di DANILO CARUSO
The love of knowledge is a kind of madness.
Clive Staples Lewis, “Out of the silent planet”
“Out
of the silent planet (1938)” e “Perelandra (1943)” sono due romanzi di Clive
Staples Lewis, i cui contenuti, in apparenza inscritti in una tematica
fantastica o fantascientifica, sono da leggere e interpretare seguendo un
particolare canone ermeneutico di matrice psicologica proveniente dal sistema
analitico di Carl Gustav Jung. È lo stesso autore dei racconti, alla fine della
prima opera facente parte della sua famosa trilogia
cosmica, a fare dei velati riferimenti allo studioso svizzero (nelle
iniziali «C. J.», «J.»), e quindi a offrire in maniera indiretta la chiave di
lettura delle sue parole. I romanzi di tale famosa trilogia furono il risultato
letterario scaturito da una scommessa dell’autore col suo amico Tolkien: ognuno
dei due avrebbe dovuto scrivere una storia il cui asse portante fosse una
trattazione del tema del mito, nel caso del primo, secondo un’ottica che si
sviluppasse nello spazio, nel caso dell’altro, invece, secondo una prospettiva
che prendesse spunto dalla dimensione temporale. Il fatto stesso che la materia
mitologica avesse dato origine a un ciclo di testi molto pregnanti sotto tale
profilo, indurrebbe di per sé a impostare l’approccio critico sulla base di un
consono metro di analisi. E siffatto metro è possibile assumerlo grazie alla
psicologia analitica junghiana, la quale offre strumenti interpretativi che
danno ampio riscontro positivo nella lettura in siffatta direzione. Jung e
Lewis hanno in comune l’idea per cui il mito non sia solo un insieme di libere
fantasticherie prodotte dall’ingenuità e dall’ignoranza umane. A loro avviso
nelle figurazioni mitologiche viene rappresentato qualcosa di più profondo e
significativo di quanto possa mostrarsi a uno sguardo superficiale. La
psicologia junghiana considera i miti e le loro immagini (simboli) il risultato
di un’attività elaborativa inconscia di carattere universale e interpersonale:
essa sintetizza modelli di comportamento (archetipi) i quali, attraverso i
simboli, indicano la via d’uscita da conflitti e tensioni di natura psichica.
Pertanto la mitologia viene a rivestire un ruolo pedagogico, il quale
ritroviamo con una maggiore dimensione ontologica in Lewis, giacché a suo
avviso, quello di un cristiano, il mito è prefigurazione di qualcosa di reale:
è una sorta di profezia; preannunzio, intuizione, di una realtà religiosa a
venire. Cosicché la psicologia analitica di Jung e il narrato di Lewis
assumono, in detti di lui romanzi, la connotazione di due facce di una singola
medaglia. I viaggi interplanetari del filologo Elwin Ransom (studioso di
Leicester, fellow a Cambridge) non sono letterali nel loro piano
fantascientifico. Non vanno visti come un percorso di fantasia, né come
pretesto di esposizione di una teologia fantastica. I tratti delle narrazioni
lewisiane orientano di là dalla loro superficie, da inquadrare bene, alla volta
di significati che possiamo unicamente recuperare in maniera nitida soltanto
mediante un’ermeneutica junghiana. Nel primo testo, risalente al 1938, il
pianeta Malacandra (in tal modo chiamato Marte dai suoi abitanti) si ricollega
all’archetipo dell’animus. Per quanto concerne la storia, Ransom è stato rapito
e portato su Marte da una sua vecchia conoscenza (Dick Devine) e dal professor Weston
(uno scienziato in grado di costruire un’astronave spaziale). Gli abitanti
marziani incontrati dal filologo protagonista costituiscono una
rappresentazione letteraria di funzioni dell’animus, il quale presiede alla
componente della psiche umana ispirante i comportamenti mentali intellettivi. I
séroni, i rossa, i pfifltriggi sono rispettivamente simboli dell’intelligenza
speculativa, creativa e operativa. In particolare i secondi fungono da sponda
verso l’archetipo dell’anima (il quale a sua volta, nell’ambito delle funzioni
soggettive della razionalità, ispira un agire non logico-astratto, bensì di
natura sentimentale). Sebbene i due archetipi dell’animus e dell’anima
possano essere allineati lungo i binari del maschile
e del femminile, non bisogna pensare
che ogni singolo individuo nella sua configurazione somatica incarni al 100% uno
dei due modelli. Ogni essere umano è impastato di una interiore dialettica “anima/animus”,
senza dubbio condizionata dal bipolarismo biologico maschio/femmina. Tuttavia
ciascuna entità psicosomatica ha davanti lo scopo esistenziale di sanare in sé
l’altra controparte, in quello che Jung denomina “processo di individuazione”: nel
lago della psiche personale, dalla coscienza fondata e incentrata sul complesso
dell’Io sessuato, alla coscienza (globale) del Sé, che integra a seconda del
sesso, per opposizione, o il complesso dell’animus (donna) o dell’anima (uomo)1.
