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mercoledì 17 luglio 2024

ELEMENTI DI ANTISEMITISMO NELLA “DIVINA COMMEDIA”

di DANILO CARUSO
 
Tempo addietro scrissi un saggio di critica dantesca dove accennai alla presenza di una traccia di strutturale antigiudaismo nella “Divina Commedia”1. Là fui abbastanza chiaro seppur nella circoscrizione offerta da una monografia globale. Qua è mio intendimento riprendere il mio punto di vista e sviluppare l’argomento in maniera dettagliata. Da quell’evidente mia idea di base passerò alle facce del problematico poliedro, al fine di far osservare che non si può far a meno di tenere nella dovuta considerazione l’antisemitismo cristiano in epoca medievale, e dunque la sua consequenziale presenza nei prodotti culturali cattolici di tale era. L’atmosfera antiebraica promossa dal Cristianesimo è entrata nella “Commedia” perché il suo autore ha seguito canoniche allora linee guida dottrinali della Chiesa. Nel Cattolicesimo medievale di Dante non si rivela anormale vedere elementi di antisemitismo, anzi nel caso di un integralista come lui dobbiamo aspettarcelo. Così detto, li indicherò. Nell’“Inferno” viene menzionato il «cerchio di Giuda», ossia il nono, quello dei traditori. Questo appare quadripartito: traditori 1) dei parenti, 2) dello schieramento in politica, 3) degli amici e degli ospiti, 4) dei benefattori; con gravità di addebito nella visione dantesca crescente. La quarta zona, la porzione più profonda dell’inferno, antistante a Lucifero è stata denominata «Giudecca» dall’autore della “Divina Commedia”. Come ho sottinteso nel mio saggio sopra rammentato, la semantica della circostanza non va vista in maniera riduttiva: “Giudecca” perché ci sta Giuda. Ma in una guisa confacente al contesto storico di presenza del testo: quindi, “Giudecca “ poiché ci stanno gli Ebrei in genere. Ricordavo là che il termine in questione ha indicato aree urbane di emarginazione delle genti giudaiche. La stessa cosa capita nell’inferno di Dante: la Giudecca infera si mostra quale area di espiazione della condanna eterna degli Ebrei, coloro che, nell’ottica mitologica cristiana, causarono la morte di Cristo rimanendo legati alla propria originaria tradizione religiosa. Il vocabolo in questione proviene, nella sua forma volgare dantesca, dal latino medievale Iudeca, Iudaica in latino classico. Non esistono ragionevoli motivi per cui si possa concludere che nell’“Inferno” il volgare “Giudecca” sia da intendersi con una provenienza semantica ed etimologica diversa e riformata. Una Iudeca/Giudecca nella realtà è uno spazio urbano di emarginazione, e simile valore di significato resta quello inserito nella “Divina Commedia”. Dante non riforma l’etimo convenzionale della parola “Giudecca”, né tanto meno inventa il termine volgare (allo scopo di indicare il ghetto), nelle cui varianti è esistito in Italia a prescindere dallo scrittore fiorentino: Giudeca, Iureca, sempre dal latino medievale Iudeca. La tradizione semantica, dal latino al volgare, da Iudeca a Giudecca, di una voce indicante un’area di concentramento, si mostra esterna a Dante. Lo precede e l’accompagna. È lui a adeguarsi nella volgarizzazione, e a non modificare l’originario peso di significato. Da quel che osservo la critica dantesca campione in carica accoglie la riforma dell’etimo e della dimensione semantica di “Giudecca” nell’“Inferno” grazie a una etimologia d’eccezione (da Giuda, e non invece da Iudeca/Iudaica nel senso di ghetto), nel tentativo, immagino, di allontanare lo spettro dell’antisemitismo (luogo-di-Giuda appare più soft di luogo-di-Giudei) dal testo di un poema, a mio modestissimo avviso, celebrato in forme esagerate, nascondendo la polvere sotto il tappeto. In una sua epistola, indirizzata «Cardinalibus ytalicis», il poeta fiorentino definisce gli «Iudei» con aspro tono patristico «impietatis fautores» assieme a «Saraceni et gentes»: promotori di empietà, di oltraggio. Rifiutare il Messia cristiano si rivela il peccato capitale di tutti le genti giudaiche di ogni epoca rimaste fedeli al proprio modello religioso canonico. Paolo di Tarso e altri furono Ebrei sostenitori del nuovo orizzonte del Cristianesimo, perciò chi seguì lui e i primi cristiani fra il popolo giudeo non è da