di
DANILO CARUSO
“Frankenstein;
or, the modern Prometheus” è un romanzo molto famoso, il cui immaginario è
diffuso fra la gente soprattutto attraverso più o meno libere trasposizioni
filmiche, le quali quasi tutte hanno finito col distorcere completamente il
significato originario del testo. Infatti un errore abbastanza comune proviene
dal chiamare Frankenstein il mostro e non il suo creatore, per non dire della
presumibile diffusa non concreta lettura di quest’opera di Mary Shelley (1797-1851).
Il racconto al contrario dell’alone orrorifico che lo circonda possiede
profondissimi significati, solo un lettore impreparato non può coglierne lo
spessore, così arricchendo la schiera di chi di questo romanzo costituisce in
modo diretto o indiretto fruitore inadeguato. Che sia un capolavoro della
letteratura universale non tutti sono in grado di capirlo da sé qualora non
abbiano qualificate capacità critiche e analitiche. Voglio iniziare mettendo in
evidenza quello che mi è parso un pregio formale: la presenza di più livelli
narrativi. Nell’ordine: Robert Walton parla di Frankenstein, questo racconta
del mostro, costui dice delle sue esperienze. Poi questo gioco di matriosche
riannoda tutti i fili sul finale della narrazione. Si tratta, sotto il riguardo
della forma, di un apprezzabile sviluppo letterario. A proposito della sostanza
il testo possiede un’anima illuministica e una facciata romantica. Questa non è
una dicotomia anomala presso i coniugi Shelley (Percy e Mary) giacché
l’irrequietezza e l’oscillazione concettuale nel marito (un difensore della
giustizia sociale, pacifista e sostenitore del poliamore) erano più vive. La
persona più ordinata nella creatività letteraria è lei. La quale va a indagare,
forse non del tutto consapevole del taglio psicanalitico raggiunto, nel
profondo della psiche. Un dettaglio al principio del romanzo, una
considerazione del protagonista, evoca un concetto leopardiano: il piacere
della rimembranza (del ricordo di cose passate nella propria vita). Il romanzo
shelleyano pur poggiando il suo telaio ideologico sullo spirito dell’Illuminismo
ci riporta più indietro sino ad Aristotele. Il mostro racconta al suo creatore
la sua evoluzione mentale dopo la personale venuta al mondo chiarendogli che
egli ha appreso a parlare in maniera simile a quanto Agostino d’Ippona dice di
sé nelle “Confessiones”. Il mostro, in breve puntualizza a Frankenstein di
essere ζῷον λόγον ἔχων, di aver posseduto dunque già congenite delle strutture
biopsichiche che lo predisponevano all’apprendimento del linguaggio (e tramite
esso lo avrebbero inserito nella rete sociale). E non soltanto al possesso di
un impianto logico analitico si limita la personalità di quella creatura, egli
sa inoltre apprezzare il bello nelle sue forme ancor prima di maturare una
coscienza morale. L’accoppiata Verità e Bellezza è tipica del Romanticismo (pensiamo
a Keats o all’idealismo schellinghiano), e colloca in secondo piano a volte la tensione
pratica (centrale nell’idealismo fichtiano o nella dimensione politica
concreta). In verità comprendiamo che nel romanzo il mostro rispecchia
un’originaria sostanza rousseauiana, vale a dire che questo è buono per Natura.
