di DANILO CARUSO
Il mondo attuale sta vivendo
la crisi finale di una vichiana “età degli uomini”. La razionalità che connota
simile fase storica nel pensiero di Vico è nel nostro tempo ormai in uno stadio
involutivo che ha lasciato margine a una malsana “età degli dei”.
L’irrazionalità supporta comportamenti violenti sotto pretesti pseudoreligiosi.
Non c’è armonia tra gli esseri umani e dentro di loro. La fantasia che dipinge
i simboli degli archetipi junghiani è stata sopravanzata da un’azione di morte.
La comprensione di questo negativo agire ci fa comprendere una patologia mentale
della civiltà umana d’oggi. Agisce male chi si sacrifica in un atto omicida o
combatte – pensando di essere un eroe – a danno di chiunque; sbaglia, e
pertanto è ingiustificabile sul piano pratico. Le cause che ne condizionano il
comportamento non rientrano però tutte nel suo campo di controllo: disagio e
ingiustizia sociale, anche se egli non ne è toccato, possono spingere l’asse di
equilibrio della ragione umana alla deriva, e lasciare quei sentimenti di
aspirazione alla giustizia in preda a modelli comportamentali conducenti alla
volta di disastrose conseguenze. La forza e la ragione sono due dei tre tratti
distintivi dell’essenza umana: la garanzia dell’ordine e della sicurezza, il
mantenimento del benessere, la conservazione della civiltà e del diritto, la
difesa della creatività (altra, terza, grande componente) in positivi prodotti,
non possono fare a meno di questi due fattori. Bisogna tenerli uniti. Una vis
svincolata da una lucida ratio è deleteria nei confronti del consorzio sociale.
Uno spazio di liceità nel passato è stato il duello d’onore. “Onore” è quello
che manca oggi, ossia la coscienza di sé come essere superiore alle bestie.
L’eccellenza umana, in qualunque settore, è onorevole, è motivo di nobiltà. La
mancanza di riguardo verso gli eccellenti crea attrito, contrasto tra due
ordini dell’esistenza: uno è superiore per la sua natura, l’altro prossimo alla
condizione animale si è degradato. Tutto ciò configura una ripresentazione
della hegeliana dialettica servo-padrone davanti al nostro cammino. La
maturazione della vichiana “età degli eroi” lascia presumere il recupero di
questa in funzione catartica: una nuova mentalità operativa spartana può
sorgere nell’avvenire. Un’individualità umana cosciente di sé esige il
riconoscimento di tale sua dignità da un simile che come lui riferisca le sue
percezioni a un io. In questo reciproco confronto, l’io si riflette e si
ritrova nell’altro per quanto concerne una comune capacità di tale operazione.
Il suo obiettivo è di cancellare questa proiezione vicendevole nell’altro,
frutto però dell’azione più efficiente di uno solo il quale tuttavia spezza la
reciproca relazione iniziale. L’indipendenza iniziale dei due soggetti connota
la dinamica che mira a far riconoscere una parte nel suo essere cosciente a svantaggio
dell’altra che in partenza ha status di soggetto e non di oggetto.
L’interrelazione iniziale è uno specchiarsi vicendevole e statico, animato da
reciproca imitazione (ma ognuno partiva col fare quello che avrebbe voluto
vedere nell’altro: c’è un primo riconoscimento inter se contemporaneo di
soggetti che stanno di fronte). Questa situazione è però destinata a modificarsi
perché nel duello tra i due io solo uno può ottenere la meta in palio
dell’altrui pieno riconoscimento. Ciascun soggetto polarizza il suo sé con un
segno positivo, e tutto il resto assume connotazione negativa (in pratica
oggetto). Oggetto dunque sono l’un per l’altro i due soggetti che non vedono
nell’altro un io munito di coscienza di sé. La qual cosa richiederebbe un salto
di qualità nella capacità di comprendere la propria azione e quella dell’altro
in una forma di elevazione astrattiva. Il che vuol dire nelle parole di Hegel
«dimostrare di non tenere alla vita». Ma ciò non equivale ad affermare una
vocazione scadente nell’autolesionismo: «ciascuno tende dunque alla morte dell’altro». «Il fare
dell’altro comporta la messa a rischio della propria vita. Il rapporto tra le
due autocoscienze, dunque, si determina come un dar prova di sé, a se stesso e
all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte. La necessità di questa
lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità,
nell’altra e in se stessa, la propria certezza di essere per sé. Ed è soltanto
rischiando la vita che si metta alla prova la libertà… L’individuo che non ha
messo a rischio la propria vita potrà pure essere riconosciuto come persona, ma
non avrà raggiunto la verità di questo riconoscimento, non verrà cioè
riconosciuto come un’autocoscienza autonoma. Parallelamente, quando mette a
rischio la propria vita, ogni individuo deve tendere alla morte dell’altro
proprio perché ritiene di non valere meno dell’altro». Questo atteggiamento
descritto, seguito alla danza di diffidenza nell’esordio, è spontaneo: sui
contendenti grava un pericolo di morte ignorato. La diffidenza quindi perdura,
e i due poli della contesa restano l’un per l’altro oggetto, non soggetto. La
loro ignoranza (rimozione formale) del rischio è definita da Hegel «negazione
astratta» della morte. Quando uno dei due contendenti si scopre in qualità di
vivente e non soltanto di «autocoscienza pura» ha rotto l’equilibrio: a lui
spetterà il rango di «servo», il «signore» sarà l’altro. La coscienza di
quest’ultimo fa un salto di qualità: egli è cosciente di sé come concetto, e
cosciente di una fallita autocoscienza (oggetto) nell’altro (il che gli
restituisce un ambito di consapevolezza pieno). Il servo è rimasto un oggetto.
