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mercoledì 24 luglio 2013

ROMA E CARTAGINE


ALLA RADICE DELL’ODIO

di DANILO CARUSO


Lo scontro nel mondo antico tra Cartaginesi e Romani segnò in maniera decisiva lo sviluppo della civiltà europea. Il teorico nazista Alfred Rosenberg lo prese ad esempio nei suoi ragionamenti pseudoscientifici, in quella che avrebbe dovuto essere una dimostrazione della storia d’Europa come dialettica tra ariani e semiti. L’appartenenza a gruppi etnici differenti è scontata, ciononostante le motivazioni di quel confronto, che finì per annientare uno dei due contendenti, non c’entravano niente con i pregiudizi razziali, ed erano di natura prettamente politico-economica: in palio c’era la supremazia nel Mediterraneo occidentale (che avrebbe spianato la strada verso il Levante greco ed ellenizzante).
La storiografia filoromana riconobbe a Roma una missione civilizzatrice e unificatrice: l’epica latina toccò varie volte questi temi, e nella rivisitazione poetica della fatale dicotomia “Roma / Cartagine” dell’Eneide virgiliana il poeta mantovano proiettò a posteriori all’interno del racconto le ragioni seminali mitiche di quello che la storia avrebbe registrato realmente. I Troiani, diretti alla volta del Lazio col compito assegnato dal destino di rifondare la patria città, sono colpiti da una tempesta e trascinati sulle coste africane. Nelle vesti di cacciatrice, Venere, madre di Enea, gli spiegherà dove si trova (Eneide, canto I, versi 338-368; nella traduzione di Giuseppe Vergara, Fratelli Conte Editori, 1987).


Punico regno tu vedi, la rocca d’Agenore e i Tiri,
– libico suolo però – nella guerra indomabile stirpe.
Tiene il comando Didone, la quale, partita da Tiro,
sta sfuggendo il fratello. L’offesa è lunga a narrare,
lunghe le trame; esporrò solo i punti salienti dei fatti.
Era suo sposo Sicheo, di terre il più ricco fenicio,
che con ardore profondo la misera amava: suo padre.
dandola a lui, l’aveva congiunta coi primi rituali,
vergine. Aveva però suo fratello il regno di Tiro,
Pigmalione, su tutti per efferatezza il più tristo.
Odio nacque tra loro. Quell’empio davanti agli altari,
cieco per brama dell’oro, trafigge l’incauto Sicheo
fuor d’ogni vista, di spada, non dando alcun peso all’affetto
della sorella; e celò lungamente il misfatto, e sleale,
molto fingendo, illuse di vana speranza l’amante
mesta. Ma in sogno le venne del non sepolto marito
l’ombra, levando uno sguardo terribilmente spettrale:
l’are crudeli ed il petto mostrò, trafitto da spada,
mise in luce l’intero segreto delitto di casa.
Quindi l’invita a lasciare la patria e mettersi in fuga;
quale soccorso al viaggio, le svela aviti tesori
posti sotterra: gran massa, non nota, d’oro e d’argento.
Scossa, Didone dispose la fuga e scelse i compagni.
Quanti nutrivano vivo terrore o odio feroce
contro il tiranno fan lega. Rapiscono e colmano d’oro
navi per caso già pronte sul molo. Sono portate
via per mar le sostanze di Pigmalione l’avaro.
Guida l’impresa una donna. Pervennero qua, dove vedi
mura e la grande città di Cartagine nuova che sorge;
contrattarono un suolo – dal fatto ebbe il nome di Birsa –
quanto potessero intorno con pelle d’un toro abbracciare.



Accolto benevolmente da Didone, Enea è costretto a interrompere il rapporto sentimentale con la regina che «ruppe fede al cener di Sicheo».
Ella, «che s’ancise amorosa», poco prima del suicidio lancia la sua maledizione (Eneide, canto IV, versi 607-629; nella traduzione di Giuseppe Vergara, Fratelli Conte Editori, 1987).


