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domenica 19 dicembre 2010

L’ICONA DELL’ODIGITRIA A LERCARA FRIDDI

di DANILO CARUSO

La lastra di pietra con il graffito di Maria Odigitria (che indica la Via, Cristo) è, a Lercara, dal 1807, anno del ritrovamento da parte dell’undicenne Oliva Baccarella, oggetto di grande venerazione.
Chi originariamente ci dà notizia stabile della scoperta di Oliva è un manoscritto del Lercarese Marcello Furitano (1829-92), che ha attinto indubbiamente alle per lui recenti tradizioni orali. Il racconto ci dice che l’icona è stata trovata nei pressi del torrente degli oleandri: questa ha avuto un edotto committente e con buona probabilità è credibile che sin dal 1734 (data della sua fattura) fosse legata a Lercara, tanto da immaginare che costui fosse in quel periodo in paese.
Conosciamo chi ha realizzato – e quando – l’immagine perché c’è scritto sopra: Mercurio Ricotta.
A Lercara il culto di santi orientali, dopo i miei studi sulle chiese riconducibili all’orma dei Lercari, è un fenomeno che non stupisce più. L’humus su cui si poteva sovrapporre la devozione alla Madonna di Costantinopoli nel ’700 è questo, ed il nostro graffito poteva stare tranquillamente in una di quelle chiese (san Gregorio Taumaturgo, sant’Anna, san Gregorio Patriarca d’Armenia).
Niente di strano che da detti edifici, diroccati ed abbandonati, qualche piccolo arredo sacro andasse perduto (pensiamo al salvataggio in extremis dei dipinti posti in queste chiese): l’immagine al nostro esame sembra in più incisa su un concio di costruzione.
Il confronto della nostra icona con il quadro dell’Odigitria che si trova a Bari fa evidenziare notevoli differenze: la Madonna barese (la tela fu ridimensionata) era seduta su un trono, la Nostra è in piedi sotto un baldacchino tenuto da quattro angioletti.
La conclusione risultante è che non ci siano diretti legami né sostanziali né formali, vale a dire che la quantomeno settecentesca ipotizzata presenza lercarese avrebbe avuto una causa prossima situata altrove e mediatrice.
La Madonna Odigitria in altri casi è raffigurata in una pala del 1526 dipinta da Pier Francesco Sacchi avente collocazione in una chiesa di Genova, in un quadro di Bernardo Strozzi (1581-1644) in una di Rapallo, e in un disegno di Aurelio Lomi fatto mentre si trovava tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600 nel capoluogo ligure.
Lo spunto per queste rappresentazioni ha la sua sorgente nel fatto che dei monaci basiliani furono nel 1308-1650 a Genova tenendo in principio la chiesa di san Bartolomeo degli Armeni: questi erano esuli, come i Lercari, a causa dell’invasione turca dall’Armenia, regione che fu nella sfera d’influenza bizantina. La tradizione vuole che coloro che nel 733 portarono la primigenia immagine di Maria Santissima di Costantinopoli a Bari furono proprio dei basiliani.
Il comune modello figurativo riprodotto da Aurelio Lomi (la Vergine con il Figlio emergenti da una cassa portata a spalla da due monaci) si è radicato nella Cristianità occidentale, particolarmente nel sud Italia, dal termine del XVI sec., ed è stato più volte ripreso da Gaspare Bazzano – Zoppo di Gangi. La nostra rappresentazione di Maria Santissima con in braccio Gesù Bambino sotto un baldacchino è molto probabilmente la riproposizione del tema del corteo processionale che vedrebbe appunto sotto un baldacchino l’icona costantinopolitana. Questa specificità, che del resto de facto si attualizza ogni 20 agosto, è indice di un diretto legame, anche se mediato, con la causa remota ed originaria bizantina.
Il cerchio si chiude: ha centro a Costantinopoli, e la circonferenza passa da Genova a Lercara.