«Il signore, invece, avendo dimostrato nella lotta di considerare l’essere
autonomo soltanto come un negativo, è la potenza che domina su questo essere.
Ora, poiché il signore domina su questo essere, e questo essere è sua volta la
potenza che domina sull’altro, cioè sul servo, ecco allora che la conclusione
di questo sillogismo è: il signore domina su questo altro». Il servo diviene
strumento di trasformazione delle cose, opera di cui il signore coglie il
«godimento». Alcune parole di Carl Gustav Jung a questo punto risultano molto
illuminanti e pertinenti. «Il
desiderio appassionato, cioè la libido, ha i suoi due aspetti: esso è la forza
che tutto abbellisce e che anche, in certe circostanze, tutto distrugge. Sembra
che spesso non si riesca a ben comprendere in che cosa consista la
caratteristica distruttiva della forza creatrice… Basta pensare alla situazione
dell’educazione borghese per comprendere quale senso di estrema insicurezza
assale chi si abbandona senza riserve al destino. Essere fecondi significa
autodistruggersi, perché con la nascita della generazione successiva quella
precedente ha oltrepassato il suo culmine; così i nostri discendenti diventano
i nostri più pericolosi nemici, con i quali non riusciamo a spuntarla, poiché
essi ci sopravvivranno e perciò ci toglieranno inevitabilmente la forza dalle
mani indebolite. L’angoscia davanti al destino erotico è del tutto
comprensibile, poiché esso è qualcosa di imprevedibile; in generale, il destino
nasconde pericoli ignoti, e la continua esitazione del nevrotico a mettere a
repentaglio la vita si spiega facilmente con il desiderio di poter rimanere in
disparte per non dover essere coinvolto nella pericolosa lotta della vita. Chi
rinuncia al rischio di vivere deve però soffocare in sé il desiderio,
commettere una specie di suicidio. Con questo si spiegano le fantasie di morte
che spesso accompagnano la rinuncia al desiderio erotico». Il servo è “morto”
in rapporto alla dignità umana. La libido junghiana che abbraccia tutti i
settori del comportamento umano, in lui è solo quella dell’animale. Per lui non
c’è spazio nelle prime due categorie sociali della repubblica platonica.
L’attività lavorativa, secondo Hegel offre all’essere umano la possibilità di
guadagnare attraverso il suo intervento formativo sull’oggetto la stessa
elezione del padrone. Allo stadio attuale di crescita dell’umanità gli uomini
sono servi nel corpo e nella mente. Il regime capitalista lo asservisce sotto
un profilo, usando una similitudine non tanto lontana, di sfruttamento della
prostituzione: affitta corpi di cui sfruttare la libido investita nel campo
della produzione industriale. La dimensione della religio, d’altro canto,
esercita un potere di deterrenza sull’autonomia della volontà per mezzo di
spettri che impediscono alla libido un libero armonioso sviluppo. L’unica
«attività formatrice» che in tali prigioni può liberare la coscienza asservita
è quella intellettuale, giacché il capitalismo ha neutralizzato il vecchio
hegeliano potere formativo del lavoro e le religioni imbrigliano ad hoc disagi
e desideri. Dice Hegel che «se la coscienza non ha sofferto la paura assoluta,
ma solo qualche angoscia particolare, allora l’essenza negativa le è rimasta
solo esteriore e non ha pervaso intimamente la sua sostanza. Se non viene fatto
vacillare ogni elemento che riempie la coscienza naturale, allora questa
coscienza appartiene ancora, in sé, all’essere determinato, e il senso proprio
è ostinazione, cioè libertà ancora irretita nella servitù. Nel caso
dell’ostinazione, la forma pura non può divenire essenza, né tanto meno,
considerata come espansione che oltrepassa la singolarità, può essere
formazione universale, Concetto assoluto; nell’ostinazione, la forma è al
massimo un’abilità particolare su qualcosa di singolare, ma non sulla potenza
universale e sull’intera essenza oggettiva». In parole povere se l’uomo non si
apre all’universo, non prende coscienza di sé; resta un oggetto, un pezzo della
scacchiera sopra la quale si gioca il suo destino.
NOTE
I brani di Hegel sono tratti
da un’edizione della “Fenomenologia dello Spirito” edita da Rusconi Libri nel
1995; il brano di Jung è preso da “La libido, simboli e trasformazioni”, testo
pubblicato da Newton nel 1993.