Al fine di chiarire la materia sopra accennata, pensiamo all’attributo
caratteriale del coraggio, ritenuto un connotato dell’uomo: questo non vuol
dire che non ci siano donne coraggiose, o esempio di coraggio fra di loro. D’altro
canto, se ritorniamo ai coraggiosi rossa malacandriani, costoro attraverso una
facoltà logica ordinatrice, riescono a produrre la poesia partendo da una base
emotiva, la quale è giudicata proprietà distintiva della donna. Ma anche qui
notiamo che le emozioni, come il coraggio, sono possibilità comportamentali a
disposizione di tutta l’umanità, al di fuori di una distinzione somatica
esteriore. I viaggi dello studioso di Leicester disegnano un quadro esplorativo
di archetipi e simboli. Malacandra, o Marte, è il campo del maschile. Oyarsa, l’Elohiym a capo del
pianeta, incontrato dal filologo nel finale del romanzo, rappresenta un simbolo
dell’archetipo del vecchio saggio, meta del processo di individuazione di un
uomo. Il Dio unico, creatore dell’universo (psichico), è narrativa “immagine primordiale” dell’indifferenziato
(archetipo sommo). Egli è trino: Vecchio Padre («the Old One», «Father»), Maleldil,
Terza Persona («Third One»). E guida Ransom nei suoi viaggi. Le esplorazioni
dei testi lewisiani possono essere accostate al viaggio oltremondano dantesco.
Creature particolari immaginate da Lewis sono gli eldila, esseri quasi
invisibili, difficilmente percepibili, il cui compito è quello di essere al
servizio, e messaggeri, di Maleldil. Nella prima opera il filologo sfuggito ai
suoi sequestratori incontrerà Oyarsa, il quale poi rimanderà tutti e tre sulla
Terra (Thulcandra per i Malacandriani, ossia pianeta silenzioso). L’Oyarsa – l’Elohiym – terrestre, respingendo
l’ordine dato al cosmo (psichico) da Maleldil, ha fatto sì che il nostro
pianeta fuoruscisse dal circuito di comunicazione tra le intelligenze
ordinatrici planetarie: in questo modo è rimasto avvolto nel silenzio, o per meglio dire in termini
junghiani nell’ombra. L’“ombra” di
cui parla Jung è una forza dell’inconscio collettivo ispiratrice di
comportamenti irrazionali, illeciti. Simili atteggiamenti, cui conduce,
sovvertono l’equilibrio di sanità generato dalle facoltà della razionalità
(pensiero logico e sentimento). L’irrazionalità fa parte delle possibilità
esistenziali dell’agire umano. Jung collega la funzione percettiva dell’esteriore
e quella alogica intuitiva di qualcosa attraverso oltre o situata altrove a
questo piano irrazionale. L’“ombra” di per sé, in veste di potenza di libertà, è insopprimibile senza sopprimere la libertà
umana medesima. In qualità di causa di un
deliberato atto può essere bloccata. Essa è, alla base della libertà, un
perpetuo monito all’agire dell’umanità: al di là di una consapevolezza, la
quale deve però rimanere sempre potenziale, del male, non c’è né bene né
libertà. Nonostante l’avvertimento, purtroppo pratico della possibilità di
azioni irrazionali, l’“ombra” trova ampio spazio nella storia umana. Il che
viene sottolineato in “Out of the silent planet” per mezzo degli antagonisti dello
studioso di Leicester: Devine, che brama la ricchezza; Weston, araldo di un
imperialismo occidentale allargato a uno spazio interplanetario. Quest’ultimo
sarà nel secondo racconto della triade lewisiana ancora una volta il campione
dell’irrazionale, sino al punto che l’“ombra” stessa prenderà posto nel suo
corpo della sua persona. “Perelandra” (uscito nel 1943) presenta un testo più
articolato nel suoi contenuti concettuali rispetto al precedente, di cui è
prosecuzione in quella investigazione psicoanalitica che Elwin Ransom si trova
a vivere grazie alle sue esperienze di letterari contatti alieni. La seconda
opera parla del viaggio del filologo su Perelandra, ossia Venere. La modalità
in cui egli raggiunge il pianeta è meno usuale di quanto ci si possa aspettare
in un romanzo, a prima vista, di fantascienza. Costui infatti, sotto la regia
dell’Oyarsa di Malacandra, raggiunge Perelandra dentro un singolare veicolo:
qualcosa che ha le fattezze di una bara di materiale trasparente. Ciò potrebbe
disorientare un lettore sprovveduto e superficiale, quando in effetti non c’è
niente di impressionante. Questa specie di sarcofago spaziale evoca un’immagine
opposta a quella che il primo impatto vorrebbe (in maniera non ragionata) in
una mente volgare. Siffatta bara al cui interno il cantabrigian fellow alloggia
nudo nel suo transito è il simbolo del grembo materno. È un’immagine che si può
rintracciare, ad esempio, in “Edge” di Silvia Plath2. Allo stesso
modo di “Edge”, l’icona uterina ha il semplice obiettivo di indicare, avviare,
un processo di rinascita (spirituale). Il soggiorno del filologo su Venere
illustra mediante tappe questo cammino di rigenerazione mirante alla volta del raggiungimento
