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mercoledì 17 luglio 2024

TANATOLATRIA DEL CRISTIANESIMO IN AMBROGIO VESCOVO DI MILANO

di DANILO CARUSO
 
Nei miei precedenti scritti dedicati ad analizzare la storia e l’ideologia del Cristianesimo, più volte, e in maniera frammentaria, ho parlato di un connotato tanatolatrico. Voglio rimediare a quella dispersione di trattazione che ha inquadrato l’argomento sotto i profili psicanalitico e filosofico, laddove l’occasione me ne ha dato l’opportunità. Ho perciò evocato una forma masochistica e un’imitazione di modi operandi dello stoicismo. Di entrambi ho indicato l’apice nella vocazione cristiana al martirio, la quale ho accostato al “suicidio stoico”. Dalla sopportazione della sofferenza in Giobbe all’estremo sacrificio del kamikaze Sansone si nota una parentela ideale semitica tra il Portico e significativi modelli ebraici. Però, a mio avviso il carattere di tanatolatria, estraneo al pensiero stoico, è peculiare nel Cristianesimo per via di estremizzazione patologica: esso prende il suicidio praticato da alcuni seguaci di Zenone di Cizio (città cipriota dell’antica area orientale semitica) e lo eleva al concetto di “martirio”. Questa è l’idea che ho evidenziato in passato. Adesso voglio prendere in esame un testo di Ambrogio (339 ca - 397) vescovo di Milano nel quale l’autore ha proposto un manifesto teologico della tanatolatria cristiana: “De bono mortis”. Le cose che io ho indicato al riguardo basandomi su psicanalisi e filosofia possiedono altresì un’esplicita evidenza nell’ambito della teologia. È giunto il momento di sincronizzare i tre piani (psicanalitico, filosofico, teologico) e di rilevare nelle concrete parole di un Padre della Chiesa la tanatolatria da me in precedenza altrimenti segnalata. Se gli epicurei avevano disintegrato la tanatofobia, il Cristianesimo ha ingigantito un discutibile fascino della morte: il sacrificio, nella sua poliedricità, costituisce un elemento centrale della tradizione giudaicocristiana (vedansi le vicende di Isacco, della figlia di Iefte, di Gesù Cristo). Dall’offrire in olocausto oggettivo si è passati a un’offerta soggettiva (inversione). Nella nuova religione è avvenuto un simile rimbalzo dei piani, sicché il sacrificante è venuto a coincidere con il sacrificato. E ciò proviene dal disprezzo del Cristianesimo verso il corpo umano (teatro libidico), e dalla sproporzionata e isolata esaltazione di una dimensione spirituale (anima) la quale ha perso tutti i suoi contatti con una realtà che non è possibile annichilire e demonizzare come niente fosse. Dal suo punto di vista Ambrogio ci dice che la morte «vitae miseriis ac peccatis liberet». Sulla “paziente attesa” resta qualche perplessità, visto il modo in cui la morte viene esaltata: tant’è che i martiri provengono da tale scia di compiaciuto accoglimento, e alcuni santi hanno provocato la loro prematura scomparsa proprio a causa di un regime comportamentale che non badava alla salute personale. Ambrogio nel suo testo, dove cita parecchi brani biblici, menziona il nevralgico Rm 6,4: il battesimo rappresenta un atto-di-morte, l’ingresso nella dimensione-di-θάνατος-del-Cristo, da cui si resuscita, si fuoriesce a nuova vita. Il concetto teologico cristiano del morire è già presente nel sacramento battesimale. Mentre il Giardino insegnava a non preoccuparsi della morte, Ambrogio insegna ad amarla. Il discorso del vescovo di Milano è molto ambiguo. Se bisogna vivere cristianamente da un lato, dall’altro «mori [est] lucrum»: non fuggire nella qualità di «servus» dal «vitae obsequium», però nella veste di «sapiens» abbracciare (amplecti) il «lucrum mortis». «Dissolvi enim, et cum Christo esse multo melius: permanere autem in carne magis necessarium propter vos [...]