I Lercari, fondatori di Lercara Friddi, famiglia genovese provenuta dall’Armenia, sono la causa prossima che cercavamo grazie alle chiese in precedenza menzionate. È molto verosimile che il graffito lercarese – che è del 1734 – sia stato commissionato da un rettore di una di queste tre chiese nell’anno millenario (1733) dall’arrivo in Puglia del ritratto che si attribuiva all’evangelista san Luca. Non escludo che questo graffito potesse riprodurre la scena di un dipinto coevo all’epoca dei Lercari: di tre tele lercaresi dello Zoppo di Gangi, oggi non più esistenti, ignoriamo i soggetti.
Nell’archivio parrocchiale di Lercara non esistono memorie che parlano di Oliva Baccarella e di quel 1807 – si dice che ve ne fosse stata una (scomparsa) sulla benedizione delle campane della chiesa della Madonna di Costantinopoli –, comunque questo archivio è stato ugualmente utile.
Un altro versante delle mie ricerche ha ricostruito lo schema genealogico dei Baccarella a ritroso da Oliva al loro arrivo a Lercara nel ’600, il paese da cui sono venuti è Prizzi: capostipiti locali Cosimo (n. 1626) e Francesca.
Oliva Natala Felicia Baccarella fu battezzata il 18/10/1795 da Don Nicola Franzino, padrini Filippo e Felicia Caltabellotta, e cresimata durante le confermazioni che furono amministrate il 2/3 maggio 1809; da quest’ultimo momento si perdono le sue notizie: non morì a Lercara Friddi.
È da notare la presenza in paese di un Don Stefano Baccarella (n. 1661, non era di Lercara – m. 7/6/1746, sepolto nel Duomo), ignoro se fosse un loro parente.
Le chiese a Lercara scomparse nel tempo sono quattro: 1) san Gregorio patriarca d’Armenia (edificata da Leonello Lercaro tra il 1573 ed il 1580), 2) Madonna del Rosario (edificata da Baldassare Gomez de Amezcua tra il 1595 ed il 1604), 3) sant’Anna (edificata da Francesca Lercaro tra il 1605 ed il 1610), 4) san Gregorio Taumaturgo (edificata da Raffaella Lercaro de Amezcua tra il 1627 ed il 1640) / san Nicolò (comparsa tra il 1740 ed il 1747) / san Gregorio Taumaturgo “lo Novo” (comparsa prima del 1811).
La cronaca dell’abbandono della Chiesa del Rosario è nota poiché risale al Novecento, ed anche quella relativa a san Gregorio “lo Novo” che una frana colpì nel 1850. Perché san Gregorio di Via dei martiri e sant’Anna si fossero perse, al di là del fatto di essere state centri di due modelli di sviluppo urbano diversi e passati che furono accantonati con la signoria degli Scammacca (sorte urbanistica che toccò pure alla Chiesa del Rosario), non mi era molto chiaro: si trattava pur sempre di edifici di culto attivi nel ’600 e nel ’700, e se ci aggiungiamo la prima fase di san Gregorio Taumaturgo constatiamo un segnale di crescita ed un tentativo di diffusione della spiritualità cristiano-orientale. Mi pare possibile ritenere verosimile l’ipotesi che queste tre chiese, ricondotte dalle mie analisi all’impronta dei Lercari (portatori di questo tipo di religiosità), potessero essere probabilmente cattoliche di rito greco (e non latino). È lecito pensare che i Lercari fossero di rito bizantino(-armeno?) dato che Francesca Lercaro sposò il barone de Amezcua secondo tale formula: quest’aspetto apparentemente accidentale è, sotto questo profilo, molto significativo perché ci suggerisce quella che doveva essere una loro tradizione familiare, che, dopo il mio studio sulla loro famiglia (dalle origini armene alla fondazione di Lercara Friddi), è apparsa per più versi legata alla Cristianità d’oriente. Possono dunque esserci state a Lercara tre chiese di rito greco (senza che la cosa possa stupire), il cui abbandono forse indicherebbe latentemente nella loro specificità rituale la causa del fenomeno.
