di DANILO
CARUSO
In
Italia esiste un vuoto legislativo a proposito del diritto del malato grave (e
in caso di sua incapacità a determinare con piena facoltà, per suo conto, dei
familiari o di altri soggetti riconosciuti) a rinunziare a qualsiasi forma
artificiale di sostegno sanitario alle funzioni biologiche vitali
dell’organismo laddove questo non offra motivo di recupero o non sia attuato in
un contesto che abbia speranza di positivi cambiamenti. Non è quindi concesso
ai medici causare direttamente il decesso del paziente in alcun modo (eutanasia attiva). Ciò crea ambiguità e
confusione sul tema dell’applicabilità del testamento biologico (il quale
stabilirebbe l’inderogabile volontà personale in merito). Quando i dibattiti di
cronaca vi si soffermano, mettono in evidenza l’opposizione radicale tra due
schieramenti. Uno è quello del pensiero che si richiama alla dottrina della
Chiesa cattolica, assolutamente contrario a tutti i tipi di morte dignitosa, l’altro è quello laico che riafferma un diritto
universale di ogni individuo: la libertà di decidere maturamente di ciò che
riguarda la propria persona. È comprensibile l’insegnamento di natura religiosa
che vorrebbe la difesa della vita a tutti i costi, ma non è parimenti possibile
nello spazio pubblico poter introdurre delle norme che contraddicano il diritto
di natura. È pienamente lecito che la Chiesa esplichi il suo magistero senza
essere ostacolata in ciò, ma il diritto all’eutanasia esula come normativa
dalla religione: se un ammalato vuole porre fine alla propria esistenza deve
essere libero di farlo come possibilità concessa dalle leggi, nessuno può
negargli quel diritto senza negargli la piena sovranità nell’ambito della
propria persona e così distruggere la sua libertà. Costui non può essere
condannato da un altro principio – che tutti condividiamo, del valore della
vita – a una sofferenza a oltranza: sia libero di scegliere secondo coscienza.
La liceità non comporta che tutti se ne avvalgano, ma che siano liberi di potervi
accedere. Nel rispetto della libertà del sofferente può radicarsi il messaggio
della Chiesa, che non è messaggio normativo, ma messaggio di fede e di
spiritualità non vincolante lo Stato nella sua legislazione. Lo Stato deve
tutelare i diritti naturali del cittadino lasciandolo libero di compiere la sua
scelta, che egli compie secondo le sue credenze (di qualsiasi sorta esse
siano). Il caso dell’eutanasia è molto delicato: se questa non deve essere
praticata non lo dovrebbe a un divieto di carattere giuridico, che sarebbe
innaturale, lo dovrebbe a una consapevolezza di fede o di convinzione diversa
che rispetti pur sempre la volontà del sofferente. Costui sia posto nelle
condizioni di scegliere, e quindi lo faccia preferendo la via che gli sembra
migliore. Il cardinale Carlo Maria Martini si era espresso anni addietro contro
l’accanimento terapeutico, e la mancata somministrazione di farmaci a un malato
incurabile sarebbe un’eutanasia passiva.