Dalla positività del suo essere derivano le congenite facoltà di legarsi agli
altri simili (umani). La sua ingenuità, semplicità di partenza gli rendono
molto misteriose e di difficile comprensione le ingiustizie sociali (la
discriminazione, la povertà, etc.). Rimane disorientato di fronte al vedere
compiersi di due simili prospettive: quella del bene e quella del male, e non
unicamente della prima. Da spunti di simile riflessione nel romanzo si apre un
livello di analisi psicanalitico. Ovviamente si tratta al tempo di Mary Shelley
di una disciplina ancora non formatasi. Tuttavia nel testo soggiace alle
considerazioni filosofiche varie una stratificazione junghiana la quale non è
del tutto aliena dall’intuizione dell’autrice inglese (figlia di un filosofo
progressista radicale e di una intellettuale femminista di primo piano). È la stessa scrittrice
a chiarire, al di là di tutto, la sua direzione redazionale nell’introduzione
all’edizione definitiva (e ritoccata) del “Frankenstein” del 1831 (il romanzo
era stato licenziato alla fine del 1817 divenendo subito famoso nella prima
versione pubblicata nel 1818, al punto di sollecitare in seguito questo scritto
introduttivo e di delucidazione sugli aspetti genetici). Mary Shelley ci dice
di aver voluto creare un’opera letteraria dando seguito a una sua inquieta
fantastica e immaginifica visione notturna ispiratrice dell’incipit del noto
romanzo. Dalla sua immersione nell’Inconscio assoluto ella ha tratto dei
simboli, i quali ha poi innestato nel testo assieme alla trama. La molteplicità
di lettura simbolica rappresenta la ricchezza dell’opera, la quale in maniera
intuitiva ha dentro di sé sovrapposto quei piani. Tale intersezione concettuale
si nota in modo esemplare laddove il mostro esprime il suo convincimento che la
morte possa essere l’unico antidoto al malessere e al disagio dell’anima: qui
si intrecciano pensieri di Leopardi, Schopenhauer, culminanti in una pulsione
all’autodistruzione (Freud). Nel testo non manca neanche un accenno
all’emancipazione femminile (una posizione di derivazione più che altro
materna, accanto ai personali convincimenti). Il mostro matura nel corso della
sua evoluzione un’etica utilitaristica: esprime la sua rousseauiana
predilezione in favore del bene rifiutando l’opposto, e collega le due idee a
quelle di piacere e di dolore (Bentham). La ricchezza e la profondità del
romanzo spingono la creatura di Frankenstein alla volta di una heideggeriana
riflessione esistenzialistica. La stessa prospettiva-della-morte, su ricordata,
può anche raggiungere l’essere-per-la-morte di Heidegger. Di tale filosofo, in
relazione al mostro, è altresì il caso di rammentare il concetto di
“gettatezza” (il trovarsi a essere-nel-mondo senza saperne il perché, da dove
veniamo e dove andiamo: queste sono precise domande di quella creatura). La
creazione di Frankenstein attraversa e vive un enorme disagio, e non di certo
all’inizio a causa sua, nel relazionarsi con altri esseri intelligenti: gli
altri per lui diventano un inferno (Sartre) a causa del rifiuto proveniente da
questi. Egli, perciò, essere molto sensibile e coscienzioso, rigettato dal
consorzio sociale soltanto per via del suo mostruoso aspetto, delibera di
entrare in conflitto con gli uomini (a cominciare dal suo creatore). Le sue
naturali bontà e pacificità vengono meno nel momento dell’interrelazione con
simili intelligenti. Questa situazione sofferta dal mostro di Frankenstein in
aggiunta a rappresentare il superamento della sua primordiale fase rousseauiana
ci indica come secondo il pensatore ginevrino sia l’aggregazione sociale
post-naturale a generare un deterioramento comportamentale nei singoli. Che
Frankenstein sia di Ginevra, al pari di Rousseau, sembra un caso, stando alla
spiegazione di Mary Shelley, per cui l’origine ginevrina del protagonista del
suo romanzo abbia tratto spunto dal soggiorno svizzero degli Shelley in
compagnia di Byron. In quel contesto nacque l’idea programmatica del testo in
esame, la cui concreta intenzione redazionale fu poi decisamente spronata dal
marito dell’autrice inglese. Nonostante ciò non parlerei di circostanza
accidentale nella scelta della città di Ginevra nel libro, sono più propenso a
pensare a una di quelle strane coincidenze che creano interessanti
accostamenti. Una sincronicità junghiana, direi. Del resto anche quella visione
di inquietudine contemplata e poi descritta nell’introduzione del ’31 non pare
tanto consuetudinaria. Come detto, si rivela una manifestazione dell’Inconscio
impersonale, di cui cogliere nell’elaborazione narrativa del romanzo shelleyano
tutte le sfumature di significato, in quella sede ulteriormente integrata dalla
scrittrice. Il mostro, il quale è diventato vegano (imitando i coniugi Shelley)
a testimonianza della sua sensibilità originaria, manifesta il desiderio al suo
creatore di avere una compagna. Qui il testo rammenta un po’ l’Adamo biblico, però
se ci soffermiamo con attenzione intravediamo la più radicale intuizione della
struttura bipolare dell’Universo, di cui la dicotomia maschile/femminile
costituisce l’aspetto biologico. Tale prospettiva è stata ripresa da Jung nella
psicologia analitica, e di junghiano nel romanzo ve n’è parecchio. Tutta la
vicenda raccontata si mostra un’allegoria del “processo di individuazione”,
cioè di quella auspicata maturazione di un equilibrio all’interno della
personale psiche il quale ponga armonia tra l’Io e ogni cosa rimanente.
