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giovedì 23 gennaio 2020

PRIGIONIERI DELLA HEIDEGGERIANA FORTEZZA BASTIANI DI BUZZATI

di DANILO CARUSO


Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso.

Dino Buzzati, “Il deserto dei Tartari”


La copertina
del libro ideata
da Buzzati
Dino Buzzati (1906-1972), scrittore poliedrico, pittore, è stato l’autore del famoso e pregevole romanzo “Il deserto dei Tartari”: testo pubblicato dalla casa editrice Rizzoli nel 1940 dietro suggerimento di Indro Montanelli (1909-2001); in sede di stampa però, volendo allontanare qualsiasi forma di possibile collegamento alla situazione politica internazionale contemporanea, fu pretesa la modifica del titolo proposto (“La fortezza”). La vicenda raccontata trae ispirazione dall’esperienza vissuta del suo creatore all’epoca in cui era un giovane giornalista. Il protagonista dell’opera, Giovanni Drogo, desideroso di abbandonare la monotonia del periodo di formazione giovanile, fantasticando una futura prospettiva più piacevole, lascia la casa della madre al fine di iniziare la sua vita da militare avviandosi a raggiungere la Fortezza Bastiani. Lo scrittore fu condizionato dalla figura materna da cui si sentì lontano nella sua storia personale (dalla scomparsa di lei indosserà solo cravatte nere). Durante il suo tragitto Giovanni incrocia il capitano Ortiz, là di stanza. Fra i due si apre un dialogo al termine del quale poi raggiungeranno la piazzaforte. Drogo rimane deluso dalla sua destinazione: una zona isolata dal resto della comunità e un fortilizio posto su un confine per niente frequentato data la sua infelice conformazione morfologica, in pratica un presidio in mezzo a un reale deserto di pietre e alture rocciose le quali impediscono la vista oltre. L’immagine della montagna possiede in Buzzati, appassionato di alpinismo, contenuti concettuali in comune con la poetessa Antonia Pozzi (entrambi furono sulle Dolomiti): essa si manifesta come nella poesia pozziana quale simbolo archetipico junghiano di una Grande Madre (negativa)1. Giovanni, la cui volontà è quella di essere trasferito quanto prima altrove, riesce, in deroga illecita alle disposizioni, a soddisfare un suo desiderio: lanciare uno sguardo al Nord dalla cima delle mura della struttura militare, questa uno spazio accessibile solo ai soldati assegnati di turno. Soddisfatta tale voglia si recherà poi a dormire nel suo alloggio, ulteriormente contrariato dai disagi ivi trovati. Il tenente Drogo, preso servizio presso la Fortezza Bastiani, ha un singolare dialogo col sergente maggiore Tronk. La cosa lo disorienta al punto tale di farlo pentire di aver acconsentito al maggiore Matti sulla sua provvisoria permanenza in luogo di una richiesta di trasferimento immediato. Ne “Il deserto dei Tartari” appare l’esistenzialistico tema dello scorrere del tempo: un’inesorabile progressione in avanti il cui orizzonte rimane oscuro e incerto nonostante l’umana vocazione a un approdo rassicurante. Al pari del vincitore del Premio Nobel Salvatore Quasimodo (1901-1968), Buzzati ribadisce il timore radicale: «Ognuno sta solo sul cuor della terra». Isolato e prigioniero della gabbia temporale l’essere umano cammina verso l’ignoto immerso nel turbamento. La Fortezza Bastiani rappresenta nel romanzo un simbolo dell’esistenza umana nella forma della vita isolata, ossia votata all’introversione, la quale si oppone all’estroversione simboleggiata nell’immagine della città. Detto fortilizio raffigura nella sua dinamica un’allegoria esistenziale, dove il deserto antistante costituisce la prospettiva della vita davanti. L’interna esistenza del forte, vale a dire l’icona di un Io barricato nella garanzia offerta dalle abitudini di comodità, offre la sicurezza nella ripetitività. Nonostante la primordiale intenzione di essere trasferito, Giovanni Drogo sceglie di rimanere in servizio nella roccaforte cui è stato assegnato: egli sceglie l’introversione all’estroversione, ponendosi nella modalità dell’attesa; rinunzia a dare un assalto alla vita aspettando che sia questa a eleggerlo a un grado superiore. «La moda ha da essere il regolamento»: l’inesorabilità scaturente dalla costituzione esistenziale improntata a regolarità ripetitiva non concede deroga all’esercizio della libertà. L’applicazione meccanica, non riflettuta, di schemi comportamentali, può sortire effetti controproducenti: questo il significato dell’uccisione del soldato Lazzari, allontanatosi senza permesso e rientrato senza conoscere la parola d’ordine per ottenere l’ingresso. Il risultato di un’omologazione passiva alla vita e alle regole che disciplinano il recinto di sicurezza dell’Io è ottenere