. Aliud melius, aliud necessarium. Necessarium propter fructum operis, melius propter gratiam et copulam Christi». Questo brano pone in risalto l’idea di «fructum operis», secondo me l’azione di propaganda e di proselitismo. Quindi credo dica: morire rappresenta l’ideale cristiano, tuttavia non è bene sacrificarsi senza aver lasciato il segno (per estensione o intensione); si può causare la fine della propria vita “cristianamente” a condizione che dopo di essa resti un exemplum apologetico, diversamente va attesa la morte naturale vivendo nella mediocrità (il che costituirebbe una sorta di punizione ritardando la “copula Christi”). In tutti i suoi ragionamenti Ambrogio non ricorda a caso il versetto di un Salmo: «Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum ejus». Il teologo esaminato prospetta la “morte personale” come “sacrificio personale”, dove la vittima (hostia) risulta l’offerente, affinché in detto sui generis olocausto ci sia un passaggio a “miglior vita” grazie alla separazione dal corpo: afferma «gloriosius esse pro Christo mori, quam regnare in hoc saeculo. Quid enim praestantius quam fieri Christi hostiam?». In simile anelito di morte non ravvedo equilibrio mentale. Per Ambrogio l’obiettivo rimane il liberarsi del corpo umano, rinunziare «voluptatibus suis atque luxuriae», fuggire «flammas libidinum». E nel caso in cui questo non perisca letteralmente si deve far sì che «moriantur omnes corporis delectationes». Il precetto cristiano è il seguente: «Mortem Jesu in corpore nostro circumferamus. Qui enim habuerit in se mortem Jesu, is et vitam Domini Jesu in corpore suo habebit. Operetur igitur mors in nobis, ut operetur et vita». E questa è tanatolatria. Nel suo opporre «lex carnis legi mentis» il vescovo di Milano non fa null’altro che ripresentare quella rottura dell’asse delle capacità razionali junghiane, la quale ho più volte spiegato essere alla base della nevrosi cristiana, giacché al “maschile junghiano razionale (lex mentis)” è stato contrapposto “il femminile junghiano sentimentale (lex carnis)”: in tal modo, in siffatta illecita e patologica operazione, il genere sessuale dell’uomo ha assorbito e raffigurato la razionalità, mentre il genere femminile ha configurato lo “schieramento somatico” connotato da tutta la gamma emozionale con ricaduta sul corpo umano. E dato che il corpo umano (teatro libidico) è da sopprimere appunto per eliminare l’influenza di emozioni, passioni, stimoli esteriori estetici, il soggetto femminile in quanto rappresentante della mera dimensione somatica (priva del dominio razionale) è diventato la porta dell’Inferno, che può sviare l’uomo dalla retta razionale via lastricata di puro Logos (ex stoico, ora cristiano). La salvezza dell’anima comporta la morte del corpo (e delle sue pulsioni libidiche) in maniera reale o attraverso pratica di astinenza dalla concupiscenza. In questo stoicismo impazzito «inimicum [...] est corpus»: «Posti in questa vita è da cercarsi codesta morte, affinché la morte di Cristo brilli nel nostro corpo [...]. Imita quindi la morte chi allontana sé dalla comunione di questa carne, e si scioglie da quei vincoli». Più evidente di così il regime tanatolatrico cristiano reputo non possa essere: LA VITA È MORTE, con doublethink orwelliano non estraneo alla teologia del Cristianesimo. Ambrogio rammenta nella sua esposizione Rm 7,24: «Chi mi libererà dal corpo di questa morte [Τίς με ῥύσεται ἐκ τοῦ σώματος τοῦ θανάτου τούτου;]». Il monito del vescovo di Milano al fedele è chiarissimo: «Quod delectatione carnali eligendum aestimaverit, hoc sciat falsum, ab eo fugiat et recedat, quia fraudis est plenum». Il σῶμα comporta θάνατος in senso lato normale con valenza etica («mors peccati»), mentre questo concetto di morire nell’orizzonte cristiano assume un valore positivo allorché libera l’anima dal corpo («mors mystica» la definisce Ambrogio sempre mantenendo un senso lato, nel quale ho fatto notare può rientrare pure una vocazione al martirio): «Mors utique est bonum, quae animam a societate carnis hujus absolvit et liberat». La morte, ovviamente, nella teologia cristiana si porta appresso il discorso sui novissimi. Detto ciò, su cui non mi soffermerò, riprendo l’analisi mirante a evidenziare l’aspetto tanatolatrico del Cristianesimo, e lo faccio riportando un’altra citazione dal “De bono mortis”: «Mors est quae mundum redemit». No si dà riscatto dal peccato se non mediante un passaggio di mors: battesimo, martirio, rogo. Ambrogio non ci dice niente di questi ultimi due. Ma i martiri già c’erano prima di lui; e alla sua epoca, nel 390, l’imperatore romano Teodosio, adeguandosi altresì all’omofobia cristiana e riprendendo una norma simile del 342 (che prevedeva il rogo) dei filocristiani Costanzo II e Costante I, stabilì di nuovo