Non si pensi che queste tre chiese in questione si siano disintegrate tutte rapidamente nel ’700 lasciando solo ruderi poi rimossi nei secoli successivi: se questo può apparentemente valere per san Gregorio patriarca d’Armenia e sant’Anna – proseguendo sulla base dell’intuizione della possibile presenza del rito bizantino a Lercara sin dalle sue origini – lo stesso non può dirsi della Chiesa di san Gregorio Taumaturgo. Questa ebbe tre fasi e la seconda iniziata tra il 1740 ed il 1747 contempla un patronato di san Nicolò (o Nicola) di Mira (comunemente inteso di Bari). San Nicola non sembra spuntare a caso: questo santo visse in Licia nella prima metà del IV secolo; dal 1087 le sue reliquie si trovano a Bari (ne è patrono); fu venerato come un grande taumaturgo; si racconta che al Concilio di Nicea del 325 avesse schiaffeggiato Ario (nel quadro più antico a Lercara, il “san Gregorio patriarca d’Armenia”, oggi nella Chiesa di san Matteo, c’è scritto un pensiero di san Basilio Magno contro l’arianesimo). Non c’è contrasto con san Gregorio Taumaturgo, appare una continuità nel genere di spiritualità. Questa, a mio avviso, è anche il sostrato per l’inserimento nel nostro contesto dell’icona riproducente la Madonna di Costantinopoli. Non sembra così comparire inspiegabilmente, e niente ci impedirebbe di pensare a forme devozionali pregresse: volendo utilizzare dei concetti del beato Giovanni Duns Scoto si direbbe che a Lercara le presenze del presunto rito greco (che si sarebbe accompagnato a quello latino delle altre chiese locali) e di una evidente religiosità cristiano-orientale sono la quidditas da postulare da cui si potesse puntualizzare la haecceitas dell’immagine all’Odigitria.
La superficie di questa lastra di pietra si presenta scabra e non levigata, addirittura all’incirca nella sua metà orizzontale un leggero solco l’attraversa. Il graffito è impercettibile (escludendo la scritta): questo spiega il perché della sovrapposizione di una pittura. Le dimensioni di altezza e larghezza di questa pietra sono abbastanza consistenti. I bordi sono irregolari se si fa eccezione per quelli di destra e di sinistra: l’immagine è inquadrata in questo spazio (la lastra così, com’è, è stata probabilmente ricavata prima del graffito: la circoscrizione di questo bordo non ortogonale non lo intacca perché evidentemente è anteriore). L’inquadramento dell’icona in un rettangolo poteva consentire la presentazione di un’immagine dal contorno ortogonale con l’apposizione di una cornice (cosa effettivamente realizzata dopo il suo ritrovamento del 1807, quindi è lecito pensarlo praticamente possibile anche dal 1734). Il 3 di questo 1734 scolpito nella sua parte inferiore non fuoriesce dall’inquadratura ed è graficamente un po’ incompleto nella parte bassa pur – a pietra scoperta – essendoci largo: è come se Mercurio Ricotta avesse graffito l’icona già incorniciata nel suo spazio. Poteva essere un concio non destinato originariamente a tale destinazione di supporto artistico, ma visibile nella sua apparenza ortogonale in una nicchia di chiesa. Per un graffito ci voleva una superficie levigata e liscia, però se una nicchia presentava quella descritta non c’era niente da fare: chi l’ha fatto scolpire avrebbe voluto poter arricchire una chiesa. L’icona reca la scritta del titolo della Madonna in volgare per rendere comprensibile l’immagine come in un altare per i fedeli. Il fatto che ci siano abbreviazioni in tutte le scritte testimonia l’obbligo di ricavare l’icona su quella pietra ed in determinati spazi (prassi tipica di un lavoro su commissione): in più c’è persino una correzione, prima del nome Mercurio, un buco di cancellatura molto vistoso che probabilmente ne provocò l’abbreviazione. Il graffito in origine doveva presumibilmente essere stato un lavoro molto raffinato, e di una certa fragilità; la quale negli anni, dopo la sua possibile perdita dal patrimonio della chiesa in cui si poteva trovare – essendo questo esposto all’incuria –, causò un processo di progressivo deterioramento che richiese successivamente il restauro creativo di Giacomo Marchiolo.