considerarsi un “traditore”: perfidus, in lingua latina, cioè colui-che-devia-dalla-retta-fides. Sopra quest’altro aspetto semantico ho parlato in un’altra mia monografia, a cui rinvio in vista di approfondimento2. Qua proseguo dicendo che nel cerchio infernale dantesco dei traditori rimane naturale trovarci i “perfidi Judaei”, i traditori per eccellenza nella nuova discutibile teologia cristiana. La parola “Giudecca” si mostra, con evidenza, riferibile in guisa indefinita ai Giudei. Allorché Dante parla del «cerchio di Giuda», per questioni di versificazione, nell’usare il termine «Giuda» sta adottando un simbolo. Giuda non rappresenta qui soltanto la persona del dannato che si trova prossimo alla Giudecca, la quale non da lui prende nome. Egli costituisce il simbolo di tutti i traditori. Dalla perfidia (tradimento) degli “Ebrei traditori” origina spunto ideologico alla volta della denominazione degli spazi di loro segregazione. In una Giudecca urbana non troviamo l’apostolo traditore, bensì comuni genti ebraiche. Allo stesso modo deve intendersi il lemma esaminato nella “Commedia”. Non è per me accettabile una reductio estensiva da tutti a uno nell’etimo. Dante nell’indicare «il cerchio di Giuda» usa un simbolo. Il che è tipico nella costruzione dantesca del noto poema, dove allegorie e simboli abbondano. Non vedo la ragione per cui qua non si debba applicare una analoga abitudinaria chiave di interpretazione: Virgilio sì, e Giuda no? Dante sembra fare una distinzione in materia di addebito dei peccati a proposito di Ebrei, considerando come spartiacque la vicenda del processo di Pilato, la sentenza e l’inerente judaica perfidia. I sacerdoti giudei, «mala sementa», che nei Vangeli chiedono in precedenza l’eliminazione di Cristo sono collocati dal poeta fiorentino nell’ottavo cerchio, quello dei fraudolenti, e in particolare nella bolgia degli ipocriti, la sesta. In seguito al tradimento ufficiale, al cospetto di Pilato, il Giudeo non convertitosi in vita (il germoglio) va a finire nella infernale Giudecca. Notiamo qua una precisa operazione compiuta in linea generale dall’autore della “Divina Commedia”. I capi religiosi ebrei del tempo di Gesù i quali nella concezione del poeta avrebbero dovuto accettare la venuta di un presunto Messia (cristiano) vengono accusati di “ipocrisia”: sono coloro che al contrario avrebbero dovuto spiegare al popolo la bontà dell’accoglimento e della conversione. La massa giudea, che davanti a Pilato provoca la condanna di Gesù viene accusata di tradimento (perfidia). Si rileva una sottigliezza concettuale nel sadismo infernale dantesco. Gli ipocriti religiosi in detta sesta bolgia dell’ottavo cerchio stanno fissati da tre paletti sulla superficie dello spazio infero, e gli altri comuni ipocriti vaganti là (sotto il peso di cappe metalliche) gli passano sopra. Per lo scrittore fiorentino questi Giudei qui meritano il medesimo destino il quale riservarono alla Verità. Nella Giudecca invece, quarta fascia del ghiacciato lago di Cocito (posto nel nono cerchio), i dannati traditori dei benefattori, di cui Dante non menziona esempi concreti di persone, sono posti per intero sotto il livello della superficie del lago (punizione provocata dalla estrema freddezza della loro condotta in vita): gli Ebrei generici lì collocati non inducono l’autore della “Commedia” a citarne qualcuno, gli basta denominare il posto “Giudecca” e illustrare l’orribile condanna eterna di Giuda finito nelle dirette mani di Lucifero. L’assenza di exempla viene giustificata dal fatto che le genti ebraiche vengono inquadrate nella loro generalità di fede, la quale si riversa nel simbolo “Giuda”: traditore sì di Cristo in quanto personaggio evangelico puntuale, tuttavia altresì immagine del globale tradimento del popolo ebreo, nella mentalità cattolica dantesca. Se i perfidi Judaei finiscono nella Giudecca, rimane comunque possibile la stessa pena, per peccati simili, a danno di altri non Ebrei, come testimonierebbe la parallela a Giuda condanna di Bruto e Cassio, anche loro orribilmente torturati da Lucifero in persona. Lo scrittore fiorentino valuta giusto privare i Giudei della libera facoltà di autodeterminarsi in materia di religione. E data la radicale alternativa che ne scaturisce, l’opposizione