Negli affari di Stato il tentativo di cogliere l’opportunità al volo a
prescindere da considerazioni di carattere ideologico e morale è un tentativo
che non sempre ha successo e non sempre paga. Questo è stato il fondamentale
errore dell’Italia fascista alla fine degli anni ’30: l’avvicinamento, pure sul
piano della condotta, alla Germania nazista è equivalso a un’alleanza con una ideologia
del male. Con l’emanazione delle leggi razziali (1938) il fascismo
si è deteriorato, e da movimento che aveva ottenuto la simpatia e l’appoggio
delle masse, per compiacenza verso i nazisti, introdusse in Italia norme
inaccettabili e si legò a un alleato che lo avrebbe portato alla rovina. La
tardiva partecipazione all’ultimo conflitto mondiale, dieci mesi dopo il suo
inizio, è la riprova di voler stare dalla parte dei potenziali vincitori (i
Tedeschi) nel timore inoltre che questi dopo aver sconfitto Francia e
Inghilterra non avessero difficoltà a prendere di mira in un secondo momento
anche l’Italia che era stata a guardare. Una strategia politica guidata quasi
esclusivamente da opportunismo può portare al disastro e alla sconfitta, come è
effettivamente successo. L’alleanza tra Germania nazista e Italia fascista era
un’alleanza di politica estera: il nazismo e il fascismo non avevano ideologie
molto simili, e anzi i fascisti – che non erano stati antisemiti fino al ’38,
né tanto meno paganeggianti – non avevano visto di buon occhio l’emergente
nazismo (il cancelliere austriaco filofascista Dollfuss era stato ucciso da
terroristi nazisti, e Mussolini in un discorso pubblico aveva ricordato che le
popolazioni germaniche vivevano in uno stato barbarico quando a Roma antica
c’erano Augusto e Virgilio). L’avvicinamento tra i due movimenti avvenne dopo
la seconda guerra d’Etiopia (1935-36), durante la quale l’Inghilterra fu
tra coloro che votarono alla Società delle nazioni le sanzioni contro
l’Italia per l’impresa di conquista, ma gli Inglesi dietro la cessione dei
diritti sui pozzi petroliferi dell’AGIP in Iraq fecero passare le navi di
rifornimento italiane dal Canale di Suez: fu quest’atteggiamento di ambiguità a
spingere nel contesto politico estero l’Italia verso la Germania e ad
allontanarla dai compagni della vittoria cosiddetta mutilata nella prima
guerra mondiale. Un’ipotesi vorrebbe l’ingresso in guerra degli Italiani
sollecitata da Churchill, perché paventava in caso di sconfitta di trovarsi a
disagio davanti alla sola Germania vincitrice, mentre il governo italiano,
anch’esso in prospettiva futura tra i vincitori, avrebbe potuto moderare le
pretese dei nazisti e l’urto della sconfitta: qui però si entra in un campo che
riguarda il famoso carteggio Churchill-Mussolini, e non è possibile fondare un
giudizio storico inoppugnabile. In parole povere quando il buon senso negli
anni della guerra consigliava di non schierarsi con la Germania (come fu fatto
per quasi un anno) tutto finì per congiurare a favore di una partecipazione
militare che con l’allargamento delle ostilità a livello mondiale non sembrò
più foriera di vittoria. Non fu però solo la Germania a scatenare lo scoppio
della guerra in Europa: bisogna ricordare che con il patto
Ribbentrop-Molotov Tedeschi e Russi si erano divisi la Polonia, per la cui
difesa Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania; perché non
anche all’URSS con cui anzi si allearono dopo che questa fu attaccata nel ’41?