Partendo dal principio che a Lercara nel ’700 il concetto dell’Odigitria fosse troppo raffinato per essere stato espresso da un popolano, ho ritenuto nella ricerca del possibile committente dell’icona che costui fosse strettamente legato alla religione, e procedendo alla circoscrizione dei possibili soggetti che si siano potuti rendere protagonisti di ciò ho individuato 1) una famiglia e 2) un religioso.

1) Gli IMBORDINO, un gruppo familiare molto diffuso a Piana degli Albanesi, presenti a Lercara tra l’inizio del ’600 ed il ’700, furono una famiglia da cui nacquero un sacerdote ROSARIO GIOACCHINO (Lercara, 27-9-1695 / altrove, 29-7-1768) ed una suora COSTANZA ELISABETTA (Lercara, 26-10-1699 / 30-11-1771): il padre DOMENICO (di Bartolomeo, nato a Lercara nel 1633, e Costanza) aveva qui sposato il 7-9-1694 Maria Nuccio (n. 1667, di Antonio ed Elisabetta) proveniente da Ciminna. Per quanto attiene a quella parte della loro onomastica orientaleggiante, ai nomi Bartolomeo e Gioacchino, non mi sembra fuor di luogo pensare che essa mostri apparenti significativi riflessi che si legano al mio discorso, se poniamo attenzione al fatto che colui (di cognome “Bollaro”) che fu padrino di battessimo di ROSARIO GIOACCHINO IMBORDINO (con la madre di lui) avesse un nome slavo (“Casimiro”) di tradizione cattolica: san Bartolomeo fu martirizzato in Armenia; san Gioacchino era il marito di sant’Anna, ed entrambi erano i genitori della Madonna. Mi hanno spinto maggiormente a legare le mie successive analisi alla storia di Piana degli Albanesi (la cui comunità dalle sue origini è stata di rito greco):
α) l’aver lì rinvenuto le chiese della Madonna Odigitria (patronale, è del 1644) e di san Nicolò o Nicola di Mira;
β) l’aver qua a Lercara rintracciato oltre agli Imbordino la presenza di altre famiglie originarie di Piana. Questa colonia formatasi a Lercara credibilmente poté essere attratta in modo determinante dalla quidditas di cui ho già parlato, conditio sine qua non è facilmente giustificabile. La reviviscenza bizantina testimoniata dalla fase di san Nicolò porterebbe a queste famiglie ed ad eventuali altri pertinenti soggetti (cattolici di rito greco, emigrati da paesi dell’odierna diocesi greco-cattolica in Sicilia e loro discendenti).
Gli Albanesi erano stati profughi a partire dal ’400 in seguito all’invasione della propria patria da parte dei Turchi Ottomani e si erano stabiliti nelle seguenti colonie (in cui eressero, tra l’altro, chiese dedicate a san Nicolò di Mira e monasteri d’osservanza  basiliana): Piana dei Greci, Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano, Santa Cristina Gela nell’attuale provincia di Palermo, e San Michele di Ganzaria in quella di Catania.
Ho ricercato l’onomastica delle famiglie appartenenti ai gruppi greco-albanesi in Sicilia ed ho condotto un raffronto con quella della popolazione lercarese tra la fine del ’600 e la prima metà del ’700 per mezzo dei cataloghi contenuti in a) Nicolò Sangiorgio / I cognomi a Lercara Friddi – dal 1685 al 1716 desunti dal registro dei matrimoni della Parrocchia “Maria SS. della Neve” / Palermo 2006 e per mezzo delle dichiarazioni di proprietà e redditi dei Lercaresi nel 1747 riportati in b) Giuseppe Mavaro / Lercara «città nuova» / Palermo 1984.