la conseguenza, in termini figurati narrativi, di sparare a vista su chiunque sia fuori della norma di riferimento. Buzzati dipinge questo esito nella narrazione con gli inevitabili tratti del grottesco, dove l’umanità profonda si smarrisce disintegrata dalla chiusura nelle regole. Il falso allarme che colpisce la Fortezza Bastiani causato da militari estranei, in realtà amici, e non nemici, intervenuti a beneficio di operazioni di delimitazione dei confini, falso allarme che ha al centro protagonista nel testo buzzatiano il colonnello Filimore, si ricopre interamente di tratti pratici umoristici pirandelliani. Attraverso la morte ulteriore, improvvisa e imprevista, del tenente Angustina lo scrittore veneto sottolinea il modo in cui in una comune esistenza, appartata e tutto sommato anonima, priva di spunti di eroismo (in senso lato), l’evento più significativo alla fine risulti apparire la morte: è questa un’idea nel complesso heideggeriana, che fa della morte un inveramento della vita a cui darebbe un senso nel momento in cui apre l’Io alla Totalità.
Il resto sarebbe varia anticamera all’annichilimento, tuttavia da viversi per Heidegger non rinunziando a scegliere una ben specifica vocazione nell’esistenza individuale. Una categoria heideggeriana che Buzzati rileva nella sua creazione del romanzo è “il-mondo-della-vita”. E la connette a una dicotomia esistenziale trasposta nella sua opera: “speranza/scelta” il colloquio tra il tenente Drogo e il maggiore Ortiz dopo la scomparsa di Angustina ripropone queste due dimensioni di relazionarsi all’esistenza (all’essere-nel-mondo, nel mondo-della-vita) nelle forme simboliche buzzatiane: introversione e speranza nelle immagini del fortilizio, una vita di attesa, statica, non attiva; estroversione e scelta nell’altra imago della città, un’esistenza più intraprendente, dinamica, la quale sfida la mediocrità dell’immobilismo attendista (producente la “noia”). Giovanni Drogo dopo aver svolto quattro anni di servizio ottiene una licenza per tornare a casa. Ma nel suo ambiente cittadino si sente ormai un pesce fuor d’acqua. Tutti, anche la madre in famiglia, gli sembrano essersi velati di un distacco umano dalla sua persona. Egli inoltre non riesce più a recuperare neanche lo strato edonistico della vita. Ogni cosa gli appare rivestirsi di una pirandelliana insensatezza. Neppure l’amica Maria riesce a promuovere il recupero di un’autentica dimensione: ciascun atto si mostra inaridito e distaccato, quasi fosse mera formalità esistenziale; un vuoto fra lui e gli altri che è stato scavato dal tempo e dalla distanza. Giovanni non riesce ad attuare quello che Heidegger definisce dis-allontanamento. In aggiunta, a causa di questioni burocratiche, non gli è possibile richiedere un trasferimento dalla Fortezza Bastiani: davanti a lui si prospetta il dilemma se abbandonare per intero la carriera militare o rimanere un prigioniero sui generis narrativo buzzatiano di quella monotona forma di vita già esperita. Il protagonista de “Il deserto dei Tartari” rimane intrappolato nell’allegorica piazzaforte. Il colloquio che ha, ritornato, col maggiore Ortiz indica al di là della superficie scenica la rievocazione di un’altra categoria heideggeriana da parte di Buzzati: la gettatezza, l’essere-gettati-nel-mondo. Nessuno decide a monte della propria esistenza il suo trovarsi-nel-mondo, così come l’essere distaccato alla Fortezza Bastiani emerge alla fine del romanzo una decisione superiore inderogabile. Comunque ciò che è venuto a mancare a Drogo è stata la volontà-di-scegliere, di modificare in maniera attiva la sua esistenza: «Il colloquio col generale, giù in città, gli aveva lasciato poche speranze di trasferimento e brillante carriera, ma Giovanni capiva pure di non poter restare tutta la vita tra le mura della Fortezza. Presto o tardi qualche cosa bisognava decidere. Poi le abitudini lo riprendevano nel solito ritmo e Drogo non pensava più agli altri, ai compagni che erano fuggiti in tempo, ai vecchi amici che diventavano ricchi e famosi, egli si consolava alla vista degli ufficiali che vivevano come lui nel medesimo esilio, senza pensare che essi potevano essere i deboli o i vinti, l’ultimo esempio da seguire. Di giorno in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane, appena venticinque anni. Quell’ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo». L’essere-nel-tempo, heideggeriana connotazione del dasein (esserci, uomo), consuma il soggetto a guisa della fiamma con una candela: «Drogo sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano. Il tempo, inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno sull’altro i giorni. Bastava