Anche l’Unione sovietica ha delle responsabilità per la condivisione dei piani
espansionistici tedeschi: perché l’URSS non difese la Polonia? L’Italia dal
canto suo sbagliò ad allinearsi con chi sembrava più forte, avrebbe dovuto
invece difendersi allorché fosse stata attaccata da chiunque. La guerra, come
tutte le guerre, fu tragica sino alla caduta del fascismo, ma quello che accadde
dopo fu ancora più tragico e luttuoso. Dopo il 25 luglio 1943 quello che
accadde è frutto dell’operato del nuovo governo che firmò l’armistizio. Un
governo diverso per il dopo Mussolini, come era negli accordi tra monarchia e
dissidenti fascisti guidati dal filoinglese Grandi, formato da fascisti,
tecnici e politici di altre forze, si sarebbe fatto trovare molto probabilmente
più preparato. L’esistenza storica della Repubblica sociale italiana è
ignorata da molti, e tra quelli che ne sanno la considerazione è quasi
esclusivamente quella di uno Stato fantoccio al servizio dei Tedeschi
occupatori: questa è una parte della verità, la verità sostanziale, a volte mal
inquadrata nella dinamica degli eventi. Gli antefatti che vanno dal 25 luglio
all’8 settembre 1943 hanno in sé le radici che spiegano i due anni di storia
successiva fino al 25 aprile 1945, una storia che viene vista, come giusto dato
acquisito, di liberazione dall’invasore nazista e di parziale guerra civile
(dopo l’armistizio con gli Alleati un’invasione tedesca in Italia ci sarebbe
stata quasi certamente comunque). Mussolini fu arrestato subito dopo essersi
dimesso da capo del governo, la monarchia progettava da prima una congiura e
non comprese che l’arresto di un Mussolini dimissionario avrebbe peggiorato la
situazione: il duce era uscito dalla scena politica spontaneamente, bastava
organizzare solamente il previsto governo. Ma anche qui la monarchia si
comportò inadeguatamente: provocò la caduta completa del regime con cui aveva
coabitato per un ventennio, non rispettò l’accordo, e tutto finì d’un colpo
allo sbando. Il nuovo governo Badoglio non seppe organizzare tempestivamente
nulla se non la fuga con il re. Non esisteva alcun progetto di difesa da una
prevedibile invasione tedesca. Se il re fosse rimasto a Roma con un altro
governo più premuroso e più cauto, che avesse mantenuto soprattutto l’unità
nazionale, è possibile che i Tedeschi non andassero più a sud della Pianura
Padana e che nel giro di pochi mesi, con il sostegno degli Alleati, fossero
ricacciati al di là delle Alpi. Non ci sarebbe stata la Repubblica sociale
italiana – canto del cigno del fascismo –, non ci sarebbe stata la
legittima guerra partigiana, molti di meno sarebbero stati gli Italiani
catturati dai Tedeschi. Di un’altra storia si sarebbe parlato oggi, una storia
che non avrebbe avuto né vincitori né vinti, né odi né rancori che sono
perdurati per decenni, per chi costretto a scegliere si trovò a stare da una
parte o dall’altra. Dopo l’8 settembre i nazisti invasori avevano in mente uno
Stato fantoccio alla “Vichy”: era papabile per la sua guida Roberto Farinacci,
fascista filonazista, però dopo che i Tedeschi liberarono dalla prigionia
Mussolini e lo ebbero in pugno quest’ultimo non si poté tirare indietro. Non si
guarda il lato ideale di quella repubblica, obiettivamente con tutti i suoi
aspetti negativi, per un’analisi storiografica più articolata, perché è
sopraffatto da un insopprimibile peso. I lati più negativi della RSI consistono
nella prosecuzione della guerra accanto all’alleato precedente (con tutte le
sue conseguenze) e nel mantenimento delle leggi razziali. Se il distacco
dall’alleanza germanica fosse stato meno «ignobile» (come lo definisce l’inno
della Xma MAS) il senso dell’onore e della coerenza, pur fuori luogo
e mal giustificato, forse non avrebbe spinto molti fascisti a ritornare a
sbagliare: in aggiunta alla caduta del regime il governo Badoglio dopo un mese
e mezzo di continuazione nel conflitto, tenendo all’oscuro i Tedeschi dei suoi
propositi, firmò l’armistizio. Esistevano modi più dignitosi e meno traumatici
per uscire da una guerra in cui assolutamente l’Italia non doveva entrare come
promotrice accanto ai nazisti. Il percorso ideologico dell’ultimo fascismo
monarchico fu caratterizzato dall’indelebile e gravissima responsabilità
nell’adozione di provvedimenti discriminatori verso gli Ebrei seguendo il