Le conclusioni emerse da questo raffronto da me operato dimostrano una più che probabile immigrazione da quasi tutte le colonie albanesi, le quali seguivano tradizionalmente il patrio rito greco. Per cui l’idea di tale rito a Lercara, nata come intuizione, si riveste di una forma maggiormente sostanziale.
Nella prima metà del ’700 il 7% circa dei Lercaresi (dai riveli del 1747: 118 unità, 41 famiglie) poteva essere di rito bizantino.



2) Il sacerdote GIUSEPPE BADALATO (1702 / Lercara, 10-9-1789) fu rettore della chiesa di san Nicolò a Lercara. Il suo cognome potrebbe essere d’origine greca: Βαδουλάτον. Non so se anche lui possa essere riconducibile a Piana degli Albanesi, tuttavia sembra inseribile in questo particolare contesto di religiosità orientale.

L’icona della Madonna di Costantinopoli: per chi, perché (il tema della causa finale)? I precedenti punti 1) e 2) a questo punto della mia analisi disegnano l’identikit del potenziale committente che andavo cercando nelle persone dei sacerdoti Rosario Imbordino e Giuseppe Badalato, cioè di coloro che avessero più degli altri, secondo me, i requisiti richiesti per operare quell’atto:
α′) essere un religioso (un sacerdote più che una suora, l’avere a che fare con Mercurio Ricotta non le si addice dato il suo stato),
β′) piuttosto che un laico (se c’è in un gruppo un sacerdote, per una simile faccenda, costui ha un primato pratico d’autorità e competenza),
γ′) portatore di caratteri religiosi cristiano-orientali (stando alle informazioni: Rosario Imbordino avrebbe un canale preferenziale con Piana degli Albanesi e Giuseppe Badalato la reggenza della locale Chiesa di san Nicolò),
δ′) presente con altri di omogeneo sentire da rendere fruitori dell’icona: il senso della commissione, a prescindere da una precisa individuazione dell’autore, starebbe nella fruizione dell’immagine, fruizione come momento di richiamo religioso ma anche come strumento d’identificazione culturale dei membri di un insieme, il che renderebbe pure comprensibile la comparsa di quest’opera d’arte sacra nel 1734 a Lercara Friddi.

L’esserci specificato chiaramente il non per noi comune titolo della Madonna che è raffigurata in questo graffito mostrerebbe queste funzioni semiotiche accanto alla rievocazione che questo disegno farebbe dell’idea di una processione a Costantinopoli sotto un baldacchino della tela dell’Odigitria oggi barese. Giuseppe Badalato risulta presente a Lercara quantomeno dal 1727, Rosario Imbordino invece lasciò il paese in una data imprecisata.
L’idea di legare la lastra col graffito della Madonna di Costantinopoli all’ambito culturale siculo-albanese era stata avanzata anni addietro dallo storico locale Rosario Sceusa: vedasi il suo interessante studio pubblicato sul bollettino di Cartastampata n. u. set.-ott. 1997 dal titolo “La comunità lercarese custode di una antichissima tradizione” in cui affermava che «è da ritenere […] che l’immagine sia giunta a Lercara col bagaglio di qualcuno dei componenti le famiglie greco-albanesi dei Petta, Cuccia e Guzzetta. A tal proposito è da ricordare che la bella chiesa di Piana degli Albanesi dedicata a Santa Maria Hodigitria […] è stata interamente edificata per la munificenza dei coniugi Lorenzo e Paolina Petta».
Queste parole contenevano meritevolmente la rilevazione di due notevoli aspetti di questa storia (ossia l’insediamento di famiglie d’origine albanese a Lercara ed il loro legame con l’Odigitria).