Sole, tu che percorri coi raggi ogni opera umana,
tu, o Giunone che sai, che provochi questi tormenti,
Ecate, cui si grida nei trivi di notte,
Furie vendicatrici, voi dei d’Elissa che muore,
datemi ascolto, volgete la giusta potenza sugli empi;
me, che vi prego, esaudite. Se proprio bisogna che un porto
tocchi quell’uomo infame, che navighi verso le terre,
se lo richiede il volere di Giove, se questa è la meta:
perseguitato da guerre, dall’armi d’un popolo audace,
messo al bando dal luogo, strappato all’abbraccio di Iulo,
debba almeno implorare soccorso e vedere un’indegna
strage dei suoi; non goda del regno o d’amabile vita
dopo aver sottoscritto dei patti iniqui di pace;
muoia, piuttosto, anzitempo, restando su un lido insepolto.
Questo imploro, col sangue quest’ultimo grido profondo.
D’ora in poi, miei Tiri, vessate, odiate la stirpe,
tutta la razza a venire: sia questo il funebre omaggio
vostro per me. Non amore né patto fra i popoli nasca.
Sorgi, o vendicatore, chiunque tu sia, dall’ossa
mie e col fuoco, col ferro sta’ dietro ai coloni troiani
oggi, domani, ogni volta che a ciò basteranno le forze.
Lidi ai lidi contrari, che ai flutti s’oppongano l’onde
chiedo, le armi alle armi; combattano loro e i nipoti.



