Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

giovedì 11 maggio 2017

UN ROMANZO “ALCHEMICO” DI CLIVE STAPLES LEWIS

di DANILO CARUSO

Materialism is in fact no protection.
Those who seek it in that hope
(they are not a negligible class)
will be disappointed.

Clive Staples Lewis, “That hideous strength”


“That hideous strength (1945)” è il testo che conclude la cosmic trilogy di Clive Staples Lewis. Le istanze e i temi svolti nei precedenti due vi trovano una prosecuzione. Questo libro, ambientato in Inghilterra, ha una trama che ricalca, a eccezione del finale, un iter distopico. Protagonisti principali sono due giovani sposi, una coppia in cui il marito è professore universitario: Jane e Mark Studdock. Costui viene attirato a far parte del N.I.C.E. (National Institute of Co-ordinated Experiments) allo scopo di poter così avvicinarne la moglie e di convincerla a mettersi al servizio di un segreto cacoutopico progetto di riorganizzazione dell’umanità che tale ente, all’insaputa dell’opinione pubblica, sta cercando di portare avanti. Il NICE è infatti la copertura ufficiale mediante cui una ristrettissima e deviata élite intellettuale vorrebbe realizzare un nuovo modo di esistenza umana1. Detto piccolo gruppo sostiene di fronte a Mark delle idee le quali in alcuni brani del romanzo intrecciano un modello composto di diversi aspetti distopici2: l’eugenetica, il condizionamento formativo sulla falsa riga del “Brave New World” (Dick Devine alias Lord Feverstone nel cap. II); la manipolazione, a opera di una coesa oligarchia filototalitaria, dell’informazione pubblica alla maniera – ventura – di “1984” (cui Mark è indotto nel cap. V da Miss Hardcastle); un non precisato procedimento di correzione dei criminali in mano alla giustizia che pare un nebuloso preludio del sistema di “A clockwork orange” (Miss Hardcastle nel cap. III); un panlogismo più esagerato di quello della distopia zamjatiniana in “Noi”. Quest’ultimo tratto è quello saliente nel racconto di Lewis. Nel cap. IV è il Reverendo Straik a esporre al giovane Studdock la visione distopica animante il NICE. Nella sua veste di religioso, gli parla dell’avvento di una nuova razionalità a guida dell’umanità. Egli la identifica nella figura di Gesù Cristo, e chiama «Kingdom of God [Regno di Dio]» questo futuro prossimo assetto. Dal pensiero di Straik possiamo comprendere la meccanica psicologica della grande nevrosi sottostante alla convinzione di tutti quelli prodigatisi a promuovere con ogni mezzo il primato di un deleterio Logos. Ci rendiamo conto qui che il personaggio letterario di Gesù, il Verbo incarnato di Dio, non è altro che un simbolo junghiano di una deviazione nevrotica che ha fatto degenerare la funzione della razionalità, nella sua relazione con l’essere umano, in una condizione di squilibrio, di quasi completo isolamento nei riguardi di tutto l’arco costitutivo psichico individuale. Se si persegue simile cammino, il logos (la ragione), in qualsiasi orizzonte venga a collocarsi il tragitto (da quello più religioso a quello più anticlericale: dal Cristianesimo al comunismo), diventerà lo strumento operativo di qualcosa sfuggito a un sano controllo mentale alla volta della più compiuta irrazionalità. Il Reverendo Straik è l’espressione di questo smarrimento. Ovunque si perde l’equilibrio psichico sorgono problemi di adattamento a una migliore superiore “normalità”. Egli si perde appunto dentro la nebbia di un folle ideale che coglie la presenza e la volontà di Dio nelle manifestazioni più eccellenti della razionalità. Portare il panlogismo alle sue estreme conseguenze equivale ai suoi occhi ad accelerare la venuta del Regno di Dio sulla Terra, con conseguenti premi e castighi eterni da distribuire a tutti. Straik nel cap. VI sostiene una posizione che mostra tangenze col cosmismo. La tematica junghiana inerente alla dialettica “razionalità/irrazionalità” si accompagna in “That hideous strength” all’elaborazione di un maggiore tessuto narrativo dove contenuti nevralgici possono essere ricondotti a significative categorie interpretative della psicologia analitica di Jung. Come anticipato sopra, il piano del NICE necessita dell’asservimento di Jane Studdock. Il motivo sta nel fatto che ella ha il potere della veggenza. Questo è un lato che attira l’attenzione sulle qualità della “femminilità” cui Lewis ha dato spazio di riflessione in “Perelandra”. Nell’ultimo libro della trilogia la materia indagata nel precedente viene ulteriormente chiarita. Qua centrale si rivela il “processo di individuazione” illustrato da Jung, al punto che è possibile definire “That hideous strength” un romanzo alchemico. Jane e Mark, sebbene siano dei letterari soggetti umani, rappresentano “anima” e “animus” junghiani, i