del Cristianesimo è stata pesante, giacché, necessariamente, uno tra nuovo credo e antica fede, deve, a causa di rispettive impostazioni teologiche, essere ricadente nel campo della falsità. Ecco gli ipocriti negatori del Messia, i traditori deicidi, colpiti da odio antisemita. Dante recepisce e assimila da cattolico il clima antiebraico e lo inserisce nella “Divina Commedia”, dove appunto l’antigiudaismo non si rivela estraneo. A me l’infernale Giudecca dantesca, nella quale i dannati sono intrappolati in varia postura, evoca l’inquietante prefigurazione di un lager nazista. L’ostilità antisemita di Dante traspare in una terzina dell’“Inferno” dove egli definisce il Papa Bonifacio VIII «lo principe d’i novi Farisei». Il termine “farisei”, denotante gli appartenenti giudei a una setta dell’Ebraismo antico, viene adottato dal poeta fiorentino in un’accezione negativa di confronto (il capo dei nuovi ipocriti, egli intende dire). Al di là di questo paragone, già indicativo della considerazioni del poeta nei riguardi del popolo giudeo, quel che viene appresso, sempre in questa terzina, si mostra ancora più sconcertante. Giacché Bonifacio VIII, a detta di Dante, sarebbe responsabile di una «guerra presso a Laterano, / e non con Saracin né con Giudei». In parole povere l’autore della “Commedia” ha affermato la liceità di un conflitto armato contro gli Ebrei. Che cosa c’entrano questi con le discutibili Crociate di liberazione della Terra santa? Pare niente, dunque il riferimento a loro si mostra generico: vale a dire che per lo scrittore fiorentino è ammissibile la persecuzione giudaica in quanto rivolta a nemici del Cristianesimo. Allorché Dante adopera il lemma “Saracin” collegato a “Giudei” fa percepire che ha in mente delle religioni avversarie dacché l’asse dell’intenzione semantica non appare poi così celato. Il poeta è stato uno che non ha disprezzato l’uso delle armi nella risoluzione dei contrasti. Saracin e Giudei sono accomunati dall’essere rivali religiosi in primis della Chiesa medievale, nella di lui concezione, non dall’essere avversari politici. Nel pensiero dantesco la religione ha assorbito la politica, e tutto si misura col metro della prima, come del resto la “Divina Commedia” docet. Trovarvi elementi di antisemitismo spiritualista cristiano non costituisce per me motivo di sorpresa. I tempi, erano quelli di un antigiudaismo della Cristianità il quale rimarrà in auge per molto tempo. Da respingere tali idee, però non si può isolare Dante e sterilizzarlo: pure lui era un antisemita, e lo ha fatto notare. Con imparzialità e obiettività non ci resta altro che mettere in evidenza simili punti nella “Commedia”, e collocarla in un confacente orizzonte critico, come ho cercato di fare nella mia monografia dantesca. La quale non pretendeva di distruggere un (falso, secondo me) mito, bensì porre il cosiddetto Sommo Poeta nel posto appropriato degli spazi letterari (il quale a ogni modo resta non indifferente). Ai miei occhi Dante si mostra un fanatico e un estremista religioso e politico, e alla luce di ciò ho compiuto le mie analisi critiche a lui dedicate. Il poeta fiorentino non è stato esente dai gravissimi limiti di una cultura e di una formazione cristiane e medievali. La figura del traditore Giuda viene adoperata in funzione di paragone nel “Purgatorio”. Esemplare nella seconda cantica una terzina dimostrante ulteriormente quanto da me sinora sostenuto: «Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto / del sommo rege, vendicò le fóra / ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto». Da essa ricaviamo utilissime informazioni sul pensiero dantesco. Notiamo che la vittoria romana nella prima guerra giudaica (66-70) viene inserita dallo scrittore fiorentino in un sistema di considerazioni storiografiche in toto distorto e nevrotico. Il successo di Roma, a suo dire, sarebbe stato appoggiato da Dio, desideroso di vendicarsi dell’uccisione del Messia. La prima cosa da ricordare è che le guerre dei Romani pagani costituivano dei conflitti meramente politici, e che prima di Costantino la religio christiana non ebbe un ruolo ispiratore. Non esiste nessun intervento divino nella Prima guerra giudaica, e de facto nessuna vendetta teologica, ma soltanto un fatto