La coppia letteraria “Enea / Didone” colloca i suoi componenti su due distinti livelli: quello dell’elegia per la regina di Cartagine e quello schiettamente epico per il condottiero troiano (anch’egli accomunato nella sorte di profugo coi suoi).
Il primato spettò a quest’ultimo, all’epica che si fa storia nella narrazione dell’origine di Roma (fondata nel 753 a.C.), e alla storia che si fa epica nella celebrazione di un futuro (storicamente già passato) di grandezza. Cartagine, fondata nell’814 a.C. (tutte le successive date sono da intendersi a.C.) e posta in un punto strategico per i commerci nel Mediterraneo, aveva concretizzato la sua vocazione mercantile e marina con la creazione di un dominio che, in aggiunta al Nord Africa (dallo Stretto di Gibilterra ai confini dell’Egitto tolemaico), si allargava ad altre colonie fenicie, alla Sicilia orientale, alla Sardegna, alla Corsica, alle Baleari, e alla fascia territoriale spagnola del sud. Dopo la morte del tiranno siracusano Agatocle i Cartaginesi avevano colto l’opportunità (289-285) di occupare gran parte della Sicilia, ma i Sicelioti reagirono chiedendo l’intervento di Pirro.
Cartagine temendo l’ambizione del re epirota spinse nel 278 Roma ad accettare una coalizione. I Romani, in guerra dal 282 contro Taranto (colonia spartana) sostenuta da Pirro, erano stati più volte sconfitti dagli Epiroti (presenti in Italia dal 281 con l’obiettivo di estendere il proprio regno).
Si definirono così due aree di competenza bellica: ai Punici la Sicilia, ai Romani la penisola italica interessata; inoltre l’accordo prevedeva che questi ultimi, in mare appoggiati dai primi, non potessero stipulare con gli Epiroti la conclusione del conflitto senza la loro approvazione. Pirro nel 277-276 riuscì a liberare quasi del tutto la Sicilia, tuttavia l’opposizione delle città greche ai suoi progetti lo portò a lasciare l’isola. Ritornato nell’Italia continentale, e sconfitto nel 275 dai Romani a Benevento, decise di far ritorno in patria e di spostare la sua azione politica principale in Grecia. Morto nel 273, nel 272 il distaccamento militare epirota a Taranto si arrese all’assedio romano. I Punici avevano auspicato, invano, una resa anche nelle loro mani (per la quale avevano inviato delle navi da guerra al largo della città, preoccupando così i Romani). Il trattato commerciale punico-romano del 508, riproposto nel 348 e nel 306, stabiliva due sfere d’influenza, conformi al piano bellico: l’interdizione all’ingerenza politica riguardava la Sicilia per Roma e la penisola per Cartagine.
I Romani gli unici a guadagnarci contro Pirro, controllavano ormai l’Italia peninsulare; i Cartaginesi avevano ristabilito il loro precedente controllo in Sicilia, però molti centri italioti con i loro importanti porti erano caduti in mani romane. Scomparso il comune nemico e fatti propri gli interessi socioeconomici della Magna Grecia, Roma si preparava a fronteggiare la potenza navale punica, ai cui indirizzi era stata costretta ad accondiscendere durante la prima parte del contrasto epirota. Un segno dei tempi mutati, e di una migliore considerazione, fu l’offerta d’amicizia di Tolomeo Filadelfo, re d’Egitto, inviata nel 273 a Roma. Nel 270 poi i Romani conclusero un’intesa con Gerone II di Siracusa (un ex ufficiale di Pirro). Quando i Mamertini di Messina, in difficoltà di fronte ai Siracusani, invocarono nel 265 il sostegno cartaginese, per i Romani non fu tollerabile avere la grande potenza mediterranea alle porte, e in grado di destabilizzare l’ordine interno della confederazione romano-italica (nella quale alcune popolazioni precedentemente rivoltatesi mal sopportavano il domino di Roma). Nell’estate del 264 scoppiò il primo bellum punicum: nel 264-262 Roma liberò la Sicilia orientale dall’influenza nemica dopo aver intrattenuto pure un breve conflitto con Siracusa, restia a favorire la sua presenza nell’isola; nel 260 una flotta di 120 navi da guerra romane, allestita per quegli eventi bellici, sconfisse i Cartaginesi vicino a Milazzo (la battaglia navale si era tramutata in uno scontro corpo a corpo grazie all’ingegnoso sistema d’abbordaggio dei corvi adottato dai Romani); importanti vittorie di Roma nel 257 si unirono a quella significativa nel 256 al capo Ecnomo (presso Licata), fu dato così modo di spostare il teatro di guerra in Africa: il positivo inizio delle operazioni romane culminò con la sconfitta e la cattura di Marco Attilio Regolo, che aveva in precedenza preteso condizioni giudicate eccessive durante delle trattative di pace.
A successive fasi alterne della lotta seguì l’azione di logoramento, iniziata nel 247 dal generale punico Amilcare Barca, per fiaccare le forze romane (che avevano rifiutato una nuova proposta di pace); ma la rinnovata armata navale (rimediato alle perdite pregresse) consentì a Roma di ottenere la vittoria decisiva alle Egadi (241): la Sicilia, con l’eccezione del territorio di Siracusa divenne dominio romano e nel 227 venne proclamata provincia romana.
Cartagine pagò il suo errore di valutazione nell’aver coinvolto Roma nel grande scenario mediterraneo, di conseguenza costringendola a adeguarsi militarmente a una politica navale di rilievo, e la pessima abitudine di condannare a morte i generali battuti, pratica che compromise le capacità dei quadri dirigenti dell’esercito. Le prospettive di ripresa punica si concentrarono sull’espansione in Spagna, il che turbò i Romani, i quali, approfittando dell’altrui instabilità interna, tolsero a Cartagine pure la Sardegna (235), che unita alla Corsica nel 227 diventò altra provincia romana: il Mar Tirreno si era trasformato in un Mare Nostrum. All’avanzata cartaginese in armi nella penisola iberica fu inoltre preteso e fissato un limite a nord lungo il fiume Ebro (226).