quali alla fine del racconto chiuderanno il percorso narrativo con una sizigia. È indubbio che costoro siano, nel contesto dell’opera lewisiana, oltre che simboli alchemici altresì delle persone dotate di un “complesso dell’Io”: pertanto le loro vicende evolutive personali attraversano delle dinamiche junghiane contemplanti quelle dialettiche tra l’Io e l’“anima” o l’“animus” a seconda del sesso del soggetto. Che l’argomento del “femminile” sia ancora, come in “Perelandra”, uno tra quelli portanti lo testimonia il paragone che si può instaurare tra Miss Hardcastle, soprannominata «Fairy [Fata, Maga]», e Jane. Nella prima la “femminilità” è stata prosciugata da una maschile razionalità malata, e della donna non resta che una rude corteccia esteriore. L’azione di un logos chiuso in sé ha disgregato l’equilibrio dell’essere femminile in direzione di un soggetto che non è “donna”. Un sottile monito attraversa “That hideous strength”. In più parti l’autore rievoca un’idea che a primo impatto potrebbe apparire maschilista e disorientare un lettore non propenso ad accogliere un cliché regressista. Lewis parla, in qualche modo, di una subordinazione del “femminile”, di Jane, da auspicarsi nei confronti del “maschile”, di Mark. In effetti, nei brani pertinenti, una interpretazione superficiale potrebbe arenarsi su quella che apparirebbe un’ingannevole forma mentis maschilista di stampo paolino. Credo che il valore concettuale di quelle parole lewisiane sia posto in un livello più profondo di quella ambigua facciata. A mio avviso, lo scrittore, nell’ambito di una architettura narrativa e simbolica junghiana, non ha voluto esprimere un ordine gerarchico di genere biologico, ma nel contesto del campo delle funzioni razionali dell’individuo ha indicato, in maniera figurata, ciò che dovrebbe essere il rimedio alla nevrosi maschilista al centro della promozione di un Verbo il quale esclude una essenziale e complementare componente. Se su un piano di simbolici concetti astratti il “maschile” è la “razionalità”, ritengo che Lewis stia sostenendo che essa non può andare in subordine del “sentimento”, ossia del “femminile”. D’altro canto appare altrettanto chiaro che le due funzioni dell’asse psichico della razionalità, non potendo funzionare bene isolandosi, debbano mettersi in collaborazione. In tal senso il “lume della ragione” ha un primato, il quale non si può generalizzare sulla base dell’identità sessuale giacché, come sosteneva Platone, tutti (uomini e donne) partecipano del logos. Anzi si può dire che siano soprattutto gli uomini a rinunziare a questa partecipazione. Lewis nel romanzo non sostiene un pensiero antiquato e maschilista. Laddove si esprime in una guisa che sembra apparire equivoca sostiene in realtà una sana idea. Egli non sta negando alle donne la possibilità di uguaglianza di diritti con gli uomini: è lecito che queste possano esercitare tutte le professioni. Tuttavia, sta sottolineando sottilmente qualcosa che se colto nel verso, che a me pare giusto, rivela una riflessione di grande saggezza. Le donne possono assumere tutti i ruoli svolti nella società dagli uomini, ma sarebbe un errore pensare un bene che la “donna” si metta a fare l’“uomo”: allora si ha l’aberrazione della violenta Miss Hardcastle3. Un soggetto femminile ha la precipua potenzialità della maternità che lo differenzia in maniera inequivocabile da uno di genere maschile. In virtù di ciò, quantunque sia lecito e doveroso assicurare la parità di diritti, non si può ragionare di una perfetta specularità ontologica. E questo non vuol costituire negativo motivo pregiudiziale o discriminante, tutt’altro. Compito delle donne è generare (in concorso) altri esseri viventi, la più alta e più nobile missione naturale del “sentimento”. Obiettivi di una “razionalità maschile” convertitasi in irrazionalità diventano quelli di imprigionarli in un sistema totalitario e di ucciderli. La storia umana testimonia largamente la diffusione di queste vocazioni nevrotiche laddove il corretto esercizio della ragione ha ceduto il passo a quella che Jung ha chiamato “ombra”. I peggiori comportamenti dell’umanità si rivestono dell’abito “maschile”: se le donne sono madri, gli uomini sono uccisori. È innegabile che la quasi totalità di coloro che abbiano torturato o ucciso un essere umano siano maschi. Ciò fa capire che la razionalità non è un fattore di genere. In “That hideous strength” riemerge lo spirito dell’antropologia greca antica allorché Jane, al suo primo contatto con l’ambiente del filologo Elwin Ransom, si ritiene trattata alla stregua di una bambina. Siffatto errore di valutazione della Grecità antica viene superato da Lewis attraverso una riformulazione junghiana superante gli squilibri di genere promossi