politico-militare provocato dalla contingenza storica, dall’attaccamento giudeo alla propria religione in forme esclusive e radicali, e non da una qualche forma di antisemitismo (i Romani badavano ai fatti, non a creare categorie di razzismo: gli Ebrei erano avversari in sede politica). Sovvertendo le linee dinamiche reali, Dante fa dei Romani dei vendicatori cristiani: il che rappresenta un’idea priva di fondamento. Solo una convenienza ideologica posteriore può portare a simile convinzione. Laddove nel Cristianesimo regnava simile visione emerge un modello orwelliano: chi controlla il presente stabilisce le verità storiche del passato. Così accade in detta terzina, la quale converte, al di fuori di una base di obiettività, i Romani vincitori della prima guerra giudaica in antisemiti. Dante esibisce razzismo spiritualista nella veste di chiave di lettura storica, la quale lettura, purtroppo per lui, risulta unicamente figlia di nevrosi. L’autore della “Divina Commedia” non nutre simpatia nei confronti degli Ebrei, e come osservato valuta giusto, rispetto a un metro religioso cristiano, farli oggetto di violenza repressiva. Però questa non era la prospettiva di Roma, la quale reprimeva l’insubordinazione di chiunque in quanto puro atto di ostilità a prescindere dalle motivazioni. Queste in Dante vengono ingigantite, e il rifiuto del dominio romano viene orwellianamente confuso col rifiuto del Messia cristiano. Si tratta di due discorsi diversi, i cui piani nel Cristianesimo vengono, in seguito a convenienza sovrapposti. Ma questa che ne viene fuori è propaganda antisemita, come quella dantesca, e non frutto di una corretta metodologia storiografica. Vediamo quindi la guisa in cui nel cosiddetto Sommo Poeta gli scheletri vengano fuori dell’armadio. Tornano, sempre nel “Purgatorio”, in mostra topoi antisemiti patristici presenti nell’omiletica di Giovanni Crisostomo, quelli dei Giudei inclini alla golosità e al bere3: «li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, / per che no i volle Gedeon compagni». Siamo nella sesta cornice dei golosi quando si rammenta ciò: il che non sembra casuale, ma seguente una linea di antisemitismo attraversante la “Commedia”. Infatti Dante, trovandosi in tale cornice, ha detto in precedenza: «Ecco / la gente che perdé Ierusalemme, / quando Maria nel figlio diè di becco!». I Giudei peccatori irrecuperabili nella seconda cantica sopravvivono formalmente, dacché destinati a non superare la Giudecca infernale (la possibilità ebraica di salvezza eterna appartiene a credenti in Cristo venturo e venuto). Qui nel “Purgatorio” il poeta fiorentino usa una perifrasi per indicarli, gli sconfitti della Prima guerra giudaica, e per indicare di riflesso la categoria dei golosi. La conclusione di tale terzina evoca una donna ebrea la quale si nutrì con la carne del figlio durante detto conflitto. I golosi della sesta cornice appaiono figure gravemente anoressiche, segnale del patologico apprezzamento del digiuno da parte di quel lungo Cristianesimo di prima originale maniera. Io non credo che l’autore della “Divina Commedia” si serva della perifrasi testé indicata al fine di accostare le immagini dei penitenti e quelle dei Giudei affamati e assediati dai Romani. Reputo all’opposto che l’intenzione di significato sia negativa in direzione antisemita, e che quella perifrasi voglia introdurre un discorso del genere: ecco la categoria dei golosi, peccatori della stessa specie degli Ebrei, avvezzi alla gola e al bere; i quali pur di soddisfare i propri impulsi corporali sono in grado di cibarsi della carne di un essere umano, come nel caso di questa Maria col figlio. Una donna che si mangia il figlio è più exemplum di golosità che figura di donna denutrita. La mia impressione è che Dante voglia dire: gli Ebrei mangiano i bambini. Una cosa di questo tipo sarà poi attribuita tra le maldicenze ai comunisti moderni. “La Civiltà Cattolica” (vedasi il numero 1736 – 21 ottobre 1922) spiegherà che il comunismo sovietico è impastato di e da Giudei. Sospetto che quest’altra calunnia di cannibalismo possa avere un’origine diversa dall’Holodomor, considerato che dove ci sono genti ebraiche i piccoli rischiano di finire quale pietanza. Secondo me la lettura patristica, con Giovanni