano preso la strategica fortezza di
Sant’Elmo; di fronte al cui spiazzo il 21, piantato l’albero della
libertà, fu solennemente proclamata la «Repubblica Napoletana una ed
indivisibile» (circostanza nella quale lei lesse nella pubblica
esultanza un suo “Inno alla libertà” – andato perso – composto nel corso
della sua recente prigionia). Il 24 il generale
Championnet, che guidava i Francesi, rese omaggio al patrono, che – si
disse poi – aveva fatto un miracolo d’approvazione della loro presenza
sciogliendo il suo sangue non appena questi erano arrivati. La de
Fonseca giudicò inadeguato il disinteresse del nuovo governo verso tali
risvolti religiosi degli eventi: non sostenne un abuso della credulità
popolare di contro alla negativa critica illuministica della religione,
bensì l’opportunità di innescare un meccanismo di avvicinamento tra la
base proletaria e la nuova classe dirigente repubblicana favorito da una
partecipazione personale di quest’ultima ai riti religiosi, che
segnasse una discontinuità con la tradizione di assenza del monarca alla
processione del patrono. Durante il periodo della repubblica diede vita
al Monitore napoletano, un periodico a stampa che diresse, di
cui furono pubblicati 35 numeri tra il 2 febbraio e l’8 giugno del ’99
(usciva di martedì e di sabato), che fu un obiettivo e indipendente
veicolo d’informazione sopra le vicende della Repubblica partenopea.
Benedetto Croce così si espresse al riguardo: «Il Monitore va rapido e
diritto, tutto assorto nelle questioni essenziali ed esistenziali, che
si affollarono in quei pochi mesi, i quali, per intensità di vita,
valsero parecchi anni». Critica in merito agli eccessi della Rivoluzione
francese (il cosiddetto Terrore), una delle sue aspirazioni fu quella di raggiungere a scopo pedagogico la base popolare ignorante e analfabeta (proponendo ad hoc l’uso del dialetto), soggetta all’azione di fattori ambientali e processi sociali dell’ancien régime che
producevano reazioni favorevoli ai sostenitori della monarchia, effetti
collaterali che a suo avviso erano da sradicare attraverso la
diffusione di una corretta conoscenza degli avvenimenti. A servizio di
ciò fu pure il suo sostegno a la sua partecipazione al progetto della sala d’istruzione pubblica
(luogo e occasione di discussione). Lei, che posteriormente alla
liberazione aveva voluto sopprimere la preposizione nobiliare “de” dal
proprio cognome, nel Monitore in tal modo esprimeva la sua
amareggiata riflessione: «Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi a’
vostri avoli de’ tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di
dottrine e di esempj, quanti ora ne avete, diè Napoli le mosse,
proseguirono i vosti avoli, insorsero da per tutto contra il dispotismo,
gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo
ragionevole istinto reclamarono i diritti dell’Uomo. Ora proclamano
l’uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni!».
Quasi tutti i soldati francesi presenti sul territorio napoletano nel
maggio del ’99 furono costretti dal contesto delle movimentate vicende
di quell’epoca a spostarsi in Alta Italia, di fatto abbandonando
l’appena nata repubblica alla sua debolezza. Infatti di lì a poco,
sostenute dall’azione inglese di bombardamento navale costiero,
sopraggiunsero nella capitale il 13 giugno le rozze e selvagge milizie
di popolo – denominate esercito della santa fede – raccolte dal
«cardinale mostro (come lo definì la de Fonseca)» Fabrizio Ruffo di
Bagnara che era stato incaricato di riprendere il controllo dei domini
continentali. Alla marchesa repubblicana, che aveva trovato
riparo a Castel Sant’Elmo, si era prospettata la possibilità
dell’esilio: tuttavia col ritorno del governo dei Borboni (che avevano
avuto modo di avere fra le mani il suo periodico) a luglio la parola
data, pure nei confronti di altri al momento della resa dei
repubblicani, non fu mantenuta, eccettuati i Francesi, a causa
dell’ammiraglio Nelson e degli Inglesi che li appoggiavano (primo
ministro borbonico era ormai da qualche anno John Acton). E, con questi,
venne incarcerata: fu prelevata dalla nave che l’avrebbe portata in
salvo. Nel processo intentatole fu emessa a suo carico il 17 agosto una
sentenza di condanna all’impiccagione per tradimento, di cui ella chiese
– iusto iure (di nobiltà, riconosciuto nel 1778), che le fu
indebitamente negato – la commutazione della forma in decapitazione
mediante scure. Intorno alle 14:00 del 20 agosto nella piazza del mercato
di Napoli, preso un caffè e dette le parole di Enea «Forsan et haec
olim meminisse iuvabit (Forse un giorno farà piacere ricordare anche
questi avvenimenti; Eneide I, 203)», salì sul patibolo dove fu uccisa
ultima insieme ad altri sette condannati (tra cui un principe, un duca,
un vescovo e un sacerdote semplice). Il suo cadavere rimase esposto fino
a sera al macabro scherno della bestiale ignoranza dei più, i quali
avrebbero preteso che prima di morire inneggiasse al re e da cui
provengono questi versi di dubbio gusto: «’A signora ’onna Lionora / che
cantava ’ncopp’ ’o triato [=sopra il teatro], / mo’ abballa mmiez’ ’o
Mercato. / Viva ’o papa santo / ch’ha mannato ’e
cannuncine / pe’ caccià li giacubine. / Viva ’a forca ’e Mastu Dunato! /
Sant’Antonio [scelto patrono alternativo al filofrancese san Gennaro]
sia priato [=pregato]!»; versi ai quali replicò il cantante Eugenio
Bennato, due secoli dopo, con un brano dal titolo “Donna Eleonora”. La
salma fu infine tumulata in una vicina chiesa intitolata a Santa Maria
di Costantinopoli, che verrà successivamente abbattuta facendo così
perdere le tracce dei suoi resti. Vincenzo Cuoco la ricordò con parole
di esaltazione nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del
1799”. È del 1986 un romanzo di Vincenzo Striano, “Il resto di niente”,
da cui è stato tratto un film (2004), a lei dedicato. Ferdinando I
dispose nel 1803 la distruzione di tutti gli atti dei processi contro i
repubblicani del ’99, processi tramite i quali furono attuate 121 esecuzioni capitali.
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Donne della libertà”
https://www.academia.edu/4355138/Donne_della_libertà
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Donne della libertà”
https://www.academia.edu/4355138/Donne_della_libertà