pessimo e tragico esempio nazista. Bisogna ricordare che l’antisemitismo
moderno ebbe una gestazione religiosa che ne assecondò la diffusione, tant’è che
nel caso fascista si accennava a richiami di norme antisemite emanate in alcuni
concili (quello Lateranense del 1215, quello di Bezieres del 1246 e quello di
Orleans del 1553), e che tra le varie personalità di spicco a mostrare plauso
per le leggi razziali italiane ci furono, per fare qualche significativo
esempio, Romolo Murri, Luigi Gedda, Amintore Fanfani, Pietro Badoglio e
Giovanni Guareschi. Addirittura l’espressione «oremus pro perfidis Iudaeis
(preghiamo per i perfidi Ebrei)» scomparirà dalla liturgia cattolica anni dopo
l’Olocausto con il Concilio Vaticano II (1962-65). Durante il periodo della Repubblica
sociale fascisti e nazisti non andarono perfettamente d’accordo: i Tedeschi
allargando i propri confini erano arrivati fino all’Adriatico e un canto
fascista recitava: «guai a chi dal Brennero il cippo sposterà»; inoltre i
nazisti non gradivano lo spostamento a sinistra della politica sociale di Salò
(lo Stato stava per chiamarsi REPUBBLICA SOCIALISTA ITALIANA). Il fascismo
repubblicano si riallacciò alle proprie origini del primo dopoguerra mondiale
(il sansepolcrismo). Il filosofo Giovanni Gentile che aderì alla RSI
(come, tra altri, Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PCI) aveva definito i
comunisti «corporativisti impetuosi». Lenin anni addietro era stato un
estimatore del Mussolini socialista massimalista. Il corporativismo dell’ultimo
fascismo proponeva l’armonizzazione integrale del mondo del lavoro attraverso
la soppressione della dicotomia “datori di lavoro / prestatori d’opera” e la creazione
di un unitario organismo sindacale (da ogni base corporativa era pure prevista
l’elezione di ogni ministro del governo nazionale). La socializzazione delle
imprese fu un esperimento che spodestava radicalmente il capitale dal suo
tradizionale predominio per consegnare la direzione imprenditoriale privata a
meccanismi di democrazia interna che concedevano larghissimi spazi ai
lavoratori. Sotto questo profilo sociale d’analisi risultano interessanti a) il
punto 15 del Manifesto del Partito fascista repubblicano (diritto alla
casa) e b) gli articoli 113-124 del progetto costituzionale della Repubblica
(diritto al lavoro).
a)
Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla
proprietà. Il Partito inscrive nel suo programma la creazione di un Ente
nazionale per la casa del popolo, il quale, assorbendo l’Istituto esistente ed
ampliandone al massimo l’azione, provvede a fornire in proprietà la casa alle
famiglie di lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove
abitazioni o graduale riscatto di quelle esistenti. In proposito è da affermare
il principio generale che l’affitto – una volta rimborsato il capitale pagato
nel giusto frutto – costituisce titolo di acquisto. Come primo compito l’Ente
risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con la requisizione
e la distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie.
b)
113- Il lavoro è il soggetto e il
fondamento dell’economia produttiva.
114- Il lavoro, sotto tutte le sue
forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali è un dovere
nazionale. Soltanto il cittadino che adempie il dovere del lavoro ha la
pienezza della capacità giuridica, politica e civile.
115- Come l’adempimento del dovere di
svolgere l’attività lavorativa secondo le capacità e attitudini di ognuno è
pari titolo di onore e di dignità, così la Repubblica assicura la piena
uguaglianza giuridica di tutti i lavoratori.
116- La Repubblica garantisce a ogni
cittadino il diritto al lavoro, mediante l’organizzazione e l’incremento della
produzione e mediante il controllo e la disciplina della domanda e dell’offerta
di lavoro. Il collocamento dei lavoratori è funzione pubblica, svolta
gratuitamente da idonei uffici dell’organizzazione professionale riconosciuta.
117- Poiché la attuazione, rigorosa e
inderogabile, delle condizioni fondamentali costituenti garanzia del lavoro è
di preminente interesse pubblico, la disciplina del rapporto di lavoro è
affidata alla legge o alle norme da emanarsi dall’organizzazione professionale
riconosciuta. Tali norme si inseriscono automaticamente nei contratti
individuali, i quali possono contenere norme diverse ma soltanto più favorevoli
al lavoratore.