Frankenstein simboleggia il complesso dell’Io, la creazione del mostro
rappresenta la rivelazione della sua possibilità di libero agire (in tedesco il verbo “frankieren” significa “affrancare”). L’azione in
libertà ha davanti a sé un bivio: il Bene e il Male. Il libero agire, per
essere tale non può sopprimere la potenza (possibilità) del Male. Se sottraiamo
un parco di scelte, tagliamo fette di libertà: ma ciò non vuol dire che quelle
pessime deleterie suggestioni debbano prendere campo. Quest’insieme torbido che
l’animo umano si trova davanti viene chiamato da Jung Ombra. Senza Ombra non ci
sarebbe libertà piena, e senza coscienza “teorica”di essa non c’è catarsi dal
Male. Frankenstein (l’Io) cade nell’Ombra (il mostro). La creatura di lui ci fa
vedere il comportamento della libertà nelle relazioni intersoggettive: come può
oscillare il pendolo dell’agire fra il Bene e il Male. Cadere in balia di
quest’ultimo non conduce all’“individuazione junghiana”, non porta con sé pace
né benessere interiore. L’errore di Frankenstein è stato quello di non aver
valutato appieno i pro e i contro del suo progetto creativo, le possibili
conseguenze, e tutto ciò costituisce la causa della sua rovina. Non si è
fermato sulla soglia di una catarsi immateriale, vissuta alla guisa tragica
aristotelica. Egli ha portato la propria libertà fino a toccare entrambi gli
estremi del Bene e del Male. Benché il mostro sia il motivo della mancata
“individuazione” nel suo apparire una personificazione dell’Ombra, all’interno
della trama narrativa egli assume significati molteplici e non sempre negativi.
Infatti era buono per Natura: farsi una giustizia sui generis, anticipando il
personaggio del Conte di Montecristo, non costituiva una intenzione di
partenza. La sua indole, i suoi talenti naturali non gli meritavano un
pregiudiziale disprezzo. Nel quadro analitico junghiano del romanzo shelleyano
notiamo la presenza, in relazione al personaggio di Frankenstein, dell’“anima
junghiana”, idest la controparte sessuale della psiche personale nel corso del
cui approccio l’Inconscio collettivo può dischiudersi nei confronti del singolo
soggetto e a dar luogo alla “personalità mana”. Il raggiungimento di una
coscienza dell’“anima” (“animus” nel caso di una donna) è una tappa del
processo di individuazione, e la “personalità mana” incarna il
soggetto-di-potere (in senso lato, a partire dalla sfera del magico).
Frankenstein è una sorta di Faust, un geniale scienziato che varca le colonne
d’Ercole della Natura. Oltre alle quali consuma il proprio naufragio. Il
fallimento della sua “individuazione” viene raffigurato nel romanzo nella
simbolica uccisione di Elizabeth, la sua sposa, la quale costituisce il simbolo
dell’“anima junghiana”. Il mostro deluso dalla mancata promessa del suo
creatore di dargli una compagna, dopo aver peraltro subito il ripudio da parte
della società umana, decide di applicare un contrappasso. Qui non compare
“semplice” vendetta: tutto si sviluppa con effetto domino quale conseguenza di
una libertà, quella di Frankenstein, mal gestita. Se non avesse creato il
mostro, non sarebbe successo niente. Se gli avesse dato una compagna, il ciclo
delle vittime si sarebbe fermato. Nell’opera di Mary Shelley risiede un quid di
tragico greco: l’uomo sbaglia (il complesso dell’Io), la divinità lo punisce
(l’Inconscio impersonale). Lo punisce a torto o a ragione? È il dilemma del
“moderno Prometeo”. Nel finale del romanzo, tra l’altro, si accenna brevemente
a un tema che poi riprenderà Schopenhauer: quello della visione in sogno di
defunti. Il filosofo di Danzica spiegherà che nel sonno il nostro sistema di
conoscenza e di percezione del mondo fenomenico è come sotto anestesia e
durante questo momento si può insinuare il metafenomenico. Schopenhauer ha colto
molto di psicanalitico nella sua “voluntas”, antenata della futura variamente
teorizzata poi “libido”. Ha pure capito che l’Inconscio assoluto può
manifestarsi in forme simboliche laddove il lucido controllo della razionalità
sia temporaneamente (o meno) spento. In conclusione del testo l’autrice inglese
richiama ancora l’etica utilitaristica la quale prevede la diffusione del
benessere quanto più per estensione e intensione, mirando al contempo alla riduzione
del malessere in tutte le sue forme. Lo sbaglio di Frankenstein a monte è
risieduto in un errore, una lacuna di riflessione. Non ha capito gli effetti
collaterali del suo operato creativo, che il mostro sebbene buono per Natura
poteva essere corrotto nel corso del relazionarsi con altri simili
intelligenti. La naturale vocazione di quest’ultimo al Bene e al Bello è stata
indelebilmente mortificata tramutandosi in un arroccamento negli altrui
confronti distruttivo. Questo è il dramma della libertà che non anticipa i
difetti, che non evita il male. In fin dei conti la creatura di Frankenstein
rimane vittima della propria “gettatezza”, di una delusione nei riguardi di
legittime aspettative, di una mortificazione che non lui ha provocato. Il suo
creatore è stato punito con dantesco contrappasso. Entrambi vengono risucchiati
dall’autodistruzione la quale come un turbine prende queste tragiche figure
“greche”. L’uomo è sì libero, ma la libertà da miele può convertirsi nel
peggior veleno. Tale è il significato della curva narrativa di questo
pregevolissimo romanzo appeso al filo della letteratura universale con tante
pinze concettuali. Il mostro di Frankenstein chiude la sua parabola di vita,
dopo il decesso del suo creatore, come un goethiano anti-Werther, i cui
desideri ammettevano radicale legittimità. Si proietta in una morte romantica
nella sua apparenza, ma heideggeriana nella sua sostanza. Soltanto questa può
risanare ogni cosa, “liberandolo” alla volta della non-imperfezione, in
direzione della totalità priva di sofferenza. Le trasposizioni filmiche non
hanno affatto giovato alla comprensione profonda del testo, l’hanno relegato in
secondo piano. E nel momento in cui lo si vuol apprezzare sul serio queste
appaiono perlopiù fuorvianti, specialmente se poste nelle aspettative
preliminari. A proposito di ciò ci sono un paio di cose da dire.
1) Nel romanzo non esiste nessun Igor che assiste
Frankenstein.
2) Il testo definitivo non mantiene neanche il
minimo dettaglio su come la creatura sia stata prodotta. È la prefazione di
Mary Shelley del ’31 a parlare adesso di galvanismo, di ridare la vita a un
corpo morto costituito dalla composizione di parti di provenienza diversa. Simili soppressi
dettagli della prima versione vengono quindi contenuti in un segmento
accidentale, di cui tuttavia l’immaginario non è rimasto privo nelle imbeccate
che hanno forgiato film. Sembra che la scrittrice inglese alla lunga si sia
voluta cautelare dall’essere superficialmente travisata e dal fatto che
Frankenstein passi come lo “scienziato pazzo” piuttosto che quale “alchimista
junghiano”. E in relazione a quest’ultimo aspetto, quello realmente saliente
nel romanzo, voglio aggiungere un altro paio di osservazioni inerenti a delle
descrizioni estetiche contenute nell’opera letteraria esaminata le quali mi
hanno fatto venire in mente due dipinti. Nel testo parla Frankenstein.
1)
Un primo brano, il quale però compare solo nell’edizione del 1831 (ma ciò non
assume rilievo), rispecchia “il cervo ferito” di Frida Kahlo (del 1946):
l’analogia visiva e spirituale appare sorprendente, tanto che la definirei una
sincronicità metatemporale fondata su qualcosa di simbolico uscito dall’Inconscio
collettivo.
2)
Così come altrettanto impressionante appare un secondo brano poco più avanti
(stavolta già presente nella prima versione del romanzo, dettaglio fondamentale)
il quale riproduce la scena del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich,
un quadro realizzato nel 1818, lo stesso anno in cui uscì la pubblicazione
shelleyana. Pure qui direi di una sincronicità junghiana: quello del dipinto
pare proprio il protagonista del testo nello scenario là descritto.
Nel
privilegiare le connotazioni orrorifiche di quest’opera di Mary Shelley si è
smarrita, a mio avviso, la strada maestra di un’adeguata ermeneutica. Fra i
film apprezzo “Frankenstein Junior”,
una “umoristica” trasposizione di un contenuto da tragedia. Dalla volontà di
fare una parodia (momento hegeliano tetico) attraverso il filtraggio del
contenuto tragico (momento antitetico) è venuta fuori una bella realizzazione “pirandelliana”
(risultato sintetico).
NOTA
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Percorsi critici”
https://www.academia.edu/44476394/Percorsi_critici
https://www.academia.edu/44476394/Percorsi_critici