nella pratica da un distorto schema più o meno in auge. Nel cap. VII, quando Jane Studdock dialoga con Elwin Ransom nella di lui stanza («Blue Room», dominata dal blu alchemico4) alla villa di St. Anne’s on the Hill) il ragionamento sopra esposto è la materia del loro confronto. Il filologo rivolge simili parole a una perplessa e disorientata Jane: « Bambina […] non è una questione di come tu o io consideriamo il matrimonio ma di come i miei Elohiym [Masters] lo giudicano. […] Loro non sono retrogradi: ma sono di gran lunga all’antica. […] Loro direbbero […] che tu non vieni meno all’obbedienza a causa della mancanza d’amore, ma che hai perso l’amore perché non cercavi mai l’obbedienza. […] Nessuno ti ha mai detto che l’obbedienza – l’umiltà – è una necessità erotica [erotic necessity]. Tu stai mettendo l’uguaglianza proprio dove non sarebbe necessario che sia». La personalità di Jane nel romanzo rispecchia in maniera esemplare connotati tipici del “femminile”. Ella, oltre a rappresentare la funzione del “sentimento”, è una donna “intuitiva” nell’accezione più profonda del termine poiché grazie ai suoi sogni può accedere alla visione di eventi lontani da lei. L’oligarchia del NICE vorrebbe trascinarla dalla sua parte. Alcuni suoi membri sono in contatto con delle intelligenze extraterrestri superiori, le quali Lewis denomina «macrobes [macrobi; vocabolo opposto di microbi]». Ne parla, in maniera esplicita, a Mark, la prima volta, Augustus Frost nel cap. XII, però già nel precedente cap. VIII l’altro professore, l’Italiano Filostrato («the great physiologist»), aveva anticipato al protagonista maschile del racconto lewisiano la distopia di un’esistenza umana svincolata dalla forma organica. Il disegno della suddetta cerchia mira a unificare il potere espresso dai macrobi con quello di un risvegliando dalla tomba Mago Merlino: Jane sarebbe servita allo scopo di rintracciare con le sue indicazioni paranormali il mitico Merlinus Ambrosius. Da parte sua, invece, il gruppo capeggiato da Ransom si prefigge di impedire il compimento di questo progetto e di portare Merlino invece nello schieramento antidistopico. La struttura del romanzo lewisiano mostra in questi ulteriori simboli lo svolgimento di precise dinamiche da intendersi alla luce della psicologia analitica di Jung. La dicotomia “razionale/irrazionale”, della quale si è fatto cenno su, è quella che presiede alla dialettica tra le fazioni menzionate. I macrobi, nelle parole di Frost enti non dotati di un corpo, cui l’umanità nuova dovrebbe tendere, al di fuori del loro significato letterario e simbolico rinviano a dei modelli di comportamento che sono delle nevrosi (le quali in relazione all’“ombra” definisco archetipi negativi). L’«orrenda energia» che dà il titolo al libro è quella dell’“ombra” junghiana, da cui Mark Studdock (rappresentante della “ragione” tentata) nel corso degli eventi narrativi si allontanerà liberandosi grazie a un sempre più maturo esercizio della libertà personale. Nel momento in cui la razionalità cade sotto l’influenza dell’area oscura della psiche, essa opera attraverso le più varie tipologie di violenza. Davanti a questa la razionalità è costretta a opporsi nei panni di “forza dell’ordine”. Ho l’impressione che in “That hideous strength” l’autore abbia, fra le altre cose, costruito un confronto fra le scienze psicologiche di Freud e di Jung, celati dietro i personaggi di Frost e di Ransom (il quale fa un appunto al padre della psicoanalisi nel cap. XIV). E in effetti i viaggi interplanetari del filologo di Leicester, descritti nei primi due romanzi della cosmic trilogy, possono ben figurare quali pagine di un “Liber novus”. Mentre l’orientamento positivistico di Frost, il quale intravede una base biologica tra i moventi dell’agire umano, ricorda in qualche modo il pensiero di Freud: l’«obiettività [objectivity]», ideale distopico di “mente” liberatasi dal sovrastrutturale organico (a beneficio di un «Technocratic and Objective Man»), non sarebbe nient’altro che un livello dell’ES scevro dei condizionamenti della materia. Filostrato (complementare del “parafreudiano” impazzito Frost) afferma nel cap. VIII: « L’autentico sudiciume è quello che proviene dagli organismi – sudore, saliva, escrezioni. […] Le idee di impuro e organico sono intercambiabili. […] Impariamo a far sì che il nostro cervello viva con meno e con un corpo minore. […] Apprendiamo la via per riprodurre noi stessi al di fuori del congresso carnale. […] Non ci saranno mai pace, ordine, disciplina fintanto che c’è il sesso [There will never be peace and order and discipline so long as there is sex]. Qualora l’uomo l’ha gettato via, allora egli diverrà finalmente governabile. […] Il mondo cui io ambisco è un mondo