del Sé. Perelandra rappresenta il pianeta simbolo dell’archetipo dell’anima: in
virtù di esso si esce fuori di una esclusiva comprensione logica e fenomenica
della realtà chiusa sotto questo riguardo in coordinate spaziotemporali. Le
isole galleggianti di Venere («the floating islands of Perelandra») indicano il
venir meno di una conoscenza ordinata secondo lo spazio e il tempo, conoscenza generante
il “fenomeno”. Dette isole, zattere mobili sul mare, simboleggiano contenuti meta
fenomenici: i kantiani “noumeni”. La terraferma («Fixed Land»), che all’inizio
del racconto costituisce una zona interdetta a una libera permanenza alla donna verde («the Green Lady», «Queen of
Perelandra»; svestita al pari di Ransom, e simbolo dell’archetipo dell’anima),
rappresenta il mondo fenomenico da calpestarsi
meglio dopo aver conseguito l’individuazione junghiana3. Questo
personaggio femminile nel suo incontro con lo studioso di Leicester esibisce
all’inizio qualità di semplicità, le quali in generale in una donna tendono,
dall’archetipo dell’anima passando nel solco dell’individuazione attraverso quello dell’animus, a conseguire, oltre
questo, l’archetipo della Natura madre
(non per niente ella si presenta con una carnagione verde e gli dice: «I am the
Mother»). Sarà l’esperienza di Ransom a offrirle lo spunto, poi nel finale, per
raggiungere il grado più elevato. È da notare nel romanzo che il simbolo
archetipico dell’animus (al centro
della prima opera della trilogia lewisiana) verrà fuori nella parte conclusiva,
allorché il livello femminile più
ingenuo e inesperto si sarà evoluto e sanato
in quello superiore, a sua volta ponte dell’animus
verso “il vecchio saggio”. Perelandra è il pianeta del “femminile” (che gode di
un particolare canale di comunicazione col divino), pertanto l’animus e “il vecchio saggio” non possono
che mostrarsi soltanto dopo l’individuazione
del Sé. Tra questi due estremi di avvio di conclusione di simili cammini di
crescita spirituale si collocano delle tappe intermedie. La «Green Lady» deve
resistere alle lusinghe libertarie dell’“ombra”. Weston infatti è riuscito ad
arrivare su Venere, stavolta, dopo aver mutato punto di vista, nei panni di
araldo di un panlogismo hegeliano (associabile a quello dello Stato Unico zamjatiniano)4.
Il suo corpo però cede il passo a una sorta di possessione demoniaca da parte dell’Oyarsa
della Terra («Dark Lord», «black archon», «The Bent One»). Se l’apologia di una
Ragione universale, da Weston sostenuta mentre era in sé, testimonia una
deviazione della corretta razionalità nel momento in cui la si isola, d’altro
canto altrettanto deleterio è il canto
della sirena che l’“ombra” rivolge insistentemente alla donna verde. La suggestione che offre a
lei di una pratica della libertà alle spalle dei confini del lecito e della
sana ragione non avrà presa. Due aspetti della filosofia hegeliana tornano
utili nella comprensione dei capitoli centrali di “Perelandra”. Nonostante le
realtà psichica e fenomenica siano sottoposte a una esclusiva egida razionale,
il meccanismo triadico della dialettica di Hegel ha luogo e valore
interpretativo. Al nostro proposito ciò che occorre ricordare è che l’“immediatezza”
offerta quale possibilità comportamentale dall’area dell’irrazionalità non è un
bene. L’“ombra” indica un cammino non mediato dalle funzioni razionali: un
agire sì libero, e in fin dei conti non del tutto, ma privo di quel momento
intermedio che conduce alla matura coscienza (anche morale) dell’azione. L’irrazionalità
quando è fonte di azione immediata, è causa di male. Ciò costituisce altresì l’assenza
di quella base vocazionale dell’uomo collocata da Aristotele al principio della
sana deliberazione della volontà che abbia di mira il bene, ossia il giusto mezzo. L’idea stando alla quale
quanto sfugge a un’elaborazione di sintesi non porta suddetto bene sta a
fondamento della dottrina junghiana degli archetipi. Il modello dell’archetipo
si contrappone dunque in virtù della sua “medietà” a quello non positivo dell’“ombra”.
Questa a sua volta indica schemi comportamentali che sono negativi
pseudoarchetipi (con relativi simboli negativi), i quali non sono nient’altro
che materia elaborativa di un archetipo vero e proprio: immediatezza che deve
elevarsi alla medietà, simbolizzata in qualcosa che ha il potere di guidare al
di fuori di tensione e contrasto, anziché produrlo e alimentarlo. Questo è
quanto la «Green Lady» (anima) giunge a cogliere nel suo confronto col Weston
demoniaco (ombra), grazie pure all’apporto di Ransom il quale nel suo duello
con quest’ultimo ha il compito, nella veste di paladino delle capacità
razionali, di garantire a ella l’opportunità di crescita psichica nella
direzione auspicata. La partita fra il professore indemoniato e il filologo
rivela la caratteristica di una hegeliana dialettica “signore-servo”.
