di
DANILO CARUSO
La
sensuale artista Frida Kahlo (1907-1954) nacque in Messico al tempo del cambio
sociale rivoluzionario antiborghese. Donna di indole energica, sposò – due
volte, la prima nel ’29 – il famoso muralista Diego Rivera (1886-1957), un
comunista in auge nel panorama culturale di quel Paese latinoamericano (e che
poi aiuterà Trotzkij in fuga). Le vicende biografiche di lei e della futura
coppia (la colomba e l’elefante, li soprannominò la
contrariata cattolica madre della pittrice), alimentate da dolorosi passaggi,
hanno elevato la Khalo a emblema di tenace vitalità. È possibile interpretare
l’opera pittorica fridiana usufruendo di strumenti analitici provenienti da
letteratura e psicologia. Negli elaborati di Frida ci si imbatte – di più nel cosiddetto
“diario” (se escludiamo le lettere e altri testi di carattere esclusivamente verbale)
– nella presenza di parole le quali entrano in simbiosi con la rappresentazione,
ma si tratta sempre di un’immagine complessiva di alta qualità lirica. In
seguito al molto traumatico scontro stradale che la coinvolse la giovane Kahlo (che
voleva fare il medico, e che mostrava già interesse alla “vita”) comprese l’opportunità,
prospettatale dal padre fotografo, di esprimere, in potenti figurazioni,
l’universo della sua interiorità provata. Per Frida la pittura costituisce la
scelta di un linguaggio immediato agli occhi degli spettatori (un linguaggio
comunque non semplicistico), una forma semiotica tra le basilari della Civiltà
occidentale (la cui idea dell’essere-delle-cose si lega al “visto”). Definirla
una “poetessa dell’immagine” è un esito cui sono stato indotto da una serie di considerazioni.
L’accostamento di un paio di miei componimenti poetici (scritti intorno al 2004,
quando ancora non mi interessavo di lei) con un suo dipinto (“Ciò che l’acqua mi ha dato”, datato 1938) e una sua annotazione
lirica dal diario (dedicata al marito) ha fatto maturare un particolare
percorso di lettura estetica all’interno del quale ho potuto cogliere delle
tangenze concettuali.
De
anima
(versi endecasillabi sciolti)
L’anima mia è come un lago:
molte sono le cose galleggiantevi,
il cielo è la maglia di un ragno:
il suo fondo rimane insondato.
Nel
quadro domina la presenza dell’acqua, metafora figurativa di un’arché psichica (elemento
distintivo del disordine originario adottato da cosmogonie antiche). Il
significato dell’opera è analogo a quello dei miei versi. La vasca da bagno costituisce
il bacino del lago su cui galleggiano i vissuti. Se ne vedono
alcuni importanti puntualizzati che riguardano le sfere personale (eros e
thanatos), familiare, mondana; colpisce però la “realtà” concreta del piede
destro per via del deficit rimastole a causa di una – in apparenza – poliomielite
infantile (in età adulta nel 1953 metà della gamba le sarà amputata). Di sicuro
lo stile apparirà – nel caso di tutta la produzione kahloista – quello del
Surrealismo teorizzato da Breton, il quale apprezzò la pittrice messicana includendola
nel novero degli artisti del “surreale”. Ma egli commetteva l’errore, spiegato
dalla stessa Frida, di non intuire il senso interiore e reale di un fare arte
che del sogno aveva solo l’abito, e per giunta di forte spessore psicologico, dato
il legame nella fase elaborativa dei contenuti con le vicissitudini. I problemi
alla spina dorsale, di cui testimonianza vivissima “La colonna spezzata” del
’44, si acutizzeranno nell’ultimo decennio di vita: in detto dipinto ella
utilizzò il simbolo di una colonna ionica danneggiata. L’autenticità della
Kahlo, eccellente di per sé (a suo dire i surrealisti conosciuti a Parigi nel
’39 erano sgradevoli), rimane infatti
insondata sul fondo della vasca (dove
lei si trova). La sua maglia del ragno
è l’attrattiva mediante la quale ha intrappolato gli ammiratori di ogni epoca.