puritano [the world of perfect purity]. […] Quali sono le cose che offendono la dignità di uomo al massimo grado? La nascita, il procreare, la morte». In parole povere Filostrato pronuncia un velato atto d’accusa all’Eva della “Genesi”, responsabile – nel racconto biblico – di aver privato l’originario androgino Adam di una condizione divina, trascinandolo – a suo (deprecabile) modo di vedere – nel degrado descritto5. La sessuofobia è uno dei tratti caratteristici del pensiero religioso cristiano. Lewis, a tal riguardo, nella sua raccolta di riflessioni sul Cristianesimo intitolata “Mere Christianity” (1952), i cui testi risalgono alla prima metà degli anni ’40, si colloca su una posizione moderata ed equilibrata, mostrando di voler contribuire alla rimozione di simile ostacolo, pur rimanendo saldo nel pensiero di una sessualità che abbia scopi procreativi. La tematica si è ripresentato nell’ultimo libro della trilogia cosmica a proposito delle vicende di Jane Studdock. La sua storia, al pari di quella del marito, rappresenta un cammino di “individuazione junghiana”. La conclusione di questo tragitto è illustrata nel romanzo in maniera puntuale. Nei suoi confronti Ransom funge da terapeuta (Jung). Nell’ultima parte del testo lewisiano compare un concetto chiave dell’analisi junghiana del processo di individuazione: si tratta della “personalità mana”. Il primo passo del complesso dell’Io, nell’ambito della psiche personale, dev’essere quello di allargare il campo della sua coscienza a quella zona inconscia presidiata dal complesso sessuale complementare del soggetto (“anima” o “animus” junghiani: denominati in senso lato dallo studioso svizzero, in opposizione all’Ego, Anima). L’Anima veicola i contenuti dell’inconscio impersonale in maniera varia, sino al punto di poter creare forme di turbamento durante queste manifestazioni. Inglobarla nella coscienza soggettiva equivale a destituirla dallo status di complesso psichico al rango di un puro canale di interazione con l’inconscio collettivo. Cosicché essa non apparirà ormai nella veste di altro di spaventoso (di fronte a cui l’Io poteva soggiacere). Siffatta comunicazione immediata fra l’Ego e l’inconscio assoluto ribalta i piani precedenti. Ora è l’Io a possedere il potere che era dell’Anima: esso ha infatti un intuitivo diretto legame con l’inconscio impersonale (dapprima mediato da essa). Tale proprietà acquisita dalla (presunta) soppressione dell’Anima (in quanto complesso della psiche individuale) è denominata da Jung “mana”. Detto termine indica in generale il potere soprannaturale derivante dall’appropriazione dello “spirito di un ente”. Chi lo possiede è una “personalità mana”, al cui servizio sono magici poteri provenienti dal canale di collegamento immediato con l’inconscio collettivo, poteri che seguono modalità non naturali e oscure. Rilevando il “mana” l’Ego non si è effettivamente liberato dal condizionamento dell’inconscio collettivo perché non ha soppresso del tutto l’Anima (la quale è sopravvissuta in forma funzionale di collegamento). L’Io, inoltre, si è proiettato sull’inconscio assoluto omologandosi secondo un preciso archetipo: quello del Mago (nel caso maschile), quello della Grande madre (nell’altro femminile). Se il processo di individuazione prosegue nel verso migliore il “mana”, che ha dischiuso un orizzonte più alto alla comprensione e all’azione dell’Ego, viene rilevato dal Sé, in seguito alla sua cessione da parte dell’Io che era stato abbagliato da un’erronea convinzione di “somiglianza con Dio”: è il Sé, dice Jung, “il Dio in noi” scaturente dal superamento e dal cosciente assorbimento della “personalità mana”. “That hideous strength” mette in scena questo archetipo nella sua seconda metà. Mago Merlino è la “personalità mana” che ambiscono portare nel proprio schieramento dell’“ombra” i leader del NICE, campioni dell’“irrazionalità”. La “razionalità” sana riesce, nel contesto simbolico del racconto lewisiano, a ottenere l’adesione al proprio campo di Merlinus Ambrosius. Costui non è l’unico simbolo archetipico del suo genere di cui possiamo trovare traccia nel romanzo. Se il Mago è l’archetipo con cui si misurano i personaggi maschili del NICE, a cominciare soprattutto da Mark Studdock nel suo processo di individuazione, la Grande Madre6 è l’archetipo con cui si trova a interagire Jane. Nel cap. XIV lei ha quella che potremmo benissimo definire un’esperienza di “immaginazione attiva” allorquando vede tale archetipo nei panni di una “pneumatica”7 «donna dei tempi antichi [Old Woman]», «una sacerdotessa minoica [Minoan priestess]» a seni scoperti (il suo vestiario «exposed her large breasts»). Poco dopo Ransom, da perfetto terapeuta junghiano, spiega a lei il significato di quell’immagine: è un messaggio dell’inconscio collettivo attraverso l’esperienza della “personalità mana” (tramite la quale ella pretenderebbe di aver assoggettato il suo “animus”). L’“animus” di Jane rinvia a Mark, come parallelamente l’“anima” di costui rinvia a ella. Le loro difficoltà a incontrarsi nel sommo grado della “coniunctio” vengono rimosse lungo un processo narrativo alchemico-junghiano: alla fine del romanzo si perviene all’immagine della copula quale simbolica unione di “anima” e “animus”. Questo è un livello, per così dire, archetipico di ermeneutica del finale lewisiano, tuttavia, come già ribadito, Mark e Jane figurano pure come soggetti umani. E il richiamo che Ransom rivolge a lei, nella spiegazione dell’esperienza sopra descritta, mira a recuperare la dimensione della di lei “femminilità”. Jane vorrebbe sbarazzarsi del “maschile”, dell’“animus”, e quindi collocare in una posizione marginale Mark. Però ciò non è possibile: da qui scaturisce il manifestarsi simbolico della sua “personalità mana”. Ransom nel puntualizzare un primato del “maschile” non si riferisce a un primato di genere biologico bensì a quello svolto dalla “forza dell’ordine” della razionalità. L’argomento della prospettiva della maternità sarà ripreso dal filologo nell’ultimo capitolo. Il percorso d’individuazione junghiana di Jane si conclude grazie all’uscita dallo stadio psichico dominato dalla Grande Madre. Lei abbandonerà il “mana” (perderà il suo potere di veggenza), Ransom le dice: « Va’ in obbedienza e troverai l’amore. Non avrai più sogni. Che tu abbia invece dei bambini». Jane ha di fronte dunque il completamento dell’individuazione, il cui archetipo è la Natura madre. Il suo Io e l’inconscio personale, così, coabiteranno in una unità non conflittuale. Parallelo è il cammino del marito Mark: anche lui, dal momento in cui è entrato nel NICE, affronta l’esperienza di confronto con la “personalità mana” simboleggiata da Mago Merlino. La «Camera per l’Educazione-mentale-all’obiettività [Objective Room]», oltre a essere “madre” della “stanza 101” di “1984” (per quanto concerne la procedura di distorsione della retta ragione), dove Frost conduce Mark al fine di (ri)educarlo e di attuare la sua (de)formazione, rappresenta il luogo dell’iniziazione mirante all’acquisizione del “mana” sotto l’egida dell’“ombra” junghiana. Il vilipendio del Crocifisso proposto a Mark da Frost rappresenta un’allegoria della sorte della razionalità allorché questa è stata isolata dal resto dell’impianto psichico con la conseguenza di cadere nell’“ombra”. Agli occhi di tutti gli “inquisitori” nevrotici, nella cui testa domina un Verbo da imporre a qualsiasi costo, sino a far ricorso alla violenza (pensiamo a O’Brien o alla caccia alle streghe), non esiste un nemico che abbia requisiti di dignità umana da rispettare: il nemico che non si omologa deve essere vittima di violenza e di annientamento. Mark si rende conto che una prospettiva del “mana” siffatta non è benefica a nessuno (neanche allo stesso “inquisitore” colpito da nevrosi). E Merlinus Ambrosius, nel dies irae che a conclusione del romanzo contempla la morte di tutti gli esponenti del NICE (a guisa dei proci di Penelope), incontrando Mark, lo rimanderà da Jane, dopo che costui, dal canto suo, avrà conseguito la prospettiva di conseguimento del Sé, nel suo caso connesso all’archetipo del vecchio saggio. La coppia di protagonisti di “That hideous strength” costituisce exempla di individuazione junghiana dove gli oscuri poteri del “mana” sono portati alla sfera della coscienza: ciò vuol rappresentare il caso di Mago Merlino investito di ulteriori facoltà da parte di altre simboliche divinità. Queste raffigurano contenuti dell’inconscio collettivo che il superare la “personalità mana” consegna al campo della coscienza allargata al Sé. Nel contesto della lettura junghiana del libro di Lewis va infine osservato che il meccanismo della giustizia è quello arcaico: ha toni veterotestamentari. D’altra parte è riflesso del coevo sistema giudiziario inglese, distante da una sensibilità illuministica: una distanza la quale impedì nel Regno Unito la totale abolizione della pena di morte sino al 1998 (dal ’65 non riguardava più il reato di omicidio). Comunque, nell’ottica di una ripresa di motivi dell’antropologia greca antica sopra accennata, possiamo inquadrare sotto un diverso profilo tale aspetto e averne una spiegazione più ampia. In seguito a questo spunto si può comprendere il perché di un finale un po’ “manzoniano”. Si tratta di un ripristino del “nomos” e del “logos” attuato dalla “forza dell’ordine” in maniera simbolica e anacronistica allo stesso modo di Ulisse al suo ritorno a Itaca: l’evoluzione legale razionale assume senso soltanto nel tempo empirico.