Alcuni sacerdoti sono a essa favorevoli. La proposta del cardinale Martini non fu
insensata o anticristiana, è il massimo che nel contesto del magistero
cattolico si potrebbe concedere. Però al di fuori della sfera religiosa lo
Stato dovrebbe render ammissibile la facoltà di un soggetto che versa in
gravissimo disagio per malattia di porre fine alla propria vita se lo vuole e
come lo vuole: anche con causa esterna diretta e non solo naturalmente
sospendendo la terapia. Permettere questo è un atto di umanità, anche nella sua
controversia e nella sua paradossale ragionevolezza, impedirlo sembra più
inumano di tanti altri ragionamenti. Il magistero cattolico parla della vita
come un valore assoluto, però questo assolutismo
non può calarsi automaticamente in una realtà imperfetta senza appunto cozzare
contro alcuni problemi come vediamo. La realtà quotidiana è il luogo in cui non
tutti hanno gli stessi ideali, e dove non è lecito imporre modelli totalitari. Di
fronte a tutte le disparate posizioni va concesso ciò che è possibile ammettere
in linea con lo ius naturae. L’errore assolutistico
è, per dare un esempio nella dimensione della res publica, compiuto allorquando
lo Stato consente l’aborto senza fare una rigida distinzione di casi. Due
concetti come l’eutanasia e l’aborto, totalmente
osteggiati o sostenuti, nella quotidianità dovrebbero essere rivisti in modo elastico adattandoli al concreto e
tenendo sempre presenti i principi universali che ispirano le nostre azioni. L’interruzione
di gravidanza sempre possibile contraddice il valore della vita attraverso
questo suo assolutismo pratico. Si sbaglia ancora a negarla completamente come
diritto e a renderla d’altro canto, per così dire, liberalizzata: nessuna delle
due concezioni si adegua al mondo. La prima perché trascura una varietà di
casi, come nell’eutanasia, da rendere ammissibili; la seconda perché
seppellisce completamente il diritto alla vita dell’embrione che dovrebbe avere
uno statuto giuridico di persona in
potenza. Non è una buona cosa o tutto sì o tutto no: in tutti i casi di
gravidanze normali l’aborto voluto è una prassi innaturale e non dovrebbe
essere legale (per prevenirle ci sono i sistemi contraccettivi, lo Stato al
posto di fare una legge non perfetta avrebbe dovuto e dovrebbe educare il
cittadino a conoscerli e inoltre sanare situazioni o pretesti di disagio
socioeconomico); casi in cui l’interruzione di una gestazione potrebbe essere
consentita sono quelli ragionevoli in
cui si demanderebbe ai soggetti interessati (o nell’eventualità di impedimento
a chi stabilito dalla legge) la risoluzione di un conflitto etico:
1)
rischio di pericoli per la gestante (che sia libera di scegliere),
2)
rischio di un’esistenza gravemente disagiata per il nascituro (che scelgano i
genitori),
3)
gravidanze conseguenza di atti di violenza.
In
questi casi nessuno dovrebbe sindacare delle altrui decisioni: chiunque le
prenderà come crede. La possibilità è libertà: chi rifiuta l’aborto terapeutico
e l’eutanasia non rivendicherà questi diritti e non li metterà in atto. Nel
caso dell’aborto non sarebbe possibile generalizzarlo al di fuori di quei
circoscritti casi previsti. Le leggi dovrebbero scaturire come migliore
mediazione – che non è relativismo – tra le esigenze dell’universale e del
pratico: questo non accade in ogni caso. Alla Chiesa è demandata la materia della
morale di carattere religioso, lo Stato è il contenitore di tutti nel mondo
d’ogni giorno (e non tutti questi sono cattolici): da ciò proviene questa
dicotomia laico/religioso, che deve essere mediata sapientemente nel rispetto
di tutte le posizioni fatti salvi i diritti della persona. Allo Stato compete
un altro piano in cui il cittadino opera e dove si dovrebbe prendere cura di
lui senza essere concorrenziale con la dimensione spirituale che rimane, nella
sostanza, un fatto di carattere singolarmente intimo (il che non significa non
riconoscere e non rispettare la manifestazione esteriore e pubblica di una
qualsiasi religiosità che rispetti i valori universali dell’uomo).
Un
altro tema rilevante a riguardo di una simile prospettiva di esame è quello
delle unioni non esclusivamente omosessuali. Il riconoscimento giuridico delle
cosiddette unioni di fatto intende
dare soddisfazione a uno stato di disagio in cui per una lacuna legislativa è
possibile che incorrano i soggetti che vi si trovano coinvolti. Lo Stato non può
non prendere atto di tali situazioni in cui due o più individui non legati da
strettissimi legami di parentela naturale si trovano a convivere al fine di un
mutuo sostegno. È lecito e legittimo disciplinare una casistica di possibili
casi che partano esclusivamente dal fenomeno della convivenza costante, che,
poiché non può essere trascurato nella sua rilevanza fattuale dalle istituzioni
(che regolano il vivere societario) merita un’attenzione che lo ponga
all’interno di norme precise per chiarire diritti e doveri di tali cittadini.
Costoro sono inseriti in questo contesto di fatto: negarlo è illecito, e
vorrebbe dire trascurare agli occhi del diritto una forma associativa.