la pena di morte quale sanzione possibile a carico di prostituti omosessuali passivi. Nel IV sec., dopo l’Editto di Costantino e l’espandersi del Cristianesimo, la percezione generale ai vertici del potere dell’omosessualità era mutata in direzione dell’intolleranza. Il Codex Theodosianus del 438 previde la punizione del rogo per l’omosessualità passiva in genere. A partire da Giustiniano, con le Institutiones del 533, non si farà più distinzione. Più avanti, nei secoli, l’orrenda necessità cristiana di purificare il mondo e di distruggere i corpi umani nei casi giudicati peggiori giungerà a coinvolgere streghe, eretici e altri. Nel testo esaminato del vescovo di Milano è lui stesso, ricordandoci Rm 1,32, a suggerire la punizione estrema per trasgressori e loro ammiratori: «Non solum ii qui flagitiosa agunt, sed etiam qui ea approbant, digni morte sunt». La tortura e il rogo nel Cristianesimo, secondo me, possiedono una radice sadica, la quale rappresenta il rovescio della medaglia col masochismo su un lato: sadismo/masochismo nella tanatolatria, gravi fenomeni psicopatologici promossi da una discutibile originaria teologia. Il progresso della Civiltà umana dopo l’Illuminismo ha posto un argine al perpetuarsi di crimini contro l’umanità (omofobia, misoginia, antisemitismo, illiberalità, stabiliti da princípi cristiani, e praticati con metodi violenti e disumani, per lungo tempo, su vaste aree, e su una percentuale della popolazione non indifferente). Ambrogio insiste sul bisogno cristiano di disprezzare il corpo umano, luogo del peccato, e «usum mortis imitantes» di far sì che l’anima si renda indipendente da esso, in modo di poter exsurgere de isto sepulcro. Di fronte a tali considerazioni non c’è da stupirsi di fenomenologie di disagio indotto come quella delle cosiddette “sante anoressiche”1. Nel “De bono mortis” il vescovo di Milano prende di mira corporei ardores, oculi meretricii, meretrices: «mulier [...] virorum pretiosa anima capit». La carnis pulchritudo costituisce ragione di male, la animae pulchritudo rappresenta invece l’opportunità di bene: una dicotomia troppo radicale, inaccettabile nella sua matrice patologica delineata, stando alla mia ottica di pensiero razionalista. Nonostante il Cristianesimo avesse respinto il pensiero di Epicuro, una sezione dello scritto apologetico analizzato riporta una critica alquanto epicurea della paura della morte, sottolineando che inquietante risulta essere la opinio de morte, non tanto la mors in sé. Comunque subito dopo si approda su un versante alternativo cristiano: «Mors [...] absolutio est et separatio animae et corporis: non est autem mala solutio; quia dissolvi et esse cum Christo multo melius [..]. Non igitur mala mors. Denique mors peccatorum pessima». Torna ancora una volta un proclama tanatolatrico misobiotico (tipico dei martiri: «Benedictio perituri veniat in me», scrive dal canto suo il vescovo di Milano). Ambrogio spiega inoltre l’immortalità dell’anima con un ragionamento platonico. La Patristica ha attaccato la vecchia filosofia proseguendo nel solco paolino, tuttavia non ha potuto fare a meno di costruire la nuova religio con i mattoni concettuali presi proprio dai rivali filosofici stoici, platonici ed epicurei. L’evidenza di una simile operazione testimonia il carattere umano e storico del credo cristiano, elaborato dentro un quadro con i suoi fattori socioculturali, i quali ne hanno determinato il profilo. Questo è analizzabile, e conoscibile nel suo DNA, sulla base suddetta, ossia di comune fenomeno concettuale, non avente nulla di divino. La Storia va inquadrata con metodi scientifici. Le religioni sono fenomeni storici, sociali, umani. Le loro teologie non costituiscono spiegazioni, bensì un’aggiunta spesso dogmatica. Queste cose devono essere “oggetto” di altre “scienze”, non hanno una qualità intrinseca che le possa elevare al rango di “soggetto guida” di analisi e conoscenza. Le studiamo per capirle, non le capiamo per poter studiare meglio il resto, giacché stanno sullo stesso piano da indagare.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Studi illuministi”
 
1 Per un approfondimento di questa materia vedasi la prima parte di un altro mio lavoro: Misantropia del Cristianesimo, nella mia opera Studi illuministi (2024).