118- La retribuzione del prestatore di
lavoro deve corrispondere alle esigenze normali di vita, alle possibilità della
produzione e al rendimento del lavoro. Oltre alla retribuzione normale saranno
corrisposti al lavoratore anche nello spirito di solidarietà tra i vari
elementi della produzione, assegni in relazione agli oneri familiari.
119- L’orario ordinario di lavoro non
può superare le 44 ore settimanali e le 8 ore giornaliere, salvo esigenze di
ordine pubblico per periodi determinati e per settori produttivi da stabilirsi
per legge. La legge o le norme emanate dalle associazioni professionali
riconosciute stabiliscono i casi e i limiti di ammissibilità del lavoro
straordinario e notturno e la misura della maggiorazione di retribuzione
rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario.
120- Il lavoratore ha diritto a un
giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica e a
un periodo annuale di ferie retribuito.
121- Ogni lavoratore ha diritto a
sciogliere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Se il licenziamento
avviene senza sua colpa, il lavoratore ha diritto, oltre a un congruo
preavviso, a un’indennità proporzionata agli anni di servizio.
122- In caso di morte del lavoratore,
quanto a questo spetterebbe se fosse licenziato senza sua colpa, spetta ai
figli, al coniuge, ai parenti conviventi a carico o agli eredi, nei modi
stabiliti dalla legge.
123- La previdenza è un’alta
manifestazione del principio di collaborazione tra tutti gli elementi della
produzione, che debbono concorrere agli oneri di essa. La Repubblica coordina e
integra tale azione di previdenza, a mezzo dell’organizzazione professionale, e
con la costituzione di speciali Istituti per l’incremento e la maggiore
estensione delle assicurazioni sociali. L’opera convergente dello Stato e delle
categorie interessate deve garantire a tutti i lavoratori piena assistenza per
la vecchiaia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, le malattie, la
gravidanza e puerperio, la disoccupazione involontaria, il richiamo alle armi.
124- Allo scopo di dare e accrescere la
capacità tecnica e produttiva e il valore morale dei lavoratori e di agevolare
l’azione selettiva tra questi, la Repubblica, anche a mezzo dell’associazione
professionale riconosciuta, promuove e sviluppa l’istruzione professionale.
A distanza di tanti anni da quegli eventi si parla del “sangue dei vinti”,
il giornalista Giampaolo Pansa ha affrontato in alcuni suoi libri un rovescio
della medaglia poco noto. Se il fascismo fu protagonista e promotore di violenza
e guerre, fermamente da condannare, in frangenti della sua azione, in contesti
vari in cui non efficace fu la mediazione per evitare il peggio e queste vie
trovavano facile accesso, è anche vero che i fascisti di Salò, che credevano in
idee solamente in parte lecite, subirono violenze altrettanto ingiustificabili.
Pansa ha trattato lunghe serie di episodi riguardanti i cosiddetti
“repubblichini”. Mai un male può giustificarne un altro: la violenza è
incompatibile con la civiltà umana e con la democrazia, entrambe vanno difese
da qualsiasi attacco e dal pericolo di disordini sociali, conflitti bellici e
discriminazioni di tutti i tipi. La Repubblica sociale ebbe a carico un
enorme numero di vittime a causa della guerra e dell’occupazione militare
straniera, il suo patrimonio d’idee può essere analizzato per vedere ciò che
non porta il segno del male. Il corporativismo fascista non coinvolge
ideologicamente l’antisemitismo, e il primo considerato per sé può essere
studiato come dottrina socio-economica autonoma. Da una ideologia che non sia
integralmente votata al male, come invece lo fu il nazionalsocialismo, la parte
concettualmente sana può distinguersi, tenendo ben chiaro e inamovibile che la
netta e universale condanna maturata verso tutte le persecuzioni e lo sterminio
degli Ebrei perseguiti dai nazisti e dai loro alleati non può in nessun tempo e
in nessun luogo essere rimossa o corrotta da forme di negazionismo o menomata
da qualsiasi analisi.