Incominciata sopra un piano dove la persuasione della maggiore o minore
opportunità di una libertà immediata assumibile da parte della donna verde aveva requisiti di una
battaglia intellettuale, finisce per trasformarsi in una vera e propria lotta
fisica. Entrambi i contendenti compaiono attraverso delle parti intermedie
rappresentate dai loro corpi. L’“ombra”, quantunque avesse tratto in partenza
un vantaggio a servirsi della figura di Weston, alla fine sarà costretta a
subire la distruzione del suo medium proprio in virtù di un’ostinata
propensione all’immediatezza, la quale è motivo di annientamento del suo
strumento, che non viene preservato grazie a un ordine di valutazioni
comportamentali più consone. Davanti a questo assalto (dall’esito suicida) il cantab
fellow si comporta in maniera diversa. Utilizza sempre la corporeità nel dare
il via all’attacco fisico, e nel portarlo avanti allo scopo di sconfiggere il
canale che veicolava le suggestioni dell’irrazionalità, ma conduce questa fase
a guisa del padrone hegeliano della “Fenomenologia dello Spirito”: il suo
obiettivo è quello di conseguire il riconoscimento della sua superiorità (di
natura non corporale), utilizzando il suo corpo come termine medio per
raggiungere la meta, anche a costo della vita. Egli vincerà il duello, però,
poiché combattevano tramite elementi di intermediazione forniti dalla
corporeità, ciò non comporterà una definitiva vittoria sull’“ombra” nel senso
di imbrigliarla perennemente o annientarla. Questa, quale potenziale garanzia
della libertà umana, è indistruttibile; tuttavia, al contempo, va vista,
studiata e ricordata, appunto perché un’autentica
luce può essere solo apprezzata mediante la conoscenza dell’oscurità. Questa riveste simile ruolo, al quale non deve
essere dato un margine di uscire nell’immediatezza. Nel momento in cui ciò
succede su qualsiasi cosa può proiettarsi un cono di negatività, il quale viene
a scomparire col rifiuto dell’“ombra”: pensiamo al caso del mostro, surreale
simbolo di un contenuto psichico, evocato da Weston nel cap. XIV, che dopo la
di lui morte non susciterà più un’impressione di terrore. È il caso di
rammentare il fatto che il concetto di libido in “Perelandra” è quello
junghiano e non quello freudiano, il quale ultimo è interamente schiacciato su
una posizione riduttiva che appunto nel romanzo esaminato non compare. La
libido secondo Jung offre una gamma di possibilità comportamentali che nel
pensiero di Freud emergono piuttosto come conseguenze di un arginamento
libidico. Le nudità della «Green Lady» e di Ransom non sono inquadrabili, come
sottolineato nel testo lewisiano, in una cornice freudiana. L’ulteriore legame
junghiano dell’autore prosegue negli ultimi capitoli del racconto. Lewis riprende
in modo molto profondo l’idea del mito quale espressione di una verità da esso
additata. Questo è un altro forte aspetto di tangenza con la psicologia
analitica di Jung. Innanzitutto ritornano gli archetipi del vecchio saggio e della Natura madre nei personaggi di
Malacandra e Perelandra, a testimonianza che il percorso dell’individuazione
junghiana ha ottenuto i suoi frutti sperati. In seguito a ciò le realtà
biologiche personali del maschile e del femminile traggono la liceità di libero
soggiorno sulla «Fixed Land»: vale a dire che il mondo fenomenico può assumere
una veste diversa agli occhi di chi non soffre la scissione anima/animus (il
complesso dell’Io sessuato cosciente di fronte a uno dei due complessi
complementari: animus se donna, anima se uomo). Lewis esprime delle acute
considerazioni allorché ricorda che il “maschile” e il “femminile” non sono
polarità di natura somatica, ma che vanno al di là di queste (del resto come
detto già da Jung): «he of Malacandra was masculine (not male); she of
Perelandra was feminine (not female)». Malacandra e Perelandra, espressioni
simboliche degli archetipi su citati, sono, per ciò che riguarda la psicologia
analitica, altresì rappresentazioni di due tipologie basilari del carattere: l’estroversione
e l’introversione, le quali rispettivamente prendono corpo concettuale nelle immagini
archetipiche del “maschile” (animus) e del “femminile” (anima), attraverso le
quali giungere alle mete della Natura madre
e del vecchio saggio5. Ci
rendiamo quindi conto perché la singola realtà biologica non possa incarnare in
toto una delle due propensioni caratteriali psichiche individuali, bensì questa
sia mossa dal prodotto scaturente dalla dialettica “anima/animus”; una
dialettica la quale si sovrappone all’altra, parimenti fondamentale, “razionale/irrazionale”.
Nell’ultimo tratto del romanzo il suo autore compie una riforma ideale del
racconto veterotestamentario della creazione degli esseri umani. Attua superamento
dei limiti misogini della narrazione della Genesi. Lo scrittore edifica pure una
parateologia che si completa con una mitica Apocalisse terrestre. È importante
rilevare il senso del suo discorso, che principia con un’elaborazione figlia di
un’adeguata lettura della biblica creazione dell’umanità6. La dicotomia
androginica da cui provengono i singoli soggetti sessualmente differenziati,
nel testo lewisiano, non si evolve in maschilisti modelli comportamentali
repressivi del “femminile”: tutt’altro, la sua teologia mitologica, assieme ai
suoi connessi simboli, dopo la rimozione delle zone d’”ombra” si rivolge con migliore
spirito di adesione ai principi della dottrina psicoanalitica junghiana. Il
viaggio dantesco dello studioso di Leicester sui pianeti dell’inconscio
Malacandra e Perelandra si conclude, tornato sulla Terra, così offrendo al
lettore un’esplorazione di siffatti luoghi della psiche. In “Perelandra” emerge,
nella di lui dialettica con Weston, un di lui ciclo alchemico-junghiano,
allorquando nella fase finale della lotta, inseguito da costui indemoniato, compie
un percorso che lo porterà dall’oscurità
alla luce, cioè dalla nigredo all’albedo. Una guadagnata luce di consapevolezza, la quale è servita
poi a dare la svolta all’intero meccanismo simbolico-narrativo della seconda
opera della trilogia lewisiana. Un’allegoria alchemica (cosmico-escatologica)
sembra celarsi nel concetto «di Grande Gioco, di Grande Ballo [of the Great
Game, of the Great Dance]» del finale cap. XVII. Quest’idea di una “danza
alchemica” mi proviene dall’accostare quest’immagine con una riflessione svolta
in un mio secondo saggio su Sylvia Plath7. In quella sede ho
paragonato il percorso di individuazione junghiana della poetessa bostoniana,
al contenuto di un cortometraggio animato di Walt Disney (“Destino”), la cui
protagonista è una ballerina: dato il fatto che “individuarsi” equivale in
termini simbolici a compiere l’iter alchemico junghiano, dove “anima
(femminile)” e “animus (maschile)” si uniscono a conclusione nella “sizigia
(individuazione)”, mi pare lecito applicare, per analogia, l’interpretazione
proposta nel rendere ciò cui alluderebbe Lewis. L’ultima sezione di “Perelandra”
contiene gli spunti di una particolare mitica teologia di cui giudico fattibile
una lettura in chiave psicoanalitica. Questa operazione allarga il suo
orizzonte di applicazione naturalmente al sostrato cristiano da cui Lewis
sembra prendere la materia. Proseguendo nella mia ermeneutica junghiana del testo,
e riallacciandomi a cose che ho già detto nel mio lavoro critico ricordato
nella nota 78, credo che laddove si parli di incarnazione divina sia celato il ciclo dell’anima individuale
(intesa come entità sostanziale, non anima
o animus junghiani). Maleldil è una
letteraria “immagine primordiale” dell’animus, sopra lo sfondo dell’inconscio
collettivo. Sia l’incarnazione del Dio evangelico (del Verbo) in Cristo che la parallela
di Maleldil costituiscono un’esemplificazione della singolare anima sostanziale
che attraversa fasi di ingresso e di uscita assumendo come riferimento il mondo
fenomenico, e quindi non facendo altro che riproporre in una forma narrativa
esemplare il meccanismo dell’individuazione junghiana. Il peccato originale
verrebbe a rappresentare l’esperienza in relazione all’“ombra”, con l’unica
differenza che la tradizione giudaicocristiana, a differenza della teologia
mitologica lewisiana, si è comportata al pari di Weston, e ha impedito all’animus junghiano l’integrazione della
corrispettiva anima. Il deficit in “Perelandra”
viene superato, al punto tale di far sorgere il dubbio se, su fondamenta provenienti
anche da Jung, Lewis abbia voluto proporre, in accordo alla sua concezione
della mitologia quale potenza di un concreto atto reale, un suo ideale di
Cristianesimo. Un simile progetto concilierebbe la prospettiva junghiana con
quella mitologico-religiosa. La colpa originaria nella trattazione lewisiana,
rivede in modo completamente diverso i ruoli recitati dal “maschile” e dal “femminile”.
In “Perelandra” non si attribuisce una responsabilità di cedimento all’irrazionalità
al soggetto biologico donna: viene detto che questo “femminile” è altro; una
componente psichica metasessuale, suscettibile (in quanto diversa dalla pura
razionalità) di essere adescata dalle sirene
dell’“ombra”. Il pensiero cristiano, al contrario, non è stato in grado di
comprendere ciò. E una delle conseguenze più rilevanti è stata l’esclusione
delle donne dal sacerdozio. Il concetto di “incarnazione” in Lewis si avvicina
a quello dell’“individuazione”, giacché il logos che entra nella storia è il “maschile”
cui spetta il compito di porre l’argine più alto all’irrazionale (ombra). E
questa storia è in primis la vicenda individuale degli esseri umani: l’apocalisse
è lo scenario di ogni singolo spettatore. Questa diviene collettiva nel momento
in cui l’estroversione (il maschile) e l’immediatezza fanno distogliere lo sguardo
dal vero percorso, il quale è personale e in gran parte interiore
(introversione “femminile”). Quindi si spiega con ciò il difetto strutturale
dell’Apocalisse biblica, la quale opta alla volta di un disegno di chiara
matrice politico-religiosa, dopo aver smarrito il senso greco-razionale del
Vangelo. Il racconto del non sinottico di Giovanni, nella corretta traduzione e
interpretazione del v. 1,9 a opera di Simone Weil9, afferma che il
Logos «illumina ogni uomo che viene al mondo». Sicché comprendiamo meglio
grazie alla filosofa francese che tale “maschile” è il razionale di ognuno a
prescindere dalla sua differenziazione sessuale. Il suo ruolo di mediazione,
che la Weil sottolinea nella “Lettre a un religieux”, simbolico in ambito religioso,
è attivo nel sommerso psichico allo scopo di contribuire alla costruzione
archetipica, la quale smarca dall’“ombra”. Simone Weil parla addirittura della nozione
di media nella matematica greca come di una profezia: in effetti non sbaglia
poiché le idee che presiedono all’ordine e al ragionamento sono quelle da
utilizzarsi nella battaglia contro l’irrazionalità (mediatezza da preferirsi all’immediatezza).
La pensatrice francese è altresì accostabile a Lewis grazie alla sua visione
generale delle religioni: se per costui il mito è prefigurazione di
Cristianesimo, agli occhi di ella Dio è intervenuto e si è manifestato in
differenti credenze religiose. Vale a dire che per entrambi la mitologia non
costituisce una montagna di fantasie, più o meno, ingenue, ma un ambito di
indagine in cui poter rintracciare i principi di una religione che abbia i
caratteri dell’universalità (che sia, come vorrebbe Hegel, la versione popolare
della Verità, la quale a livello di analisi concettuale più elevata può trovare
una spiegazione migliore anche nella psicologia analitica di Jung). Lewis ha
ben compreso che anima e animus junghiani interagiscono inter se lungo l’asse
della razionalità, asse che mantiene una vocazione introspettiva; mentre l’irrazionalità
si manifesta con più libertà presso le funzioni legate all’esteriorità
(intuizione e senso). In tal guisa ha salvato il processo di “individuazione”,
poiché il maschile-razionale non resta scisso e conflittuale in relazione al
femminile-sentimentale. Lewis, se contrappone all’ombra-irrazionale il
maschile-razionale, non compie lo sbaglio nevrotico in questo schema
psicologico di associare l’“ombra” al “femminile”. Questo è il tragico errore
della forma mentis ebreo-cristiana: quello di separare il campo razionale,
proiettando l’oscurità sulla zona del “femminile”10. L’equivalenza “ombra”=
donna ha generato la caccia alle streghe, che aveva un presupposto
teorico-dogmatico in una produzione letteraria deviata verso la nevrosi. Il
testo lewisiano scarta del tutto l’ipotesi di qualcosa del genere: anima e
animus (interezza della persona) devono rimanere saldati se si vuole
sconfiggere la suggestione dell’irrazionalità (la quale, ad esempio, ha animato
le varie inquisizioni di confessione cristiana). Sotto questi profili di
analisi, e alla luce dei risultati, appare evidente che nel Vangelo accanto al
Messia, il maschile-logos, manchi la parte dell’anima junghiana: ciò in ossequio a schemi di pensiero semibarbarici,
irrazionali. “Perelandra” emenda la teologia cristiana dal suo radicale
nevrotico difetto di fare della donna, in quanto soggetto biologico, la porta del diavolo. Esiste un abisso nevrotico tra la Madonna
evangelica e gli archetipi del femminile della cultura greco-antica. Moderni
studi e nuove scoperte archeologiche hanno consentito di vedere che nel
magmatico Cristianesimo delle origini esisteva un culto associante Gesù Cristo
e Maria di Magdala in una coppia divina espressione di una sizigia, la quale
sarà cancellata a vantaggio di un distorto primato maschilista. A causa di ciò
Lewis sembra rievocare Afrodite (e Ares) quando sta parlando, de facto, degli
archetipi generali collegati. Inoltre: allorché nel romanzo, al cap. XVII, Perelandra
chiede al Re («the King»; divenuto prototipo biologico di genere, haecceitas
dell’idea platonica di uomo) se può rimanere, la risposta è positiva (pure la
«Green Lady» si è evoluta in prototipo biologico di donna: la Regina, nel
contesto della loro sizigia). Il che evita il darsi del processo di nevrosi
sopra delineato, da cui invece viene fuori la Maria del Vangelo. La società
greca dell’antichità non è stata preservata dall’incamminarsi sulla via del
medesimo errore. Tuttavia, benché vedendo nella biologia femminile qualcosa che
fosse ritenuto inferiore di fronte al corrispettivo maschile, i Greci, in quest’insana
prassi di separare (e bloccare) i poli dialettici psichici anima e animus, e di
spezzare l’asse delle facoltà razionali, si limitarono a impantanarsi in un’inclinazione
nevrotica di tono minore: la donna non veniva a rappresentare il male assoluto,
ciononostante rimaneva relegata alla considerazione di un soggetto umano quale
potrebbe essere oggi un minorenne; cioè qualcuno che, allora perennemente, non
avrebbe avuto la capacità naturale di conseguire maturità intellettuale e senso
di responsabilità. Quantunque, in maniera erronea, i reputati odierni requisiti
da maggiorenne fossero circoscritti a permanere esclusivo possesso della biologia
maschile, si può osservare che si tratta di pregiudizio diverso e meno dannoso,
tant’è che non precluse l’accesso delle donne al rango sacerdotale (perché il “femminile”,
a tutti i livelli, conservava le sue prerogative di contatto privilegiato con
la dimensione del divino e del metasensibile)11. La Trinità
lewisiana, pertanto, dopo aver palesato un primato del “razionale” nelle sue maschere maschili, postula nella Terza
Persona la presenza di un termine medio “femminile”. Tale primazia tra le
funzioni della psiche è sottolineata da alcune parole della donna verde al protagonista filologo nel
cap. V: «Dal momento che il nostro Amato assunse la natura umana, in che modo
la Ragione dovrebbe prendere in qualche mondo un’altra forma? [Since our Beloved became a man, how should Reason in
any world take on another form?]». In questa configurazione
iconico-teologica, l’“ombra” agente in Weston si qualifica come «the Un-man».
Il sostantivo inglese “man”, in aggiunta a significare il concreto soggetto “uomo”,
può indicare l’insieme di tutti gli esseri umani, l’“umanità”. Quest’ultima
sembra l’accezione che meglio si confaccia a queste estrazioni dal testo
inglese lewisiano: il logos, prerogativa di ogni membro dell’umanità, si oppone
all’irrazionalità mettendo da parte la veste somatica. La tradizione
giudaicocristiana si è viceversa radicalizzata in un quadro pregiudiziale, il
quale non ha colto il valore di vari archetipi dell’uomo e della donna. Il
Verbo, per la Chiesa, si è incarnato nella qualità di vir; Maleldil, per Lewis, in quella di homo.
NOTE
Questo
scritto è un estratto del mio saggio “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples
Lewis (2017)”
1 In alcuni miei
saggi precedenti ho adottato una terminologia in relazione alla psicologia
analitica junghiana riguardante i vocaboli “anima” e “animus” (in partenza
esclusivamente punti di interazione con l’Io cosciente) i quali nell’ambito
delle mie analisi critiche hanno assunto possibilità di significato allargate
rispetto a quelle date da Jung. Ciò, forse, ha causato, e può causare qui,
disorientamento nel lettore circa la comprensione semantica dei suddetti due
concetti. Tuttavia, operando in ambito critico-letterario, e godendo di
autonomia creativa nell’impostare un vocabolario d’analisi, manterrò l’uso già
fatto di “anima” e “animus”, pur rendendo più semplice l’intendimento del mio
dire. In parole povere, allorché Jung ha parlato della dialettica “io cosciente
/ anima (controparte generica inconscia: “anima” o “animus”), è stata da me
assunta una diversa formula verbale per esprimere tale relazione: dialettica
“anima/animus” o “animus/anima”, dove il primo termine specificasse in maniera
precisa il sesso del soggetto in questione (del cui complesso coscienziale si
discute) e il secondo puntualizzasse altrettanto in modo evidente, in un
meccanismo retorico di contrasto (“protagonista/antagonista”), quale fosse il
genere del complesso junghiano inconscio complementare. Una premessa a quanto
ho fatto mi ha indotto a ritenere che gli archetipi che possano presiedere alle
alternative del binomio così configurato non siano quattro (maschile,
femminile, animus, anima: con specificazione di ascendenza sul complesso
dell’Io cosciente o sull’altro posto nella zona inconscia), ma che siano
soltanto due (femminile+anima; maschile+animus): i due archetipi superstiti
presiederebbero, a seconda delle due circostanze, ai due complessi della psiche
(“anima” e “animus” nelle mie possibili accezioni semantiche). I due omonimi
archetipi si polarizzerebbero, per quanto concerne il fattore coscienziale di
riferimento, in tal guisa, nel momento in cui prendono contatto con la psiche
soggettiva in base al complesso di riferimento. Cosicché, grazie al “rasoio di
Ockham”, passeremmo direttamente nella scala gerarchica archetipica dall’“androgino
(o indifferenziato)” ai due di “anima” e “animus”, i quali ingloberebbero e
fonderebbero in sé quelli di “maschile” e “femminile”.
2 Vedasi al
riguardo nella mia monografia “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”,
alle pagg. 14-15.
3 Queste
considerazioni mi hanno spinto a riflettere sul significato delle isole dei morti dipinte da Arnold
Böcklin. Si tratta di un pittore (Svizzero come Jung) rivelatosi sensibile
verso il pensiero di Arthur Schopenhauer (e al criterio che la vera bellezza
abbia una collocazione oltremondana, dove vada colta), e che a propria volta ha
ricevuto l’attenzione, per quanto qui mi interessa, di Giorgio De Chirico,
Sylvia Plath e del padre della psicologia analitica. Alla luce della lettura di
Lewis, la mia impressione è che le menzionate isole dei morti possano rappresentare non un’interpretazione
pittorica di una condizione o di una sede ultraterrene, bensì, al contrario
delle apparenze, il mondo fenomenico, visto come luogo di vita materiale, non
ideale, e quindi pressoché di morte dell’anima al principio del suo percorso di
carcerazione nel fenomeno in cui si trova intrappolata.
4 Per
approfondimenti si veda l’opera: “Danilo Caruso, L’antipanlogismo di Evgenij
Zamjatin (2015)”.
5 La maniera in
cui, nel cap. XVI di “Perelandra”, Lewis affronta l’argomento dà spazio non
solo a un rilievo interpretativo in direzione junghiana: « Sembrava a lui
[Ransom; n.d.r] che Malacandra avesse lo sguardo di uno che sta in piedi
armato, ai bastioni del suo proprio remoto mondo arcaico, in incessante
vigilanza, i suoi occhi sempre vaganti verso la terra donde il suo [his;
n.d.r.] pericolo venne tempo addietro. “Uno sguardo di marinaio”, Ransom disse
a me una volta, “Sai... occhi che sono impregnati di distanza”. Viceversa gli
occhi di Perelandra aprivano, come era, una parte interna, come se essi fossero
l’entrata nascosta ad un mondo di onde e sussurri e vagabonde brezze, di vita
che si dondolava nei venti e cadeva su pietre coperte di muschio e discendeva a
mo’ di rugiada e si levava verso il sole nella delicatezza filiforme della
pioggia leggera». Le parole del passaggio rievocano le immagini di due quadri
aventi lo stesso tema: “Odysseus und Calypso” di Böcklin e “L’enigma
dell’oracolo” di De Chirico (e non è da trascurare che siffatti due dipinti
ispirarono la poesia plathiana “On the decline of oracles”). Malacandra
rappresenta il tipo di Ulisse, un estroverso che indaga il mondo fenomenico al
fine di meglio orientarsi dentro di esso. Perelandra raffigura quello della
ninfa Calipso, un’introversa che irretisce allo scopo di condurre il suo
prescelto sul versante del metempirico: si tratta in tutti questi casi di
un’allegoria della dialettica “anima/animus”, “complesso dell’Io sessuale /
complesso psicosessuale di complemento”, la quale auspica un’armonizzazione e
un’integrazione delle due componenti (individuazione junghiana), in luogo del
suo opposto (il che darebbe origine a manifestazioni di disagio mentale dalla
gamma variabile). A proposito di questo tema si può leggere a pag. 28 della mia
monografia menzionata nella nota 2.
6 Vedasi a tal
proposito nel mio lavoro intitolato “Considerazioni letterarie (2014)” la
sezione dal titolo “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi”.
7 “Sulla poesia
di Sylvia Plath (2016)”, alle pagg 9-12.
8 Ibidem, pagg
22-24.
9 Vedasi al
riguardo nella mia opera “Ermeneutica religiosa weiliana (2013)”, alle pagg.
3-4.
10 Stando a questo
distorto secondo punto di vista, sotto l’etichetta di “femminile” (in senso
lato, astratto) è confluito il resto di quanto è stato giudicato “deviato”
dalla presunta “normalità”. Da qui nel Cristianesimo traggono origine le
persecuzioni degli omosessuali e degli Ebrei. Nei riguardi di questi ultimi
basti pensare a come Weininger li collochi dentro la categoria (degenerata) del
“femminile” per rendersi conto del pregiudizio gravante su di loro. Nei
confronti degli omosessuali il cliché è il medesimo, tuttavia voglio
approfondire l’argomento secondo una prospettiva junghiana. Nell’edizione
definitiva de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Schopenhauer
affronta, dalla sua ottica, i temi dell’amore
e della sessualità umana in alcune note sezioni. Egli reputa che, a
priori, la Natura intervenga su uomini e donne attraverso le pulsioni sessuali,
spingendoli mediante una condotta fuori del controllo razionale ad accoppiarsi
a fini procreativi (a tutela della prosecuzione della specie). Nella visione
del filosofo tedesco, un input arriverebbe dall’esterno allo scopo di garantire
l’ingresso nel mondo fenomenico di un nuovo essere umano, la cui nascita sarebbe
già stata decisa. Sono d’accordo con Schopenhauer (e Platone) che l’anima
sostanziale abbia una fase prenatale: per l’autore di “Die welt als wille und
vorstellung” in particolare si tratterebbe del preludio suddetto. Egli, in
questo ripetitivo, a suo avviso insensato, meccanismo rintraccia una
spiegazione dell’omosessualità. La Natura indirizzerebbe i soggetti inidonei a
procreare individui all’altezza di affrontare l’esistenza umana verso soggetti
del proprio genere sessuale. Qua dissento da Schopenhauer. Penso che, invece,
nell’ambito della psiche soggettiva sia un “imprinting”, proveniente dalla
forma biologica di una vita precedente, nei confronti del complesso dell’Io,
alla base di un orientamento gay. Tale “impronta” residuale sarebbe così intensa
ed evidente sopra l’Io da far mutare l’assetto psichico personale. Quindi, in
un uomo omoerotico passivo-soggettivo, l’ordine degli archetipi a guida della
parte cosciente e del contrapposto complementare complesso junghiano di
riferimento sessuale nella parte inconscia sarebbe “invertito”: non
“animus/anima”, bensì “anima/animus” (una cosa speculare accadrebbe in una
donna lesbica). Nei casi di ogni omoerotico attivo-oggettivo non c’è
“inversione archetipica interiore”, ma solo “inversione oggettuale esteriore”
(questi soggetti ricercherebbero il “femminile” o il “maschile” che non trovano
in una donna o in un uomo in un omoerotico passivo-soggettivo). Pertanto,
secondo simile teoria (di cui ignoro un’eventuale altrui formulazione), in un
corpo maschile potrebbe albergare una donna (e viceversa). In un soggetto
siffatto non ci sarebbe formalmente nulla di “deviato” nell’individuale
ordinamento psichico: la dialettica “anima/animus” non verrebbe meno. Il
problema di comprensione del fenomeno si manifesta in funzione della veste
corporea, la quale non rispecchierebbe l’ordine interno. Sottolineando che non
ho parlato di una “malattia”, concludo il mio argomentare con dei corollari.
L’omoerotismo passivo-soggettivo è: a) una dimostrazione dell’esistenza di un’anima
sostanziale (“Io penso” kantiano, complesso dell’Io cosciente), e di b) una sua
esistenza prenatale quanto meno in una sfera metafisica o c) in aggiunta in una
o più vite nel mondo dei fenomeni (metempsicosi). Adesso è il momento di
tornare al filo generale, non prima però che io abbia indicato la triade
“femminile” dei nemici della Cristianità: streghe, Giudei, omosessuali.
11 Di questi temi
ho già discusso in una sezione di un mio saggio: “Breve antropologia del diverso nell’antica Grecia” in “Donne
della libertà (2012)”.