Qualsiasi associazione deve vivere in società essendo riconosciuta e
riconoscibile, in armonia normativa con tutto il resto del consorzio sociale in
cui si presenta. Parlare solo delle coppie legate da vincoli sentimentali è
però parziale. Non si possono negare a degli associati conviventi diritti e
doveri, nonostante ciò questo non può maturare sulla base del comportamento
sessuale: l’essere omosessuali non è fonte di riconoscimento giuridico. Ciò è
dimostrato storicamente. Nell’antica Grecia, dove l’omosessualità era
considerata sotto il profilo antropologico normale, nessuno pensò di elevare
questi legami al rango di qualcosa dotato di diritti e doveri. Le inclinazioni
sessuali fanno parte della sfera del privato, nella quale lo Stato non deve
entrare, e da cui per il resto i contenuti non devono essere pubblici perché
appunto attinenti a una dimensione che non lo è. Il matrimonio legittimo è
giuridicamente disciplinato per il fatto che contribuisce alla crescita del
corpo sociale: se dalle unioni eterosessuali non ci fosse la facoltà di nascita
dei figli anche questo farebbe parte delle cose di carattere integralmente
privato. Ma qui lo Stato non prende atto della situazione partendo da un
riconoscimento di fattori sessuali; nel matrimonio normale lo Stato tutela i
coniugi poiché possono avere dei figli, e di questa eventualità ne coglie gli
aspetti sociali (l’impotentia cöeundi è
fattore annullante). Da coppie gay è biologicamente impossibile che nascano dei
figli, quindi anche sul piano del diritto naturale dette unioni non sono
giuridicamente rilevanti sotto gli aspetti della sessualità. Gli omosessuali
sono liberi nel loro privato di tenere la condotta che vogliono; nessuno, né
tanto meno lo Stato, può condannarli o discriminarli. Le legislazioni contro di
loro partono anch’esse da principi non naturali: è naturale e ragionevole che un
cittadino abbia la libertà nel suo massimo grado lecito consentito nella
società dalle leggi giuste, e nel suo privato, a maggior ragione, dove lo
regolano le proprie scelte di vita: quando queste ledono la società nella sua
interezza costui compie un reato; l’inclinazione all’omosessualità non è un
reato. Lo Stato deve essere sanamente aconfessionale e interprete del diritto
di natura. Per questo motivo i Greci antichi né la condannarono né la
legittimarono, ma la lasciarono al di fuori delle cose pubbliche, mantenendola
sul piano pedagogico in uno schema culturale più ristretto (senza dimenticare
però che essa era più generalizzata e diffusa). Qualsiasi legislazione parlando
di coppie usa impropriamente alcuni termini se le definisce costituite da
persone unite da legami sentimentali: è ammissibile dare legittimazione
solamente all’associazione in quanto tale. Va
riconosciuta ogni forma aggregativa stabile che non ha avuto accoglimento in un
sistema di diritti e doveri dei componenti. Con tutto il rispetto, la coppia
gay non potrà mai avere uguaglianza biologica con una eterosessuale (per i
motivi che sono già stati detti); ragion per cui questo incontro formale a metà
strada tra due realtà differenti era puramente artificioso. In parecchi
protestano in difesa dei principi della famiglia tradizionale riconosciuta dal
diritto di natura. Questo è il non plus
ultra dei ragionamenti giuridici per tutti: sia per chi lo interpreta come
ordine dato da Dio alla natura e alla realtà sociale, sia per chi lo vede come
contenuto dato dalla pura ragione nell’esercizio spontaneo delle sue
prerogative. Su questo piano tutti gli esseri umani devono necessariamente
ritrovarsi; il modo in cui ne giustificano l’origine non è tanto pertinente
agli argomenti discussi, ma che il diritto naturale sia universalmente
rispettato da tutti è necessario (pena l’esclusione dalla civiltà). Le varie
morali d’ispirazione confessionale vedono e trattano la realtà in modi diversi:
perciò si discute il tema in maniera libera, unicamente in termini di
antropologia e di razionalità. Nessun liberale avrebbe probabilmente difficoltà
ad accettare delle norme per il riconoscimento di diritti e doveri anche di
coppie omosessuali nel momento in cui queste siano inserite in una cornice
legislativa più ampia che raccolga tutta la casistica associativa, senza
parlare di persone (etero o omosex) unite da vincoli affettivi. Tre che
convivono non sono una coppia, tuttavia convivono: meritano ugualmente