guardarsi attorno che già scendeva la notte, il sole girava di sotto e ricompariva dall’altra parte a illuminare il mondo pieno di neve. Gli altri, i compagni, sembravano non accorgersene. Facevano il solito loro servizio senza entusiasmo, si rallegravano anzi quando sugli ordini del giorno compariva il nome di un mese nuovo, quasi avessero fatto un guadagno. Tanto di meno da passare alla Fortezza Bastiani, calcolavano. Essi avevano dunque un loro punto di arrivo, mediocre o glorioso che fosse, di cui sapevano accontentarsi. Lo stesso maggiore Ortiz, ch’era già sulla cinquantina, assisteva apatico alla fuga delle settimane e dei mesi. Egli aveva ormai rinunciato alle grandi speranze e “Ancora una decina d’anni” diceva “poi me ne vado in pensione”. Sarebbe tornato alla sua casa, in una antica città di provincia – spiegava – dove vivevano alcuni suoi parenti. Drogo lo guardava con simpatia, senza riuscire a capirlo. Che cosa avrebbe fatto Ortiz, laggiù fra i borghesi, senza più nessuno scopo, solo? “Ho saputo accontentarmi” diceva il maggiore accorgendosi dei pensieri di Giovanni. “Anno per anno ho imparato a desiderare sempre meno. Se mi andrà bene, tornerò a casa col grado di colonnello.” “E dopo?” domandava Drogo. “E dopo basta” fece Ortiz con un sorriso rassegnato. “Dopo aspetterò ancora... pago del dovere compiuto” conchiuse scherzosamente. “Ma qui, alla Fortezza in questi dieci anni, non pensa che...” “Una guerra? Lei pensa ancora a una guerra? Non ne abbiamo avuto abbastanza?”».
L’illusoria aspettativa di un cambiamento, di un deus ex machina, continua ad accompagnare nonostante frustranti delusioni la vita al forte di Giovanni Drogo, il quale possiede della sua condizione esistenziale una perfetta consapevolezza: «Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai. Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare questa misteriosa rovina, e invano cercava di trattenerla. Nella vita uniforme della Fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di sotto prima che lui riuscisse a contarle. C’era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita. [...] Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita». Il temuto pericolo dal Nord, d’altro canto auspicato e sollecitato in cuore da ciascun militare della Fortezza Bastiani, sebbene siano trascorsi numerosi anni non ha ancora luogo. Anzi l’inesorabilità del tempo pone Drogo, ora capitano, a rivivere a parti invertite nel corso di un episodio, in base a uno sconcertante rituale creato dal destino, il suo arrivo alla fortificazione. Ormai l’apatica rassegnazione si è impadronita di lui, e il fato ha voluto farsene beffa facendogli ripercorrere grottescamente il suo primo giorno, quando avviatosi a prendere servizio, incontrò sul cammino l’allora capitano Ortiz. Giovanni si scopre dunque divenuto un rottame esistenziale formatosi nel tempo, tuttavia ancora imbevuto dell’illusione: «Assurdo, refrattario agli anni, si conservava in lui, dall’epoca della giovinezza, quel fondo presentimento di cose fatali, una oscura certezza che il buono della vita fosse ancora da cominciare». E finalmente nel momento in cui arrivano i nemici dal Nord egli è costretto, ammalato, ad allontanarsi dalla piazzaforte: «Il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome». Il protagonista buzzatiano perisce in un esistenziale confronto con la propria morte a testa alta, confronto quale esistenzialistico saliente evento personale: costituisce questo l’ultimo argomento heideggeriano che il creatore del romanzo tocca, a testimonianza della sua partecipazione a quel coro di inquietudine che caratterizzò la prima metà del ’900, di cui fece parte ad esempio Camus (il quale negli anni ’50 riprese un’opera buzzatiana allo scopo di farla mettere in scena per il teatro in Francia). Dino Buzzati fu in passato spesso ricondotto dalla critica a categorie kafkiane, ma l’impressione scaturente da “Il deserto dei Tartari” è che egli riprenda una radice pirandelliana, la quale per certi versi lo pone nel campo di riflessione condiviso da Camus. Il vincitore del Premio Nobel Luigi Pirandello, pittore anche lui, fu sensibile al pensiero tedesco2, perciò niente di strano che il suo originale epigono di valore rifletta qui l’esistenzialismo di Heidegger. La cultura francese del dopoguerra, imbevuta di motivi esistenzialistici, non prese sottogamba la produzione buzzatiana. Nel testo esaminato compare tra l’altro altresì un quid di foucaultiano ante litteram nel concepire una struttura architettonica nella veste di strumento oppressivo da parte del mondo dominante della tecnica, del potere.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche