di DANILO CARUSO
La guerra del Peloponneso, combattuta su un ambito geografico più ampio di questa regione greca, rappresenta uno scontro civile di natura egemonica e ideologica non solo nel contesto del dualismo ellenico “Atene / Sparta”, ma significativamente anche alle radici della civiltà occidentale.
La guerra del Peloponneso, combattuta su un ambito geografico più ampio di questa regione greca, rappresenta uno scontro civile di natura egemonica e ideologica non solo nel contesto del dualismo ellenico “Atene / Sparta”, ma significativamente anche alle radici della civiltà occidentale.
È il paradosso di come l’antica democrazia dell’alternanza promuova un
autodistruttivo duello imperialista e divida la Grecità in due opposti
schieramenti di lotta e di pensiero. Allo scoppio, con Sparta e il Peloponneso
stavano: le corinzie Ambracia, Anattorio, Leucade; Locri e Megara; i Beoti e i
Focesi. Con Atene e i centri del suo impero: Chio, Corcira, Lesbo, Zacinto,
Platea, i Messeni profughi a Naupatto e gran parte degli Acarnani. Lo storico
ateniese Tucidide, che vi combatté fino al suo presunto esilio (424 a.C.; tutte
le date seguenti sono analogamente a.C.), vi dedicò un’opera di ricerca e di
analisi. Dopo l’ultima vittoriosa guerra
persiana (terminata con la pace del 448) gli Ateniesi, che erano stati
contemporaneamente impegnati dal 461 in un conflitto con gli ex cobelligeranti
lacedemoni, stipularono con questi ultimi una tregua trentennale nel 445.
Benché le clausole fossero eque e garantissero alle due tradizionali rivali
città greche la possibilità di mantenere posizioni di forza, la politica
espansionistica perseguita dal governo democratico ateniese guidato da Pericle
pregiudicò l’equilibrio.
Tutto principiò con l’intromissione nel 437 in uno scontro fra la
corinzia comunità di Ambracia ed Epiroti, a vantaggio di costoro. L’anno
seguente nella corcirese Epidamno era stato abbattuto il regime oligarchico,
poi restaurato dopo una sconfitta marittima di Corinto (435), intervenuta a
sostegno dei democratici corciresi malgrado l’impegno di Sparta a mediare fra
le parti. I timori dei propositi di rivalsa corinzi indussero Corcira ad
allearsi con Atene (questi due centri possedevano le più grandi marine militari
in Grecia).
Il proposito di Corinto di occupare Corcira fallì nel 433. A seguito di
ciò aderirono alla Lega navale
delio-attica capeggiata dagli Ateniesi: Zacinto, Leontini, Reggio (le
ultime due a scapito della corinzia Siracusa). Pericle, che aspirava alle
ostilità, pensò di creare un casus belli con l’opposta Lega peloponnesiaca diretta dagli Spartani intimando una serie di
atti di sottomissione agli alleati, di origine corinzia, di Potidea.
Però questi, contrariamente alle attese, sostenuti dai Macedoni e da
Corinto si staccarono dalla Lega navale.
Perdicca II di Macedonia, osteggiato in precedenza dagli Ateniesi, provocò la
ribellione di altri loro alleati in quella regione. Atene perciò si trovò
invischiata in una crisi bellica non prevista. Come conseguenza di quest’errore
di valutazione Pericle fece dichiarare l’interdizione commerciale dei Megaresi
dal territorio della Lega delio-attica,
contravvenendo alle libertà previste dall’accordo del 445. I rappresentanti
della Lega peloponnesiaca, riunitisi
a Sparta nel 432 dietro sollecitazione di Corinto, riconobbero le infrazioni di
Atene, la quale, restia a revocare l’interdizione a Megara, ricevette nel 431
la dichiarazione di guerra lacedemone.
Gli Ateniesi partivano col favore della superiorità economica e
militare della propria lega di fronte a quella avversaria (il che spiega il
ritardo di Sparta a iniziare le operazioni militari). Non riuscito un tentativo
tebano di conquistare Platea, i Peloponnesiaci proseguirono con una manovra a
tenaglia: i Beoti da nord e un esercito da sud invasero l’Attica (la cui popolazione
era stata interamente concentrata nella capitale). La risposta ateniese mirò a
colpire le coste peloponnesiache. Così per due anni, ma dal 429, dopo la
distruzione recata da Pericle l’anno prima nella regione megarese, la
situazione cominciò a mettersi male per Atene: il contagio della peste –
arrivata nella città dall’Africa nord-orientale – si era allargato alla flotta
comandata personalmente da Pericle in rotta verso il Peloponneso, e agli uomini
d’arme impegnati a Potidea.
Lo statista, sfumata un’iniziativa ateniese per sospendere la
belligeranza, a causa del dilagante malcontento popolare alla fine del 430 era
stato privato della conduzione della guerra e sottoposto a processo: venne
dichiarato responsabile di gravi colpe nei confronti dello Stato e condannato a
una pena pecuniaria. Alla resa di Potidea seguì per gli Ateniesi la disfatta di
Spartolo durante lo sforzo per sconfiggere gli associati rivoltosi calcidesi.
Alcuni successi navali e la temporanea desistenza spartana dall’invadere
l’Attica, per via della peste, non migliorarono le cose. Cosicché la guida
delle azioni belliche fu di nuovo assegnata a Pericle, che scampato
precedentemente dalla condanna capitale non riuscì a salvarsi dal contagio
pestilenziale, e morì nel settembre del 429.
Sulla scena politica attica, privata del suo autorevole leader,
emersero due figure di opposto raggruppamento: il democratico Cleone (già
oppositore di Pericle) e il conservatore Nicia (cui fu affidata la direzione
della guerra, che da questo momento assunse i connotati di scontro ideologico
tra l’ideale ateniese di democrazia e quello spartano
oligarchico-conservatore). Il biennio 428-429 fu caratterizzato dalle
sollevazioni contro Atene a Corcira e Lesbo. La lesbia Mitilene, che era
passata al gruppo dei Peloponnesiaci, riconquistata dagli Ateniesi nel 427,
rischiò di essere rasa al suolo e la sua gente parte uccisa parte venduta ai
mercanti di schiavi. Prevalse infine un orientamento più moderato di quello dei
democratici massimalisti rappresentato da Cleone (maggioritario sulla scia
della primordiale onda emotiva). In quello stesso anno i Lacedemoni espugnarono
Platea distruggendola, e gli Ateniesi restaurarono con la forza il governo
democratico corcirese.
Questi intervennero inoltre nel 427-426 con successo in Sicilia, dove
la guerra coinvolgeva da un lato Siracusa e Locri e dall’altro Reggio e
Camarina. Tra altalenanti umori e aspirazioni alla riconciliazione dei
contendenti il conflitto continuò con una rinnovata impresa navale siciliana
(425) durante la quale una piccola frazione della flotta fu impegnata in una
manovra bellica in Messenia all’isola di Sfacteria. I Peloponnesiaci dopo un
iniziale sopravvento – dovuto ai rinforzi – furono battuti in mare a giugno
dalle navi nemiche di rientro dalla Sicilia.
Poiché tra gli altri finirono assediati anche 180 Spartiati il governo
laconico era disposto a concludere la belligeranza pur di liberarli (infatti
consegnò temporaneamente dietro richiesta avversaria la propria flotta nel
settore al nemico). Tuttavia ad Atene era prevalso sin allora lo schieramento
oltranzista di Cleone, favorevole alla guerra, che fece andare a monte le
trattative di pacificazione, alle quali era invece favorevole il ricco
conservatore Nicia, che dal canto suo – sperando in una disfatta – indusse
l’inesperto Cleone a portare avanti le operazioni a Sfacteria. Costui però
delegò le sue funzioni sul campo a Demostene (conduttore delle azioni militari
precedenti nella zona) ottenendo così la vittoria e una rinnovata domanda
lacedemone di tregua (respinta). Lo scontro procedeva.
Nicia nel giugno del 424 occupò l’isola di Citera, e pochi mesi dopo
gli Ateniesi s’impossessarono pure del porto di Megara a Nisea. Gli Spartani,
sollecitati dal generale Brasida, mutarono dunque la loro strategia, e decisero
di colpire non più l’Attica, bensì la penisola calcidica, territorio della lega
nemica esposto a maggiori contraccolpi per Atene. Brasida, con l’obiettivo di
generare l’allontanamento dagli avversari delle città costiere, appoggiato da
Perdicca e dalle comunità di Acanto e Stagira, passate alla sua parte, nel 424
conquistò per via di terra Anfipoli. Questo effetto generalizzato fu
direttamente prodotto dalla prosecuzione delle azioni navali in Sicilia dato
che i Sicelioti – alleati e non – temettero le mire imperialistiche ateniesi al
punto di rappacificarsi a giugno.
Inoltre il progetto ulteriore di invadere la Beozia, in collaborazione
coi democratici dissidenti della regione, fece fallimento miseramente sul campo
di battaglia verso la fine di quell’anno. Nel 423 gli animi dei belligeranti,
condizionati da un lato da questi ultimi fattori e dall’altro preoccupati del
crescente peso interno di Brasida, operarono in favore di un armistizio di 12
mesi, che non ebbe conclusione positiva per il fatto che nella Calcidica la
situazione era sfuggita di mano ad Atene: le città associate continuavano a
fuoruscire dalla Lega delio-attica.
Allora negli ultimi mesi del 422 Cleone si recò nell’area con delle
truppe allo scopo di recuperarle all’impero. Ma in un combattimento nei pressi
di Anfipoli fu sconfitto trovando la morte similmente a Brasida. Senza i
leaders delle fazioni interne fautrici del conflitto panellenico, Sparta e
Atene raggiunsero nell’aprile del 421 un accordo cinquantennale di non belligeranza
(«pace di Nicia»): sulla sua base sarebbero tornate, su un versante, Citera e
Pilo (coinvolta nei fatti di Sfacteria) ai Laconici, sull’altro, Anfipoli con
gli altri centri dissociatisi antecedentemente agli Ateniesi (i quali avrebbero
mantenuto il controllo di Nisea e perduto Platea a beneficio dei Beoti).
Alla conclusione di questo primo periodo (431-421), denominato guerra archidamica (dal nome del re
lacedemone Archidamo, morto nel 427), Sparta aveva perso autorevolezza presso i propri alleati e Atene si ritrovava
in crisi socioeconomica a causa dei danni del conflitto (le finanze, la
produzione agricola, il tasso demografico – anche per la peste – ne avevano
riportato pesantissime conseguenze). Le comunità della Tracia meridionale
restituite agli Ateniesi si ribellarono. In più la delusione provocata dalla
pace stipulata da Nicia, che mirava a non recare offesa aggiuntiva agli
Spartani, spinse Atene a trattenere momentaneamente i 120 Spartiati superstiti
presi a Sfacteria e a fare durare l’occupazione di Citera e Pilo. Le difficoltà
dei Lacedemoni proseguivano con l’ostilità verso il trattato degli alleati
beoti, corinzi, megaresi ed elei, cosicché la capitale laconica stipulò
un’alleanza difensiva cinquantennale con Atene (a essa era garantita l’immunità
dai Beoti, e in contropartita rinunziava alle zone controllate con l’eccezione
di Citera, che avrebbe abbandonato dopo il recupero dei territori calcidici).
Un altro timore per i Laconici in quei momenti proveniva da Argo, città con cui
scadeva una tregua trentennale al principio del 420, e con la quale in seguito
a quest’ultima fase si coalizzarono Corinto, Mantinea, l’Elide e diversi centri
calcidici. Intanto al termine del 421 i sostenitori spartani dello scontro
primeggiavano sullo scenario politico cittadino, e Sparta rafforzava l’intesa
coi Beoti.
Pure nella capitale attica il recente indirizzo politico moderato era
mutato di segno col ritorno al potere dei democratici massimalisti, dentro al
cui gruppo si sviluppava la dialettica per la leadership tra Alcibiade – di
indole aristocratica, amico del filosofo Socrate – e Iperbolo. A partire dal
420 il primo si adoperò per legare in funzione difensiva la sua città
all’Elide, Mantinea e Argo, creando nel nord della penisola peloponnesiaca un
asse antispartano. Ciò preoccupò Corinto che si riavvicinò a Sparta. Nel 419 un
tentativo argivo, sostenuto militarmente dagli Ateniesi, di conquistare
Epidauro non andò in porto. Questo episodio principiò il riacutizzarsi delle
tensioni fra Delio-attici e Peloponnesiaci, ritornati per l’occasione a
scontrasi in campo. Alcibiade, che accusò i Lacedemoni di aver trasgredito gli
impegni bilaterali, finì ad Atene in secondo piano di fronte alla ripresa dei
conservatori guidati da Nicia. L’intenzione laconica di attaccare Argo causò
comunque la partecipazione ateniese in opposizione a Sparta, la quale
nell’agosto del 418 durante questa contesa ebbe la meglio con la battaglia di
Mantinea, per il cui effetto Argo, sciolta l’intesa con Atene, fu costretta a
unirsi agli Spartani, e Mantinea e l’Elide entrarono anche nella sfera
d’influenza di questi: l’intero Peloponneso cadeva sotto la supremazia
laconica. Alcibiade, che aveva sollecitato gli Argivi a reagire davanti a
Sparta, si ritrovò in discredito presso l’opinione pubblica ateniese, come
Nicia, che aveva fatto ritardare l’intervento armato di supporto.
Cercò di approfittarne Iperbolo per sbarazzarsi dei due rivali politici
con lo strumento dell’ostracismo, ma Alcibiade ottenuto l’appoggio del leader
conservatore determinò invece l’esilio dello stesso Iperbolo. D’ora in poi
l’intento di Nicia fu quello di rivolgere l’espansionismo attico ad aree fuori
dell’influenza spartana per evitare il risorgere della guerra. Così facendo
invogliò Atene (che si ritrovò contro anche Perdicca, ripassato ai Lacedemoni)
a insistere nella riconquista di Anfipoli. Questa strategia venne meno quando
nel luglio del 417 ad Argo i democratici, dopo aver cacciato dal governo gli
oligarchici, ottennero la riconferma della precedente coalizione con Atene, la
quale l’anno successivo s’impadronì inoltre della dorica isola di Melo,
formalmente neutrale, ma legata a Sparta, senza che quest’ultima rispondesse
paventando di essere sconfitta sul mare.
Nel 416 le vicende siciliane prospettarono l’opportunità di un nuovo
intervento militare ateniese nell’isola richiesto dall’elima Segesta assalita
dalla dorica Selinunte (che aveva imitato l’esempio di Siracusa nei confronti
della calcidese Leontini, attaccata e rasa al suolo). Fu pianificata una
spedizione, caldeggiata da Alcibiade che ne ambiva il comando, e favorita dai falchi democratici e conservatori, con
l’obiettivo di istituire in Sicilia una netta egemonia attica.
Lo stesso Nicia seppur apertamente sostenitore di un previo
consolidamento nei territori traci ribelli vedeva nella sua ottica filolaconica
il progetto di buon occhio poiché i Lacedemoni erano pure propensi a evitare il
confronto navale a causa dell’inferiorità della loro marina: propose e ottenne
un notevolissimo rafforzamento dell’invio, che passò da 60 triremi a 134 (con
un contingente di 6.500 uomini). Il 22 maggio 415 l’euforia degli Ateniesi,
speranzosi di andare al di là della semplice difesa degli alleati siciliani
attraverso l’assoggettamento dell’intera isola, fu turbata dalla scoperta che
le erme cittadine erano state tutte danneggiate. La cosa assunse una rilevanza
giuridica (in aggiunta a essere considerata un presagio funesto) e nello
svolgimento delle indagini Alcibiade venne accusato di empietà in relazione a
un altro più o meno credibile fatto. Egli chiese la celebrazione immediata del
suo processo prima dell’allontanamento della flotta per l’impresa siciliana
(alla cui guida era stato designato con Nicia e Lamaco), ma ebbe un rinvio sino
alla conclusione della stessa, data la deterrenza che esercitava come
contraccolpo la possibile reazione dell’esercito in partenza. La presenza
ateniese in Magna Grecia e Sicilia fu accolta tepidamente: Turi, colonia
ateniese, restò al di fuori della contesa; a Reggio l’armata navale non poté insediare
un punto di coordinamento (cosa fatta a Catania per mezzo di un’azione senza
preavviso). Nella scelta della strategia bellica da adottarsi all’interno della
triade preposta alla conduzione prevalse il punto di vista di Alcibiade che
prevedeva di assalire innanzitutto i centri più indifesi, creare un circuito di
alleanze, e quindi colpire Siracusa. Contemporaneamente in patria le ricerche
degli ermocopidi (mutilatori-di-erme)
di agosto continuavano a prestare il fianco ai rivali democratici e oligarchici
dell’ambizioso politico, cui fu ordinato di ritornare ad Atene: prelevato da
un’imbarcazione, durante lo scalo a Turi decise di scappare.