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”
1 Non ho elementi certi, ma un’impressione, nell’ipotizzare che dietro all’ideazione letteraria dell’INCE ci sia l’I.N.A.C. (Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo). Fondato a Napoli dal matematico italiano Mauro Picone (1885-1977) con altro nome nel ’27, nel ’32 fu trasferito a Roma assumendo la nuova denominazione. Gli studi di quello che fu poi INAC avevano infatti procurato ammirazione, la quale proseguì pure all’estero: nel ’41 nella Germania nazista fu dato vita al Luftwaffen-Institut für Mathematik. La nazionalità del personaggio di Filostrato («Italian eunuch») potrebbe avere questo movente.

2 Ad alcuni classici della distopia ho dedicato delle monografie: “Il Medioevo futuro di George Orwell (2015)”, “L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”, “Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”. Nel mio saggio “Critica letteraria (2017) ho esaminato “La terribile distopia di H. G. Wells” (“The time machine”).

3 Ne “La razón de mi vida (1951)” di Eva Perón (“Tercera parte – Las mujeres y mi mision”) il tema viene affrontato con identico apprezzabile tono lewisiano: «Le femministe del mondo diranno che incominciare così un movimento femminile è poco femminile... incominciare riconoscendo in un certo modo la superiorità di un uomo! […] Non condotto da donne bensì da “quello” che aspirando a essere uomo, smetteva di essere donna – e non era niente! –, il femminismo aveva compiuto il passo che va dal sublime al ridicolo. […] Il primo obiettivo di un movimento femminile che voglia fare bene alla donna... che non aspiri a cambiarle in uomini, deve essere la famiglia. Nascemmo allo scopo di costituire famiglie. Non per la strada. La soluzione ce la sta indicando il buonsenso. Dobbiamo cogliere nella famiglia quello che andiamo a cercare fuori in strada: la nostra piccola indipendenza economica... che ci liberi dall’essere povere donne senza nessun orizzonte, senza nessun diritto e senza nessuna speranza! […] Io credo nei valori spirituali. […] Reputo che è urgente conciliare nella donna la sua necessità di essere moglie e madre con quell’altra necessità di diritti che, come persona umana degna, tiene anche nel più intimo del suo cuore. […] Penso che bisognerebbe incominciare proponendo in favore di ogni donna che si sposa un’indennità mensile dal giorno del suo matrimonio. Uno stipendio che tutta la nazione paghi alle madri e che provenga dalle entrate di tutti quelli che lavorano nel Paese, incluse le donne. Nessuno dirà che non è giusto che paghiamo un lavoro che, benché non si veda, richiede ogni giorno lo sforzo di milioni e milioni di donne il cui tempo, la cui vita si spende in quel monotono ma pesante compito di pulire la casa, curare i vestiti, preparare a tavola, crescere i figli..., etc. […] Io lancio solo l’idea. Sarà necessario darle forma e convertirla, se conviene, in realtà. […] La soluzione che io propongo mira a non far sentire inferiore la donna che fonda una famiglia rispetto alla donna che conquista la sua vita in una fabbrica o in un ufficio. Però non è la soluzione integrale del vecchio problema. C’è da aggiungere a suo vantaggio un migliore utilizzo del progresso e della tecnica al servizio della famiglia. Ed è necessario elevare la cultura generale della donna al fine di tutto ciò: sappia usare l’indipendenza economica e il progresso tecnico a beneficio dei suoi diritti e della sua libertà senza che perda di vista la sua meravigliosa condizione di donna; l’unica cosa che non può e che non deve perdere mai se non vuol perder tutto. […] Io credo fermamente che la donna – al contrario di quanto è opinione comune tra gli uomini – vive meglio nell’azione che nell’inattività».