Crisostomo, della terzina dantesca adesso in esame, è la più pertinente. Io penso che la via di lettura dolcificante porti fuori strada, giacché se c’è nella “Commedia” un passo con ombra di antigiudaismo il quale si può appieno esplicitare in tal senso, l’evidenza raggiunta fuga i dubbi in virtù della contestualizzazione. Nel suo famoso poema lo scrittore fiorentino non fa sfoggio di eccessiva delicatezza. Proprio nell’ultimo cerchio dell’inferno strappa i capelli a Bocca degli Abati con sadica aggressività; ancor prima ci aveva informati che il diavolo Barbariccia «avea del cul fatto trombetta»; e nel “Purgatorio” ci parla, in un perimetro misogino patristico, di una donna balbuziente (la «femmina balba») aggredita da Virgilio e di una vagina maleolente: «L’altra prendea, e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre; quel mi svegliò col puzzo che n’uscia». Che al cosiddetto Sommo Poeta non si possa attribuire quanto poco fa ho valutato omogeneo alla sua possibile intenzione, non mi sembra accettabile. Dante non si mostra affatto lontano da forme di comunicazione radicale. Due terzine del “Paradiso” mettono in vetrina gli orwelliani ragionamenti del Cristianesimo: «Però d’un atto uscir cose diverse: / ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte; / per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse. / Non ti dee oramai parer più forte, / quando si dice che giusta vendetta / poscia vengiata fu da giusta corte». La Passione del Messia viene vista in una duplice contraddittoria ottica. Da un lato è concepita quale necessario passaggio di redenzione dell’umanità, dall’altro viene inquadrata in modo tale da colpevolizzare i deicidi Ebrei con intenso astio. Al punto di affermare la liceità di una punizione a carico degli attori Giudei. Qual è qui la logica legittimante l’accanimento contro genti ritenute strumento il quale consentì la letteraria Passione cristiana? Tutto si avvolge nella più orwelliana delle contraddizioni, nel doublethink. I Romani non possono essere accusati di deicidio, per necessità teologico-politiche; rimangono sulla scena solo le genti ebraiche, su cui, per esigenza dinamica e narrativa, scaricare il compito di promuovere l’uccisione di Gesù. Ciò è indispensabile al disegno redentivo. Come si fa a prendersela con qualcuno giocoforza rimasto incastrato nelle costruzioni della teologia del Cristianesimo? Soltanto una nevrosi irrazionalistica può partorire simile doublethink, rilevato in queste due terzine della terza cantica. Pensare che chi ha ricevuto quel ruolo evangelico di causa prossima della morte di Gesù, in una guisa cristiana ineluttabile, sia nella realtà poi imputabile di un atto (letterario), come se fosse stato libero di scegliere la sua parte nella vicenda, rappresenta un procedimento mentale degno di “1984”. Eppure Dante si impelaga nel doublethink, elevandolo a spiegazione teologica, nella quale si nota ancora una volta che usare la violenza sul popolo giudaico, spinti da motivazioni di risentimento religioso, appare qualcosa di ammissibile e praticabile. La categoria dei perfidi Iudaei scaturisce da contorte esigenze teologiche e narrative, obbligatorie nei confronti dei cristiani, i cui insani frutti tuttavia vengono addossati agli Ebrei, attraverso la conversione di quelle necessità di edificazione in nevrotiche (per i cristiani) colpe estreme compiute da persone dipinte libere, però intrappolate senza scampo nel recinto concettuale della nuova religio del Cristianesimo. Ai Giudei non si può in alcun modo, con obiettività e razionalità, attribuire nessun deicidio. La finzione letteraria evangelica ha animato uno dei più tragici fenomeni della Civiltà occidentale, quell’antisemitismo il quale già prima della Shoah e della sua versione pseudobiologica assunse i connotati di crimine contro l’umanità a causa di estensione e intensione.
 
 
NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Studi illuministi”
 
1 Parricidio dantesco (2021), cui rinvio per ogni approfondimento di altri temi qua evocati.
 
2 Oscurantismo e irrazionalismo del Cristianesimo in Tertulliano (2023), da pag. 21.
 
3 Vedasi nel mio studio intitolato Le radici cristiane dell’antisemitismo presente nella mia monografia Studi illuministi (2024).