Estasi (versi liberi)
Magia di un momento,
fusione, ricongiungimento cosmico,
contemplazione reciproca,
chenosi di animi,
incrocio di libido.
Unus alterae,
altera uni.
E duobus unum.
Dal
“diario” di Frida Kahlo
Diego, principio
Diego, constructor
Diego, mi niño
Diego, mi novio
Diego, pintor
Diego, mi amante
Diego, mi esposo
Diego, mi amigo
Diego, mi padre
Diego, mi madre
Diego, mi hijo
Diego, yo
Diego, universo
Diversidad en la unidad
¿Por qué lo llamo Mi Diego? Nunca fue ni será
mío. Es de él mismo.
I temi
strutturali della lirica al marito muralista li ho in ugual maniera ritrovati
nella mia poesia: il procedere della fusione
nel componimento fridiano ha principio
con Diego, e continua con una
sequenza di determinazioni di tale “sostanza” a guisa di categorie essenziali
del suo essere, sequenza culminante nel ricongiungimento
cosmico dei versi «Diego, yo / Diego, universo». Un’atmosfera metafisica e
mistica circonda tutta questa notazione poetica, la quale proietta in modo
simile al mio verseggiare, alla volta, ma non solo, di un piano di spiritualità
filosofica appartenuta al Romanticismo tedesco di Hegel e Schopenhauer: vedasi l’unione
di opposti in un terzo attraverso una sintesi e la fuga dall’empirico dell’io
che si fa io puro contemplante (non
dimentichiamo che il padre di Frida era un Ebreo ungherese cresciuto in
Germania). La a) «Diversidad» b) «en la unidad» è argomento molto complesso
rivisto nei miei versi a) «Unus alterae, altera uni» e b) «E duobus unum». Qui
essi mostrano soprattutto un fondo platonico rievocante il mito dell’androgino narrato
da Aristofane nel “Simposio”. Nel fascino esercitato dalla Kahlo risalta
prepotentemente la grazia androgina. Durante il suo vivere – come reazione alla
condotta fedifraga del marito – ella intrattenne rapporti amorosi con uomini e
donne (tra costoro il profugo Trotzkij, teorico della rivolta proletaria
globale, braccato dai sicari di Stalin). Questo complesso di fattori, a mio
avviso, indica in Saffo un’equivalente estetico – fatte salve tutte le distanze
individuali, culturali e storiche – dell’artista messicana. I metri artistici
saffico e fridiano sono parificabili: le esperienze e l’esistenza sono al
centro della loro weiliana attenzione, entrambe rappresentano il proprio
sentire. L’“Autoritratto con i capelli tagliati” (1940), risalente al temporaneo
periodo in cui la Kahlo si separò da Rivera, esprime ad esempio la medesima
matrice di disagio del frammento 31 (edizione Voigt) che fa percepire nella sua
fisiologia il turbamento saffico. Il lesbismo (un cui frutto è “Due nudi nel
bosco” del ’51) la accomuna ancora alla “decima Musa”, e la Casa azul, nella quale abitò, si
trasforma in una sorta di tiaso (vi passarono i citati Breton e Trotzkij). Addirittura
lei stessa richiama Saffo, nel ’49 in un testo critico su Diego, affermando che
costui avrebbe ottenuto una lieta ospitalità presso l’isola “lesbica”. L’attribuzione
a una tipologia di simbolismo esistenziale di tutta l’opera kahloista non pare
dunque arbitraria. Ha invece esagerato tanto chi ha innalzato Frida a un dio, e
ne ha fondato persino un culto religioso. Si tratta di un’assurdità la quale
non ha niente a che spartire con un approccio serio e ragionevole alla
creatività, al pensiero e alla biografia di questa pittrice: l’orientamento
politico marxista (negli anni Venti il marito la raffigurò in camicia rossa che
dà fucili al proletariato sul murale “Distribuzione delle armi”) e quello
religioso ateo-panteista sarebbero stati validi motivi di rifiuto di una cosa
del genere. Sembra chiaro in tale fatto ne abbiano distorto la figura,