attenzione. È preferibile non parlare di coppie, ma solamente di “associazioni”
dal numero di componenti indefinito: pure una casa di accoglienza per anziani può
rientrare in questa tipologia associativa, per fare un esempio. Su più grande
scala occorre individuare i vari casi da riconoscere davanti alla legge:
passando da questa “finestra” le unioni di omosessuali (giuridicamente
spogliate degli aspetti sessuali accidentali) possono essere accolte in modo più
sereno. Non va trascurato che la legittimazione dell’unione eterosessuale di
fatto non interessa molto agli individui in essa coinvolti perché già hanno la
possibilità del matrimonio civile se vogliono regolarizzare la propria
posizione, e poi perché scelgono la convivenza per il fatto stesso di non
gradire vincoli giuridici. Una prospettiva nuova che si potrebbe offrire, e non
esclusivamente agli anziani, è quella di varare una legge per associazioni di mutuo sostegno. Vale a
dire tramite essa dare l’opportunità ai cittadini di unirsi, con forma
contrattuale, in nuclei che abbiano lo scopo di garantire e fornire un aiuto
reciproco tra i componenti. Questi naturalmente avrebbero la medesima
residenza. I gruppi di reciproca assistenza sarebbero composti da una pluralità
di soggetti (anche più di due, e di qualsiasi sesso); i loro membri verrebbero
equiparati di fronte alla legge a congiunti di primo grado (a meno che non vi
sia esplicito accordo per rispettare l’esistenza di gradi naturali). Perciò ad
esempio avrebbero dopo un numero di anni predefinito:
1) diritto
alla pensione di reversibilità;
2) diritto
a ereditare.
Queste
aggregazioni non sarebbero giuridicamente equiparabili alla famiglia normale
(vi potrebbe essere qualche circostanza d’eccezione). Nessuno avrebbe facoltà
di associarsi se non compiuta la maggiore età (nell’ipotesi di minorenni
potrebbe altrimenti decidere chi ne abbia la potestà): un’adozione stricto sensu non sarebbe possibile,
l’ingresso di minori dovrebbe essere approvato comunque da un organo statale. I
nati in un simile consorzio sarebbero componenti di diritto. A tutela di
questi, e di eventuali minorenni associati in un secondo momento della loro
vita, lo Stato potrebbe decidere, assecondando il loro sano e naturale
sviluppo, un tipo di affidamento (adozione o accoglienza in strutture
apposite). Questo schema associativo darebbe sistemazione a particolari legami
(che non verrebbero disciplinati come tali ma obliquo modo):
1) coppie
eterosessuali non sposate civilmente;
2) coppie
omosessuali;
3) poligamia
islamica.
Alcuni
in relazione a questi ultimi aspetti giudicheranno il progetto delle associazioni di mutuo sostegno
contraddittorio e moralmente dannoso quando in realtà non lo è:
1) chi
non è sposato e convive more uxorio
non è obbligato se non vuole a sposarsi, tuttavia né la coppia né eventuali
figli dovrebbero rimanere illegittimi;
2) allo
stesso modo per i gay: lo Stato non può promuovere né riconoscere unioni
omosessuali, a esso non interessa in questa materia l’orientamento sessuale,
conta solo l’associazione (nella specifica situazione e in tutte le altre, fin
quando qualcosa non si tramuti in reato). Questo espediente sarebbe la via di mezzo tra due estremi: la legge
che legalizza i matrimoni gay – con la modifica del codice civile –
equiparandoli a quelli eterosessuali (e consente quindi le adozioni), e le
legislazioni a danno degli omosessuali (in alcuni casi condannabili alla pena
di morte o all’ergastolo).
3) Ugualmente
nei confronti di cittadini islamici con più mogli non c’è motivo razionale di
pregiudizio a loro sfavore (basta ricordare che il diritto greco-antico e
quello romano prevedevano il concubinato): questa forma d’inquadramento – che
non è concubinato – sanerebbe la loro posizione rimuovendo un ostacolo
nell’avvicinamento tra culture diverse. Il matrimonio monogamico resterebbe
l’unico riconosciuto e tutelato pubblicamente, ciò nonostante se uno vuol
convivere con più donne si tratta di fatti privati in cui lo Stato non può
intromettersi se non maturano in tale contesto dei crimini.
La
legge istitutiva delle associazioni di
mutuo sostegno sarebbe conforme al diritto di natura. Va compreso che nel
mondo non esiste soltanto l’Occidente cristiano (cattolico, ortodosso,
protestante) e che il valore della libertà è uno dei diritti inalienabili
dell’essere umano.