di
DANILO CARUSO
“Il
fu Mattia Pascal” uscito nel 1904 (in un primo momento a puntate sul periodico
“Nuova Antologia”, e quindi in forma integrale grazie alla casa editrice
Fratelli Treves) è una delle opere più famose della letteratura mondiale.
Romanzo scritto da Luigi Pirandello (1867-1936; autore cui fu tributato il
Premio Nobel nel ’34), il suo contenuto mostra una ricchezza di sfumature di
pensiero non indifferenti. Alla mia lettura notai la vicinanza pirandelliana,
non strana data la sua giovanile formazione di studio pure in Germania, a
impostazioni della filosofia tedesca. La sensibilità creativa lo rende
avvicinabile a posteriori all’esistenzialismo. In un brano egli rivela
un’affinità con l’estetica di Kant rielaborando il concetto del “bello” in
funzione esistenzialistica: «Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le
immagini ch’esso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un
oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni
gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il
piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La
fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Né noi
lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che
suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma,
noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra
esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai
nostri ricordi». In un altro passaggio del testo anticipa una tematica
heideggeriana (la polemica contro il finale controllo totalitario della tecnica
sulla vita umana): «“Oh perché gli uomini,” domandavo a me stesso,
smaniosamente, “si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno
della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo
quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto
progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con
cui la scienza crede onestamente d’arricchire l’umanità (e la impoverisce,
perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche
ammirandole?” […] La scienza, pensavo, ha l’illusione di render più facile e
più comoda l’esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile,
con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: “E qual
peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile
e quasi meccanica?”». Altre rilevazioni critiche corroborano le impressioni
indicate sinora e le aprono alla volta di altri riferimenti. Il cambio di
personaggio sociale nel corso della narrazione operato dal protagonista, da
Mattia Pascal a Adriano Meis, evoca in maniera forte Edmond Dantes; sicché il
primo, premiato da una buona sorte riparatrice, appare un distopico Conte di
Montecristo nel pessimistico universo intellettuale di Pirandello. A simile
ascendenza letteraria di forma si contrappone una precorritrice intuizione
sostanziale abbozzata proprio nel cap. VIII: la costruzione di un nuovo passato
personale di Mattia Pascal mi ha ricordato Philip Dick, e un suo racconto in
particolare: “Ricordi in vendita”. L’essere sociale dell’uomo è un essere-nel-tempo
giacché attraverso di esso transitano le informazioni e si sedimentano.
L’identità personale che gli altri rilevano da noi proviene da un’esperienza
temporale. Ma sia Dick che Pirandello demoliscono in interiore quanto sembrava
un’acquisizione salda e immutabile, quella del passato. Ciò non relativizza
tuttavia l’essere dell’Io, ma testimonia che il meccanismo fenomenico delle
relazioni può realmente trasformarsi in distopia, e fare del mondo un carcere
dell’anima. Non è un caso l’amara e iperbolica constatazione di Mattia
all’inizio del cap. VII: «Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto –
fors’anche meglio». Tratti del pessimismo di Leopardi e Schopenhauer compaiono
nell’opera. Il protagonista, Mattia, scopre se stesso quale epifenomeno
(sociale, ontologico) della “voluntas”, e perviene a una “noluntas” nel suo
mutarsi nel “fu Mattia Pascal”: questa sua lucida tragica coscienza della
sostanza del mondo dei fenomeni lo ha proiettato fuori del “fenomenico” nel
mondo metafisico della vita radicale (libido freudiana = voluntas
schopenhaueriana): «Il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per
nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la
terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso
non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un
tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne
risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno
sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un
lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa
vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino
che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal
quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non
fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto
ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la
notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo
noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme
della nostra ragione?».
Ecco
lo sfondo filosofico di una dinamica caratteristica delle creazioni
pirandelliane: dove il reale visibile si tinge di male, e tutto ciò che appare
“oltre” ha il sapore di via di fuga, di distopica felice isola d’esilio. Mattia
Pascal non è un personaggio letterario estraneo alla gamma concettuale cui
appartiene John “il selvaggio” dello huxleyano “Brave New World” (romanzo sopra
il quale ho scritto un saggio1). Dalla lettura de “Il fu Mattia
Pascal” mi è rimasta l’idea che il romanzo possa ascriversi pure al genere
distopico. Mi ha colpito in Pirandello quella che ho definito nelle mie
riflessioni una “dialettica ultranegativa”. Se Adorno apprezzava il “negativo
razionale” hegeliano in vista di qualcosa che potesse giovare, Pirandello alla
fine passa a un “ultranegativo distopico” il quale rende prigionieri i suoi
personaggi nel mondo fenomenico. Voglio chiarire meglio queste tappe letterarie
indicandone le “figurazioni”: momento tetico, Mattia Pascal (in sé); negativo razionale,
Adriano Meis (fuori di sé); ultranegativo razionale (in sé e per tutti), fu
Mattia Pascal. L’ultima fase rappresenta uno svuotamento, una sorta di
“individuazione junghiana” distopica. A proposito di connotati distopici metto
in evidenza due brani del romanzo. Il primo, evocante il clima sociopolitico
dell’allora recente periodo crispino-umbertino, potrebbe evocare il tema del
modello totalitario: «Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol
patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto
d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco
filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di
tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio
caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il
potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare
molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e
si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da
libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per
questa tirannia mascherata da libertà». In relazione a questo seguente secondo passaggio,
mi è balenata in mente la singolare somiglianza con delle scene del film su
“Arancia meccanica”. Tant’è che tra me e me dicevo di quest’ultimo estratto:
“arancia meccanica pirandelliana”: «Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al
bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano
in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di
rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una
donna da trivio. Accenno a quest’avventura, non per farmi bello d’un atto di coraggio,
ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano
quattro quei mascalzoni, ma avevo anch’io un buon bastone ferrato. E vero che
due di essi mi s’avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio,
facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere
in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene
assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli
altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli
strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte.
Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse
zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e,
piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di
seta che portava sul seno, stracciato nella rissa». Infine non mi appare
affatto fuor di luogo chiudere la mia analisi con un richiamo alla canonica
categoria dell’“umorismo pirandelliano”, vale a dire ricordare quel “sentimento
del contrario” il quale fa prendere consapevolezza dei limiti in cui le persone
possono essere intrappolate apparendo grottesche nel loro cercarvi un rimedio:
«Insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore
spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si
chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l’italiano; non ci fu verso
però di fargli pronunciare l’esse del mio cognome: pareva che ogni volta,
nell’atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.
– Adriano Mei, – diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi.
– Adriano Tui, – mi veniva quasi di rispondergli».
– Adriano Mei, – diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi.
– Adriano Tui, – mi veniva quasi di rispondergli».
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche