LO SCHIAVO, LA DONNA, L’OMOSESSUALE
di DANILO CARUSO
Talvolta accennando alle pari opportunità viene ricordata l’antichità greca in modo imperfetto e approssimativo delineando paragoni sociologici che non contribuiscono a una conoscenza storica corretta. La donna e lo schiavo non stavano sullo stesso piano socio-giuridico. Alla schiavitù erano sottoposti sconfitti in guerra e non Greci: il primo caso godeva di una giustificazione pratica (chi perdeva diveniva proprietà del vincitore), il secondo invece si avvaleva di motivazioni pseudo-biologiche (il barbaro era per natura colui che possedeva ridotte facoltà intellettive). Questa visione biologica colpiva anche le donne che erano ritenute di capacità mentali inferiori agli uomini. Per via di questo pregiudizio naturalistico la sorte femminile si accostava a quella dello schiavo dato che erano concepiti come due esseri cui faceva difetto in misura diversa il possesso integrale della razionalità. I ridotti in schiavitù erano alla stregua degli animali domestici (senza nessun diritto). Per fare un esempio chiarificatore: lo schiavo incaricato dal padrone di commettere un dolo non era imputabile del suo atto, l’unico responsabile era il mandante. La situazione delle donne era differente. Avendo come riferimento il concetto di minorenne si può dire che il loro status era di perpetua minorità, e non dava perciò adito a diritti di maggiorenni maschi. Ma non per questo erano ignorate dalle leggi. La famiglia doveva infatti avere un titolare maschio e alle varie evenienze si doveva sopperire necessariamente (fino al caso limite dell’adozione di un tutore). Un ruolo in cui le donne avevano rilevanza è quello del sacerdozio: una sacerdotessa poteva addirittura accedere a teatro con posto riservato, la qual cosa era in assoluto interdetta alla restante popolazione femminile (anche come attrici: le loro parti erano interpretate da uomini). Un altro ambito in cui avevano considerazione era quello dei riti funebri: solo loro, dispensatrici di vita, potevano accostarsi all’impurità di un cadavere e curarsi della sua preparazione per il funerale, affrontando il lato finale della morte. Questo accadeva ad Atene, mentre a Sparta a causa del costante impegno militare dei maschi erano maturati notevoli spazi di autonomia. Platone, ammiratore dell’ordinamento spartano, ne LA REPUBBLICA prospettò la liberazione dai pregiudizi di sorta e parlò di istruzione anche per le fanciulle e di accesso al mondo della politica in quanto le donne come appartenenti al genere umano partecipavano della razionalità nello stesso grado degli uomini. Il commediografo Aristofane ne LE DONNE ALL’ASSEMBLEA mise in scena un colpo di Stato al femminile ambientato nell’antica Atene la cui dimensione comica è molto indicativa. Nel divino il femminile si svuotava dei suoi aspetti sostanziali per diventare unicamente questione di forma. Una dea non aveva i presunti limiti intellettivi di una donna, ne manteneva le connotazioni esteriori e vari tratti, ma diveniva un dio al femminile. Nonostante il clima di emarginazione la grecità antica ha dato testimonianza di alcune donne di grandi qualità: vale la pena menzionare la poetessa Saffo che Platone, non a torto, definì la decima Musa. Nella visione antica le pratiche omosessuali (si vedano i tiasi, le scuole militari spartane, Atene, etc.) erano un fenomeno attinente alla sfera spirituale dell’individuo, non a quella biologica: l’unione di due persone di analogo sesso era qualcosa che si svolgeva al di là dell’ordine biologico, e il suo scopo era appunto un presunto arricchimento spirituale risultato di una particolare amicizia. Nonostante l’omosessualità fosse considerata una cosa normale (quasi naturale) dai Greci, a tal punto che quello che leggiamo nel SIMPOSIO di Platone – nell’esposizione di Aristofane – è una giustificazione della per noi normalità sessuale (e non viceversa una giustificazione del “vizio greco”), mai nessun governo – romano, ateniese, o spartano – ha mai elaborato una norma che parificasse una unione di fatto tra omosessuali al normale matrimonio tra persone di diverso sesso. Eppure i Greci ritenevano la per noi inversione un fenomeno molto significativo. La sostanza del loro ragionamento trovava una base nel fatto di distinguere il matrimonio vero (con la facoltà data della procreazione) da un’altra cosa che matrimonio non era (la famiglia normale, diceva Aristotele, è una “società naturale”): linguisticamente il matrimonio greco (γάμος) prevedeva un γαμέτες (sposo) e una γαμετή (sposa); il termine latino “matrimonium” è derivato da “mater” (madre), è naturalmente impossibile che in una coppia omosessuale qualcuno/a divenga “madre”.
di DANILO CARUSO
Talvolta accennando alle pari opportunità viene ricordata l’antichità greca in modo imperfetto e approssimativo delineando paragoni sociologici che non contribuiscono a una conoscenza storica corretta. La donna e lo schiavo non stavano sullo stesso piano socio-giuridico. Alla schiavitù erano sottoposti sconfitti in guerra e non Greci: il primo caso godeva di una giustificazione pratica (chi perdeva diveniva proprietà del vincitore), il secondo invece si avvaleva di motivazioni pseudo-biologiche (il barbaro era per natura colui che possedeva ridotte facoltà intellettive). Questa visione biologica colpiva anche le donne che erano ritenute di capacità mentali inferiori agli uomini. Per via di questo pregiudizio naturalistico la sorte femminile si accostava a quella dello schiavo dato che erano concepiti come due esseri cui faceva difetto in misura diversa il possesso integrale della razionalità. I ridotti in schiavitù erano alla stregua degli animali domestici (senza nessun diritto). Per fare un esempio chiarificatore: lo schiavo incaricato dal padrone di commettere un dolo non era imputabile del suo atto, l’unico responsabile era il mandante. La situazione delle donne era differente. Avendo come riferimento il concetto di minorenne si può dire che il loro status era di perpetua minorità, e non dava perciò adito a diritti di maggiorenni maschi. Ma non per questo erano ignorate dalle leggi. La famiglia doveva infatti avere un titolare maschio e alle varie evenienze si doveva sopperire necessariamente (fino al caso limite dell’adozione di un tutore). Un ruolo in cui le donne avevano rilevanza è quello del sacerdozio: una sacerdotessa poteva addirittura accedere a teatro con posto riservato, la qual cosa era in assoluto interdetta alla restante popolazione femminile (anche come attrici: le loro parti erano interpretate da uomini). Un altro ambito in cui avevano considerazione era quello dei riti funebri: solo loro, dispensatrici di vita, potevano accostarsi all’impurità di un cadavere e curarsi della sua preparazione per il funerale, affrontando il lato finale della morte. Questo accadeva ad Atene, mentre a Sparta a causa del costante impegno militare dei maschi erano maturati notevoli spazi di autonomia. Platone, ammiratore dell’ordinamento spartano, ne LA REPUBBLICA prospettò la liberazione dai pregiudizi di sorta e parlò di istruzione anche per le fanciulle e di accesso al mondo della politica in quanto le donne come appartenenti al genere umano partecipavano della razionalità nello stesso grado degli uomini. Il commediografo Aristofane ne LE DONNE ALL’ASSEMBLEA mise in scena un colpo di Stato al femminile ambientato nell’antica Atene la cui dimensione comica è molto indicativa. Nel divino il femminile si svuotava dei suoi aspetti sostanziali per diventare unicamente questione di forma. Una dea non aveva i presunti limiti intellettivi di una donna, ne manteneva le connotazioni esteriori e vari tratti, ma diveniva un dio al femminile. Nonostante il clima di emarginazione la grecità antica ha dato testimonianza di alcune donne di grandi qualità: vale la pena menzionare la poetessa Saffo che Platone, non a torto, definì la decima Musa. Nella visione antica le pratiche omosessuali (si vedano i tiasi, le scuole militari spartane, Atene, etc.) erano un fenomeno attinente alla sfera spirituale dell’individuo, non a quella biologica: l’unione di due persone di analogo sesso era qualcosa che si svolgeva al di là dell’ordine biologico, e il suo scopo era appunto un presunto arricchimento spirituale risultato di una particolare amicizia. Nonostante l’omosessualità fosse considerata una cosa normale (quasi naturale) dai Greci, a tal punto che quello che leggiamo nel SIMPOSIO di Platone – nell’esposizione di Aristofane – è una giustificazione della per noi normalità sessuale (e non viceversa una giustificazione del “vizio greco”), mai nessun governo – romano, ateniese, o spartano – ha mai elaborato una norma che parificasse una unione di fatto tra omosessuali al normale matrimonio tra persone di diverso sesso. Eppure i Greci ritenevano la per noi inversione un fenomeno molto significativo. La sostanza del loro ragionamento trovava una base nel fatto di distinguere il matrimonio vero (con la facoltà data della procreazione) da un’altra cosa che matrimonio non era (la famiglia normale, diceva Aristotele, è una “società naturale”): linguisticamente il matrimonio greco (γάμος) prevedeva un γαμέτες (sposo) e una γαμετή (sposa); il termine latino “matrimonium” è derivato da “mater” (madre), è naturalmente impossibile che in una coppia omosessuale qualcuno/a divenga “madre”.