Dal canto mio ho condotto l’indagine diversamente partendo temporalmente da lontano e da un’altra angolazione: dai Lercari (di provenienza armena) fondatori del paese e di tre chiese, per giungere da quest’altra via alla postulazione dell’esistenza in loco del rito bizantino, il quale giustificava in quest’ottica la mia posteriore constatazione – che non era nuova, ma come visto già nota – dell’immigrazione di discendenti dei Greco-albanesi di Sicilia a Lercara. Io sono partito dal concetto di un committente locale dell’immagine (non da un suo ingresso materiale da fuori del paese come portato immigratorio) e dall’interno sono andato verso l’esterno ampliando il campo d’analisi.
In occasione di dialogo col dott. Sceusa sull’argomento costui fu poi molto cortese nell’informarmi della presenza a Lercara ad inizio ’800 di un papas cattolico: Giuseppe Cuccia, suocero di Baldassare Massaro (n. 1790, di Filippo e Anna Mavaro).
Da questo preziosissimo spunto allora trovai un ulteriore elemento per rafforzare il mio postulato sul fatto che fossero esistite in paese chiese greco-cattoliche.
Intrapresi dunque una nuova fase investigativa, e scoprii su questo papas Giuseppe Cuccia che:
1) era di Mezzojuso;
2) non era inserito nel locale sillabo ufficiale dei sacerdoti a o di Lercara (forse perché questo sillabo riguardava quelli di rito latino);
3) fu maestro di scuola a Lercara dal 1781 ad una data imprecisata (sino al 1785 è accertato): si può ipotizzare che fosse venuto a Lercara per la chiesa di san Nicolò e che lasciasse il paese in seguito alla di essa distruzione;
4) fu parroco a La Valletta nel 1789-96: nell’anno d’inizio di questo periodo il 10 settembre 1789 a Lercara morì il sacerdote Giuseppe Badalato (rettore di san Nicolò);
5) era presente nelle dichiarazioni dei redditi di Lercaresi nel 1811: forse ritornò a Lercara in seguito alla comparsa della chiesa di san Gregorio Taumaturgo (“lo novo”);
6) dopo la morte dell’arciprete Stefano Lorenzo Petta, avvenuta il 6 gennaio 1820, ritornò a fare il parroco a La Valletta nel periodo 1820-21.

Proseguendo nella personale ricerca mi chiedevo quali fattori avessero potuto generare l’ultimo periodo della Chiesa di san Gregorio Taumaturgo (“lo Novo”: già attestata nel 1811), dopo il patronato di san Nicolò, sempre nello stesso analogo versante di spiritualità cristiano-orientale.
Quest’ultima fase – come suggerirebbe Baruch Spinoza – esige in quanto effetto una causa omogenea, cioè ancora una volta un gruppo religioso in linea con queste particolari radici di Lercara (piantate dai fondatori e da cui non si può prescindere come condizione generale) e di stampo e tradizione più o meno albanesi.
È possibile che il papas Cuccia potesse essere preposto a san Gregorio Taumaturgo “lo Novo” ultimo retaggio del rito greco? Non sembra un’ipotesi assurda (questa chiesa andò in rovina nel 1850 a causa di una frana). Quello che si nota è che a cavallo tra ’700 ed ’800 si fosse cercato di sostenere quella religiosità cattolica di stampo orientale che Lercara portava da sempre con sé.
Ricercando ancora oltre nel passato ho ricostruito una particolare topografia genealogica comparata che spazia ab 1734 (anno di realizzazione dell’icona da parte di Mercurio Ricotta) ad 1807 (anno del rinvenimento da parte di Oliva Baccarella): ho notato che Oliva è in qualche modo legata ad un ordito di cui è componente il papas Cuccia, il cui genero Baldassare Giuseppe Ireneo è certo che nel 1831 abitasse nella zona dell’odierno “quartiere di Costantinopoli” (lo stesso di Oliva, e dove oggi c’è la chiesa che custodisce l’icona).