4 Tonalità intermedia tra nigredo e albedo, fasi alchemiche precedenti citrinitas e rubedo.

5 L’argomento tirato in ballo è piuttosto complesso per essere affrontato qui senza che la locomotiva critica deragli. Perciò rinvio a un mio studio dettagliato posto in altra sede: “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi” all’interno del saggio “Danilo Caruso, Considerazioni letterarie (2014)”.

6 I miei due lavori critici sopra la personalità e la poetica della musa di Boston – “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”, “Sulla poesia di Sylvia Plath (2016)” – fanno pure riferimento al concetto di Grande Madre. Nel cap. XIII di “That hideous strength” si parla della Luna: la quale è uno dei simboli plathiani e immagine archetipica della Grande Madre. La paronomasia tra il nome del satellite terrestre là adottato da Merlinus Ambrosius (Sulva) e il nome della poetessa bostoniana è suggestiva, se non trascuriamo che Ransom fa altresì un discorso che riflette la dicotomia “positivo/negativo” della Grande Madre (di cui ho trattato nelle mie due opere testé ricordate). In aggiunta: sia Lewis che la Plath si sposarono nel ’56 e morirono nel ’63; entrambi ebbero a che fare, più o meno nello stesso periodo, con la città inglese di Cambridge per motivi scolastici.

7 Per comprendere quest’uso dell’aggettivo “pneumatico” suggerisco la lettura di una mia analisi intitolata «La Madonna “pneumatica” e Lenina Crowne» contenuta nel saggio “Danilo Caruso, Note di studio (2016)”.