Condannato in contumacia e trasferitosi a Sparta per sostenerne le
iniziative nella guerra in corso, divenne un nemico della sua città. Intanto
gli Ateniesi in Sicilia al termine dell’anno condussero due vittoriose comunque
infruttuose azioni belliche a Segesta e a Siracusa. Nel maggio del successivo
414 Nicia, dopo aver ricevuto un’integrazione del contingente con reparti
(ateniesi e siculi) di cavalleria (che erano mancati in precedenza per ottenere
risultati più concreti), provò nuovamente a prendere Siracusa assediandola per
mare e per terra, cercando di isolarla (in questa fase fu ucciso in battaglia
Lamaco).
Sembrava che la comunità aretusea stesse per capitolare quando ad
agosto arrivarono aiuti – consigliati da Alcibiade e sollecitati dai Siracusani
– guidati dallo Spartano Gilippo, partiti dall’isola di Leucade su pochissime
navi (una coppia lacedemone e una corinzia) ancor prima del completamento dei
preparativi della flotta peloponnesiaca (che prevedeva altre 13 imbarcazioni
corinzie).
Passando dallo stretto di Messina e approdando a Imera, da dove aveva
raggiunto Siracusa assieme a rinforzi siculi e sicelioti (imeresi, selinuntini
e geloi), Gilippo ruppe l’assedio ateniese, facendo saltare il piano
avversario. Nicia in palese difficoltà chiese alla madrepatria di rafforzare
l’impegno militare in Sicilia e manifestò la volontà di rinunziare alla
direzione dell’impresa.
Ulteriori aiuti pervennero ai Siracusani, e di due battaglie marittime
davanti alla città gli Ateniesi persero la seconda subendo gravissime
menomazioni navali. Atene, che nel frattempo era intervenuta nell’Argolide
invasa da Sparta e aveva deciso – in violazione del trattato di pace – di
colpire le coste peloponnesiache, mandò all’inizio del 413 in due momenti dei
sostegni. Quando a primavera partì la seconda spedizione navale ateniese i
soldati peloponnesiaci erano entrati nell’Attica rendendo difficili le
comunicazioni a nord-ovest. La flotta attica, comandata da Demostene, non
riuscì a risollevare la situazione: egli indusse il restio Nicia a ripiegare in
ritirata su Catania. Però il ritardo delle operazioni consentì ai Siracusani di
serrare la via d’uscita alla baia del Porto
grande in cui si trovavano gli Ateniesi e di vincerli in due scontri sul
mare, di conseguenza il ritiro forzatamente terrestre, subiti pesantissimi
danni umani e materiali, fu alla volta dell’alleata Camarina, a ovest.
Inseguiti, il gruppo di copertura del trasferimento agli ordini di
Demostene, rimasto troppo indietro rispetto a quello di Nicia, più precipitoso,
fu accerchiato e sconfitto, così come accadde subito dopo al medesimo Nicia,
all’oscuro di quanto avvenuto, al quale i Siracusani sopravanzandolo sbarrarono
la strada. Nicia e Lamaco, catturati, vennero uccisi nonostante la contrarietà
di Gilippo; quasi tutti i loro uomini furono ridotti in schiavitù.
L’eco della sconfitta della grande armata ateniese diede vigore ai
nemici e provocò nella città un moto d’opinione favorevole agli oligarchici:
similmente succedeva in diversi centri alleati che passavano alla parte dei
Lacedemoni, i quali conclusero il conflitto con Argo. Malgrado tutto Atene
disponeva al momento di risorse economiche e di una forza tali da permetterle
di fronteggiare energicamente l’unione tra Peloponnesiaci e Persiani che si era
costituita per sfruttarne lo stato di debolezza. Alcibiade a Sparta aveva
imbeccato i suoi recenti amici ad avvicinarsi alla Persia, manovra nella quale
aveva mediato fra le due parti nella metà del 412. In cambio del sostegno e
della partecipazione bellica persiana i Lacedemoni riconoscevano la signoria
sulla Ionia (con l’eccezione delle isole Sporadi) agli alleati, che miravano ad
applicare una politica di sfruttamento tributario sulla regione. Già dal 413
gli Ateniesi avevano perso molti alleati dopo l’occupazione nemica di Decelea
nell’Attica: Clazomene, Eritre, Lebedo, Mileto, Teo, nella Ionia; le lesbie
Metimna e Mitilene; Bisanzio; e le isole di Chio, Eubea e Rodi.
Il precipitare delle cose fu l’occasione per i conservatori di prendere
il governo della città tramite la creazione di una decarchia (10 probuli) posta
al di sopra degli altri organi amministrativi. Con l’oligarchia ateniese
intratteneva rapporti Alcibiade, fiducioso in una riabilitazione: garantiva di
sganciare Sparta, da cui in seguito a discordie si era allontanato,
dall’alleanza persiana e di legare i Persiani a un’Atene nella quale auspicava
l’istituzione di un chiaro regime oligarchico.
Al principio del 411 la capitale dell’Attica aveva perso quasi tutta la
Ionia, a dispetto di un contenimento operato militarmente delle disassociazioni
dalla Lega navale. In questo
frangente l’ex democratico Pisandro recatosi da Samo – sede della marina attica
– ad Atene, d’intesa con un paio di probuli sospese il sistema democratico: il
numero dei probuli fu elevato a 30; i diritti politici furono circoscritti a
5.000 abitanti, che dovevano essere individuati da un’assemblea di 400 membri
cui furono trasmessi tutti i poteri statali; fu stabilita la gratuità dei
pubblici incarichi e abolito il diritto
di accusa.
Un colpo di mano simile attuato dai conservatori samii fallì: i
democratici di quest’isola si affidarono dunque ad Alcibiade per resistere a
Spartani e Persiani da un canto e agli oligarchici ateniesi dall’altro. Il
controverso allievo di Socrate colse l’opportunità di condizionare gli eventi a
suo vantaggio, e s’impegnò a non far entrare in conflitto Samo e Atene: sollecitava
la prosecuzione ateniese della guerra contro Sparta, la definizione concreta
dei 5.000 cittadini della sua città aventi diritti politici e il restauro della
soppressa assemblea amministrativa di
500 membri (bulè). Tramontata ad Atene la prospettiva di un avvicinamento alla
Persia per mezzo di Alcibiade, l’ala conservatrice più estremista si preparava,
al fine di restare al potere, a concludere anche un accordo sfavorevole con i
Peloponnesiaci. Ciò causò delle tensioni e delle reazioni di massa.
L’amico di Socrate era più vicino agli oligarchici moderati; quasi
tutti gli esponenti di primo piano di quelli radicali fuggirono presso i
Laconici: tra quelli restati qualcuno andò sotto processo, e non mancarono
durante questa fase delle uccisioni (Frinico, ex democratico, assassinato per
strada; Antifonte, condannato alla pena di morte).
L’operato del probulo Teramene (soprannominato “coturno”, una calzatura
ambidestra) scansò il pericolo di una
guerra intestina: venne ripristinata la bulè e abolita l’assemblea dei 400, la
base politica ateniese dai 5.000 previsti fu elevata a 9.000. Il ritorno del
regime democratico rimise in sintonia Atene e Samo. Nel corso del 411 gli
Ateniesi avevano continuato a indietreggiare: alle sottrazioni territoriali
precedenti si sommavano l’Eubea e l’Ellesponto. I Lacedemoni minacciavano
direttamente l’Attica e controllavano i Dardanelli da Abido, la marina persiana
era inoltre pronta a invadere l’Egeo da sud.
La ritrovata unità con i quadri navali samii produsse l’esito di tre vittorie
marittime ai Dardanelli contro i Peloponnesiaci: due consecutive a settembre, e
una nel marzo del 410 (in questo caso era giunto con rinforzi Teramene da
Atene). Incoraggiati gli Ateniesi cercarono il combattimento con gli Spartani,
che erano nelle vicinanze della capitale attica, ma questi desistettero perché
l’occupazione dell’Ellesponto garantiva ormai degli introiti utili per una
ripresa economica, e presentarono un progetto di pace agli avversari rianimati:
prevedeva il ritiro reciproco dagli altrui territori occupati e l’acquisizione spartana di regioni della Lega delio-attica. Il nuovo leader
democratico ateniese Cleofonte, artefice della restaurazione completa della
democrazia ateniese (attraverso la reintroduzione del diritto universale di accusa), spinse i concittadini a rifiutarlo.
Nella prosecuzione delle ostilità il suggerimento di Alcibiade (cui era
stata consentita la facoltà di ritornare ad Atene) di entrare in rapporto con
la Persia per staccarla dai Lacedemoni non ebbe continuazione: Trasibulo e
Trasillo, responsabili delle azioni marittime ateniesi, si mossero nel senso
opposto raccogliendo un grave insuccesso al largo di Efeso. All’inizio del 409
Trasillo e Alcibiade intrapresero un’iniziativa per riprendere due centri sulle
rive opposte all’imbocco meridionale del Bosforo (Bisanzio e Calcedone)
costringendo i Persiani a una tregua e ad acconsentire a un’ambasciata ateniese
alla corte di Dario II.
Sugli altri fronti Atene subiva la perdita di Nisea e Pilo, e la
fuoruscita dalla Lega navale di
Corcira, alleviate dal ritiro delle forze nemiche di Siracusa, allarmata
dall’attacco in Sicilia di Cartagine (che aveva già distrutto Selinunte).
Alcibiade ritornò ad Atene nel giugno del 408: tutti i provvedimenti punitivi a
suo carico erano stati annullati; si presentò come il salvatore della patria,
tale fu acclamato, e il potere politico finì sostanzialmente nelle sue mani.
Nella seconda metà dell’anno egli riprese in Asia Minore la gestione
bellica: le sue aspettative furono frustrate per il fatto che i Persiani erano
fermamente decisi a mantenere l’alleanza con gli Spartani, guidati da Lisandro,
in funzione antiateniese. L’ammiratore di Socrate cercò invano lo scontro con
le triremi del navarca antagonista ancorate a Efeso, rassegnandosi inoltre a notevoli defezioni tra le proprie
file quando questo, che si era adoperato a insediare governi oligarchici nei
centri fuorusciti dalla Lega attica,
offrì uno stipendio più alto ai marinai. Nel primo periodo del 407 Alcibiade si
trasferì insieme alla flotta ateniese dalla zona di Efeso nell’Ellesponto,
dove, diversamente dalle sue disposizioni gli Ateniesi avevano dato battaglia
in mare col risultato di una pesante sconfitta. Con le navi rimaste e quelle al
suo seguito Alcibiade fece ritorno a Efeso, ma nel mentre il suo prestigio ad
Atene si era convertito in antipatia popolare.
Non riconfermato al comando delle operazioni abbandonò il suo incarico
direttivo prima della scadenza naturale e si allontanò esule nell’Ellesponto:
gli succedette Conone che inizialmente, avvantaggiato dalla sostituzione di
Lisandro alla testa dei Peloponnesiaci (ritenuto ambizioso e fuor di luogo
aperto all’ingerenza persiana), ottenne dei successi. Callicratida, successore
di quest’ultimo, non fu gradito dai Persiani, che ridussero il loro impegno
finanziario per la guerra.
I Laconici volendo rafforzare la propria marina militare dovettero
rimediare autonomamente. Le triremi raccolte a Mileto sotto la guida di
Callicratida partirono allora per la conquista di Lesbo. Conone raggiunto nei
primi tempi del 406 si batté con lui di fronte a Mitilene e subite
considerevoli perdite si ritirò nel porto cittadino. Atene si sobbarcò di
allestire navi che lo liberassero dall’assedio dando fondo a tutte le ricchezze
residue disponibili, e alle Arginuse gli Ateniesi, ulteriormente potenziatisi
di passaggio a Samo, sconfissero Callicratida che gli si era fatto incontro
trovandovi la morte.
Tuttavia l’annegamento di una parte dei marinai ateniesi, dovuta a
naufragio per il maltempo, sollecitò nella capitale un’esagerata ripercussione.
Agli otto comandanti della flotta fu inflitta nell’ottobre del 406 la pena
capitale: due, Protomaco e Aristogene, fuggitivi, si salvarono; tra i
condannati un omonimo figlio di Pericle. La città continuava a perdere per un
motivo o per un altro i suoi migliori uomini, e il democratico massimalista
Cleofonte la esortava a rifiutare una proposta spartana di rappacificazione. La
caparbietà ateniese, sostenuta dalla possibilità di resistere, persuase nel 405
i Persiani a sollecitare ai Lacedemoni la restituzione della navarchia a
Lisandro e a finanziarne la ricostruzione dell’armata navale.
Lisandro – che effettivamente fu luogotenente a causa della non
reiterazione dello scorso mandato – quindi si diresse nell’Ellesponto, una
fonte degli approvvigionamenti attici, e prese Lampsaco allo scopo di bloccare
questa via di rifornimento. Le triremi ateniesi conseguentemente si
concentrarono nei Dardanelli, nei pressi di Egospotami, dove attesero per
quattro giorni con l’intento di combattere. Ma le navi laconiche non uscirono
da Lampsaco, e ciò convinse il quinto giorno gli Ateniesi, che non tennero
conto degli ammonimenti di Alcibiade, a sbarcare in cerca di provviste. Il
navarca peloponnesiaco ne approfittò e con pochissimo sforzo catturò quasi
tutta la flotta rivale. Conone riuscì a sfuggire solamente con 1/9
delle triremi, 3.000 Ateniesi fatti prigionieri furono uccisi a Lampsaco per
vendetta degli eccessi nemici. Ottenuta la resa di Sesto, Bisanzio e Mitilene,
i Lacedemoni si volsero verso Egina, e presala si presentarono al Pireo.
Parallelamente il re spartano Pausania II assieme al collega Agide II arrivò a
mettere sotto assedio Atene sulla terra ferma.
A gennaio del 404 l’ennesima offerta spartana di riconciliazione, sebbene
le cose precipitassero, fu respinta su incitazione di Cleofonte, giustiziato
qualche mese più tardi. Teramene grazie a questo vuoto poté far accettare nella
comunità il desiderio di resa delle fazioni ateniesi più moderate. Recatosi a
Sparta, gli furono esposte le condizioni di pace (successivamente ratificate):
Atene non sarebbe stata distrutta a differenza di quanto auspicato da Tebe e
Corinto, però era costretta ad allearsi con Sparta, a demolire le
fortificazioni del Pireo e le Lunghe Mura, e perdeva i suoi domini lontano
dall’Attica.
Concluse le ostilità Lisandro entrò nel Pireo, pochissimo tempo dopo si
arrese anche Samo che ancora resisteva. I governi degli alleati greci dei
Lacedemoni furono modellati sullo stampo oligarchico, e alcuni sostenuti con lo
stanziamento di truppe a difesa, il cui pagamento era a carico di tutti
(analogamente ad altri tributi versati a Sparta). Inoltre i lotti di terra assegnati in passato a cittadini ateniesi in
territorio straniero (cleruchie) furono restituiti, salvo qualche
eccezione, agli originari possessori. Ad Atene Teramene ripristinava l’ordine,
e iniziava l’amministrazione di quelli che passeranno alla storia come i Trenta
Tiranni.