difficile parlare di fraintendimento. La morte di Frida Kahlo si vela del
sospetto di un’eutanasia. Il tema della sofferenza si rivela centrale, ma non
esclusivo, nei suoi quadri. La sua esistenza fu la più dinamica possibile
nonostante vari aborti, una trentina di interventi chirurgici (conseguenza
dell’incidente quand’era diciottenne) e l’ulteriore ipotesi di una malattia
congenita. L’ultimo lavoro, completato in prossimità della scomparsa, contiene
scritto l’emblematico titolo: “VIVA LA VIDA”. Oggi lei appare inoltre un’icona
del femminismo (a tal proposito si veda “Qualche piccola punzecchiatura”, datato
1935, ispirato da un omicidio), tuttavia sarebbe stata la prima a non gradire l’essere
deificata. Si è d’altro canto adoperata, accanto all’individuale catarsi dal
malessere (grazie alla sublimazione artistica, di cui exemplum, dopo un penoso
aborto spontaneo, “Henry Ford Hospital” del ’32) per un progetto apologetico
del suo ego che definirei di narcisismo
scientifico. Dipingendo la propria grande personalità in non pochi, intensi
e significativi autoritratti, la Kahlo ha fatto giustizia nei confronti dei
suoi problemi (uno fu il marito che la tradì anche con una sorella). Di questi
“Le due Frida” (1939), dove ella mette in campo uno sdoppiamento interiore, è tra
i più particolari e belli. Se guardiamo quella foto in cui lei sta alla
sinistra del quadro, notiamo un movimento dialettico hegeliano di tesi-antitesi-sintesi;
da destra: la Frida amata, la Frida lasciata da Rivera e la Frida reale (provenuta
dall’esperienza del divorzio). La scissione, adottante due modelli di abbigliarsi
(uno tipico messicano, uno europeo), ne rievoca altresì l’origine mista: il
nonno paterno era ungherese, quello materno indio (più dettagliata la
genealogia nel precedente “I miei nonni, i miei genitori e io”). Il suo narcisismo non ha un valore negativo;
forse qualificare la voglia di vivere e di emergere in questa maniera sarà
improprio, però nella circostanza della Khalo la dimensione estetica risulta
visibile, e la sua positività risiede nella vocazione intellettuale. Spregevole
quel narcisismo, utopistico, di chi sul vuoto costruisce velleità disarmate: il
Narciso del mito era bello, e per i Greci il bello era pure una virtù. Il bello
fridiano è una virtù nell’arte e nella vita. Nella produzione artistica non
esiste il brutto, chi asserisce brutto un elaborato si contraddice: o quella
non è un’opera d’arte (e perciò non è capace di condurci al bello) o chi
giudica rimane vincolato al criterio del “piacevole” senza elevarsi al
comprendere l’artisticità e il bello. Oltre alle mie due piccole tangenze
poetiche col mondo di Frida, piacevole la scoperta che, come me, indulgesse a
giochi verbali (lei nelle lettere) impastando lingue diverse: senza dubbio un
sintomo di vivacità mentale. La stessa che la portò a formarsi una coscienza
politica e a militare nelle file comuniste. Il suo desiderio di personale
sanità e di benessere universale, in un cosmo che Simone Weil voleva non
sistematicamente pervaso dalla Provvidenza divina (ma vittima dell’intrinseco
meccanicismo), si trasferisce, con quello slancio che la contemporanea filosofa
francese vedeva nella paritetica forza evocatrice dell’ideale comunicato al
prodotto artistico, in uno degli ultimi dipinti dal provocatorio titolo, quasi
profetico, pieno dell’umano calore che ha l’immagine: “Il marxismo guarirà gli infermi”. Alle spalle un volto di Marx, lei
gettate le stampelle – in un anticipo di quella che vogliamo credere vera
beatitudine – si regge in piedi da sola.