La rinascita economica e militare di Cartagine, agevolata dalle risorse spagnole, fu celere, tant’è che Annibale (figlio di Asdrubale, succeduto a propria volta al fratello Amilcare Barca nella sua conduzione), giudicò che era giunto il momento della rivincita e conquistò Sagunto (219), in terra iberica, alleata dei Romani. Fu di nuovo guerra aperta. Il secondo bellum punicum ruota tutto attorno alla figura di Annibale, il vindice vaticinato da Didone, il quale nel 218 dalla Spagna calò in Italia oltrepassando le Alpi. In quel periodo Cartagine non aveva timori sul fianco egiziano, mentre sperava nelle complicazioni che potessero provocare ai Romani le pressioni macedoni e celtiche dall’esterno.
I Macedoni impegnati in Grecia non poterono prontamente attaccare Roma, in compenso i Punici, che ottennero subito un paio di vittorie (nelle vicinanze dei fiumi Ticino e Trebbia), ingrossarono le loro file con disertori galli: una delle aspettative principali che aveva animato Annibale era una sollevazione di Italici contro Roma tale da riportarla alla situazione geopolitica precedente le guerre sannitiche. Nonostante i Romani subissero rilevanti sconfitte e l’ostilità di alcune genti meridionali passate al nemico, i Cartaginesi concentratisi in Puglia, pur continuando a vincere a Canne (216), incontrarono difficoltà nei tentativi di espugnare i centri militari antagonisti e non riuscirono a demolire la tenuta della confederazione romano-italica.
Inoltre Siracusa, alla morte di Gerone II, schieratasi nel 215 con Annibale tornò l’anno successivo dalla parte dei Romani: occupata da costui nel 213 fu riconquistata nel 211 e aggregata nella provincia siciliana. Nel 215 un tentativo macedone di occupare i possedimenti di Roma sull’Adriatico orientale fallì. La prima fase della guerra in Spagna (iniziata nel 218) e in Africa arrideva ai Romani: nella penisola iberica colsero notevoli vittorie, e in terra africana i Numidi, ugualmente a popolazioni spagnole, si erano ribellati a Cartagine. I Punici nel 211 erano giunti a pochi chilometri da Roma, ma senza l’intenzione d’impegnarsi in un uno scontato lungo e pericoloso assedio. Annibale aveva trascurato completamente nel suo progetto di rivalsa l’allestimento di una flotta utile per il trasporto di rinforzi, al contempo da contrapporre a quella romana, che garantiva protezione sul mare. La contesa proseguì con circostanze alternate: le regioni iberiche perse furono rioccupate assieme a tutta la Spagna da Publio Cornelio Scipione (il futuro Africano), il quale conseguì tre vittorie fondamentali (Cartagena nel 209, Becula nel 208, Silpia nel 207) che privarono Cartagine delle ricchezze spagnole.
Dal 210-209 Annibale cominciò a indietreggiare: il fratello Asdrubale passato come lui con un esercito dalle Alpi fu sconfitto e ucciso nella battaglia del Metauro (207); la penisola era quasi del tutto ritornata sotto il controllo romano poiché il primo rimasto senza aiuti ripiegò verso l’estremo sud.
Sul fronte macedone il conflitto si concluse nel 205 con un accordo che privava i Punici di un importante alleato. Senza più inquietudini ai fianchi orientale e occidentale Roma guardava verso l’Africa per concludere le ostilità. Publio Cornelio Scipione, sebbene il Senato non fosse favorevole all’impresa, vi sbarcò nel 204 trovando il sostegno dei Numidi guidati da Massinissa (contrari a quelli filopunici del re Siface): i Cartaginesi ormai chiedevano la pace, però due negoziati non ebbero esito positivo; l’ultimo per via del ritorno in patria di Annibale (203), richiamato per fronteggiare i Romani (nello stesso 203 il fratello Magone aveva cercato infruttuosamente di portare altre milizie puniche in Italia).
L’acerrimo nemico di Roma, il grande stratega imbattuto, fu irrimediabilmente vinto a Zama alla fine del 202: la città di Elissa aveva perso la guerra e il suo ruolo di potenza mediterranea, le furono imposte pesantissime condizioni di resa che cancellarono le ambizioni della politica espansionistica promossa dalla fazione interna barcide, una politica che alla fine si rivelò essere, negli sbagli di giudizio e nella sua inasprita attuazione, causa della sua rovina. Annibale fu esiliato, inviso all’oligarchia punica, a causa delle conseguenze del suo operato, e dietro pressione romana, nel 196; nel 183 si suicidò, dopo una vita spesa ad odiare e combattere fino all'ultimo con ogni mezzo Roma, per evitare di essere catturato vivo dai suoi avversari di sempre. Quantunque ridotta al solo territorio africano e senza forza militare, Cartagine rifiorì economicamente: il timore che queste risorse potessero essere sfruttate da altri a loro discapito indusse i Romani alla decisione radicale di cancellare l’insediamento urbano.
Sono note le parole di Catone il censore (234-149): «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam». Nel contesto di un conflitto numida-punico, che violava l’imposta clausola di non belligeranza senza consenso, Roma propose la ricostruzione dell’abitato sull’entroterra. I Cartaginesi rifiutarono: la città fu assediata (149-146), espugnata e quindi totalmente distrutta. Le sue terre divennero la nuova provincia d’Africa. Alla fine di questo terzo bellum punicum il Mediterraneo centroccidentale era saldamente sotto il controllo dei Romani.