Leggiamo ed analizziamo criticamente dal manoscritto di Marcello Furitano (1829-92) il testo che la riguarda.
«L’anno 1807 una cittadina di nome Oliva Baccarella portatasi a fare il proprio bucato nel burrone, detto delli Landri, rinvenne una pietra a forma di lastra con graffita l’effigie di Maria SS.ma sotto un baldacchino, sorretto da quattro angeli e recante la scritta: “la Mad.na di Costantinopoli – Mercurio Ricotta – 1734”. La Baccarella piena di giubilo trasportò quella pietra in Lercara ed invogliò i suoi conterranei a festeggiare quella solennità. Fu quindi stabilita una festa popolare religiosa pel 20 agosto d’ogni anno, dedicandola a Maria SS.ma sotto il titolo di Costantinopoli. Era in quei tempi una festa di ragazzi e femminucce del quartiere, ma nel 1840 una deputazione di villici iniziò la fabbrica d’una piccola chiesa per il culto di quella solennità, che poi, con l’andar del tempo, venne ingrandita e d’allora la festa cominciò a celebrarsi con grande pompa e decoro da divenire la principale del paese […]. [da “G. Canale / Lercara Friddi / 1965” pagg. 51-52]»
Il racconto del Furitano fa intendere che Oliva Baccarella fosse sola fuori del paese al momento del ritrovamento (perché non parla di altri) e che l’icona fosse stata trovata sull’asciutto nei pressi del torrente degli oleandri (non specifica una provenienza dall’acqua). Che fosse sola, nell’ottica di questa narrazione, mi pare evidente allorquando si dice che ella, non con altri (di cui appunto il Furitano non parla), abbia portato l’immagine in paese; però qui questa versione diventa un po’ incomprensibile:
1) l’estrazione della lastra graffita (e poi a fine ’800 dipinta) nell’estate del 2007 – durante il restauro della chiesa – dal muro in cui era infissa mi ha consentito di vedere che aveva uno spessore di circa cinque centimetri, il che farebbe stimare il suo peso su una trentina di chili: l’undicenne Oliva era in grado di compiere con le sue singole capacità fisiche questa operazione di trasporto per giunta in un percorso non indifferente?
2) Poi il racconto attribuisce a lei una capacità di comprensione superiore alla media: sapeva leggere e si è resa veramente conto del significato dell’immagine religiosa, come è narrato, tanto da coinvolgere degli altri? (Ed anche una curiosità: tra i ragazzi della primigenia festa di quartiere c’era pure Baldassare Massaro, futuro genero del papas Cuccia e residente in quel quartiere nel 1831?)
Se la chiesa della Madonna di Costantinopoli sorse trentatré anni dopo il rinvenimento dell’effigie ad opera di semplici cittadini ciò dimostra un atteggiamento di qualche cautela del clero locale di fronte all’evento: se fosse sorta sotto l’arcipretura (1788-1820) di Don Stefano Lorenzo Petta si sarebbe potuto pensare ad una sua regia in tutta la faccenda del presunto miracolo, ma questo è nettamente smentito dagli stessi fatti.
Nel 1807 non ci sono stati inoltre immediati vantaggi economici provocati dal ritrovamento, e ciò ci fa escludere qualsiasi ipotesi di una losca regia di opportunisti. Perché dunque rinvenire l’immagine dell’Odigitria quoquo modo se non allo scopo di salvaguardare e promuovere la spiritualità religiosa?
Non ci sono ragionevoli motivazioni per scartare l’ipotesi del miracolo: questo studio è stato elaborato anche per offrire il più lucido quadro storico ad una inchiesta ecclesiastica che unica può risolvere la quaestio de supernaturalitate nel rinvenimento del giovedì 20 agosto 1807 (il martirologio ricorda san Zaccheo); sin quando non ci sarà una sentenza del genere la tradizione popolare che parla di miracolo va rispettata e curata.
Dopo l’evento del 1807 una nicchia con l’icona dell’Odigitria ritrovata venne impiantata sul punto in cui poi sarà costruita la chiesa dedicata a Maria Santissima di Costantinopoli; se quest’area di periferia non era ricadente all’interno di un terreno di pertinenza del Massaro citato vi si trovava a ridosso: la vecchia via Giardino Massaro rievoca il fatto che questa famiglia fosse in quella zona proprietaria di immobili.
Quello spazio allora era extraurbano e non circondato da abitazioni, tant’è che la chiesa per un breve periodo non ebbe addossate delle case fin quando l’espansione urbanistica non la raggiunse nella metà dell’Ottocento.
Si tramanda che quella nicchia fosse stata posta nelle vicinanze della residenza di Oliva Baccarella, ma perché a centinaia di metri di distanza dal centro abitato?
Le ipotesi possono essere diverse.

Interno della chiesa della Madonna di Costantinopoli


Ma volgiamo l’attenzione su un quadro esposto nella sacrestia del Duomo di Lercara Friddi rappresentante la Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina.
L’opera, di metà Ottocento, era di proprietà della famiglia Giordano (che risiedeva nel “rione di Costantinopoli”) e successivamente fu messa nella chiesa della Madonna di Costantinopoli (quindi – come detto – è stata trasferita nella Matrice).
In questa tela si nota in basso al centro una sezione che circoscrive una immagine allusiva; ci sono: una chiesa raffigurata in assonometria, un sacerdote rivolto verso un campagnolo e tre bestie.
Questo insieme rinvierebbe alla festività autunnale lercarese della “Madonna delle mezze sementi”, la cosa che colpisce particolarmente è che la chiesa dipinta potrebbe rappresentare con qualche variante quella di Maria Santissima di Costantinopoli, subito dopo la sua erezione, non circondata da case.

Particolare del dipinto Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina


Di questa chiesa si tramanda che il campanile fosse stato costruito in un secondo momento e che vi fosse una memoria dell’epoca (smarrita) sulla cerimonia di benedizione della campana.
Tuttavia è possibile ricostruirne i passaggi liturgici stando alle norme prescrittive in materia.
L’avvenimento dovrebbe essersi svolto intorno al 1850 sotto l’arcipretura (1824-53) di Don Gaspare Giglio.
Il rito della benedizione si svolse verosimilmente all’interno della chiesa poiché il cerimoniale consigliava un luogo appartato e chiuso.
La campana forse pendeva da un sostegno al vertice di tre pali di legno congiunti a mo’ di spigoli di piramide terminanti a terra su una base triangolare, in modo che la sua cavità interiore fosse raggiungibile.
Forse qualche serto floreale o di fogliame la ornava.
Non si può dire se ci siano stati dei padrini – come nel battesimo – i quali peraltro questa liturgia non prevede.
Iniziata la cerimonia l’arciprete di Lercara recitò i sette salmi previsti conclusi ognuno dal “Gloria Patri”: 1) MISERERE (per il pentimento); 2) DEUS, IN NOMINE TUO (per la riconoscenza); 3) MISERERE MEI DEUS, MISERERE (per la richiesta d’aiuto); 4) DEUS MISEREATUR (per l’accoglimento della Grazia); 5) DEUS IN ADJUTORIUM (per la richiesta di sostegno); 6) INCLINA DOMINE (per l’elogio della solerzia nell’adorazione); 7) DE PROFUNDIS (per la purificazione delle anime purganti).
Durante una speciale preghiera benedisse la campana.
Dopo aver benedetto inoltre il turibolo con l’incenso seguirono due fasi accompagnate dal canto: l’aspersione con l’acqua santa e l’incensatura, il tutto muovendosi attorno alla campana.
Alla fine dopo un’altra speciale preghiera le impose un segno di croce.