di DANILO CARUSO
Simone Weil ebbe la ventura da viva di essere quasi
unicamente conosciuta per i tratti caratteriali della sua ferma coerenza di
principi pratici. La sua profonda e significativa figura è salita alla ribalta
per le opere a partire dal secondo dopoguerra. Nacque da una famiglia benestante
di origine ebrea il 3 febbraio 1909 a Parigi (ebbe un fratello affermato
matematico). Già all’epoca del liceo mostrò un’inclinazione alla ricerca
filosofica. Studiò all’École normale supérieure: fu allieva dei filosofi
Emile Chartier (Alain) e René Le Senne; dopo la laurea insegnò filosofia alle
scuole superiori femminili (1931-38). Per via del suo impegno in dimostrazioni
antitotalitarie fu sottoposta a spostamento di cattedra. Come insegnante si
mostrò aperta alle esigenze delle studentesse, lavorando gratuitamente più del
dovuto e rimettendoci del proprio. Riguardo a un efficace apprendimento
teorizzò i primati della disinteressata-attenzione-verso-l’oggetto-di-studio e
del piacere-della-conoscenza. Le basi della sua analisi filosofica si
impiantano nella cornice di uno spiritualismo che dava risalto al concetto di
“volontà” (effort, sforzo). Il suo pensiero attraversò due momenti di
sviluppo: il primo, che risentiva del clima storico della Rivoluzione bolscevica,
fu caratterizzato più da interessi politico-sociali, quello successivo fu
connotato da un’impronta mistico-religiosa. La sua matrice politica iniziale fu
di sinistra radicale (ospiterà Trotzkij profugo, e non prenderà mai la tessera
di alcun partito). Riallacciandosi fortemente all’insieme sociale di
provenienza cercò di mettere in atto le sue idee con la personale condotta,
trascurando la pubblicazione di opere in vita (diede alle stampe degli
articoli, firmandosi con uno pseudonimo, e poche poesie; tutto il corpus
weiliano sarà pubblicato postumo). Il suo spirito di carità la portò a lasciare
temporaneamente la carriera d’insegnante, sollecitata dalla sua volontà di
condividere la vita proletaria operaia, e così nel ’34 entrò in uno
stabilimento Renault, abbandonato l’anno successivo, dopo otto mesi, a causa di
una pleurite (fece la fresatrice): in quel periodo devolse il grosso dei suoi
guadagni ai disoccupati. Da quell’esperienza prese forma il saggio “Riflessioni
sulle cause della libertà e dell’oppressione”. Secondo l’autrice nel sistema capitalista
l’origine delle sperequazioni sta più al di là della questione della proprietà:
sta nella dicotomia “lavoro intellettuale / lavoro manuale”. «Il lavoro non
viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il
sentimento umiliante ed angosciante di possedere un privilegio concesso da un
favore passeggero della sorte». L’aspetto settoriale della produzione provoca
l’asservimento a questo tipo d’organizzazione e fa smarrire all’uomo la sua
specifica dimensione complessiva nel frazionamento specialistico. Benché
secondo lei non sia possibile raggiungere un’assoluta liberazione, l’ideale
della libertà è il termine cui tendere asintoticamente: l’inconsapevolezza
individuale e l’appiattimento generale, che maturano in seguito alla presenza
di poderosi apparati produttivi anche in quelle società in cui è intervenuta
una modificazione rivoluzionaria, possono essere contrastati dall’intento di
riavvicinare e combinare le mansioni creative e quelle di attuazione, e
contemporaneamente ponendo il ruolo del lavoro alla base del vivere umano.
Elementi di questa analisi hanno anticipato contenuti del sindacalismo unitario
della Repubblica sociale italiana e del pensiero di Herbert Marcuse
(“L’uomo a una dimensione”). L’essere umano vive una scissione interiore in cui
i lati spirituali e intellettuali sono alienati provocando disagio. La Weil
sottolinea la soggettività dell’uomo, che deve essere rivitalizzata di fronte
al suo stato passivo funzionale; perciò ella rivolse anche delle obiezioni ai gruppi
marxisti, patrocinatori di una rivoluzione inautentica e di uno Stato
antidemocratico, e a chi ambiva a un cambiamento non preceduto da un intenso
impegno pratico a migliorare le cose. Pur essendo pacifista prese parte nel ’36
alla guerra civile spagnola al servizio dell’anarchica Colonna Durruti
(rimasta ustionata a un piede dovette far ritorno in patria). La svolta in
direzione di un interesse mistico-esistenziale risale al ’37, quando allargò
l’orizzonte del suo pensiero alla fede nel Cristianesimo cattolico: non è
sufficiente la sola volontà umana a risanare la frattura tra realtà concreta e
realtà ideale, la passione di Cristo ricompone tutto. Ella però sino alla fine
mantenne una prospettiva speculativa di apertura universalistica verso le altre
religioni, non escluse dal contatto della Grazia, e rifiutò l’idea del
battesimo, e di entrare nel corpo della Chiesa, che accusava di essere stata
nei secoli un sistema di potere totalitario e persecutorio, che nella sua
rigida circoscrizione lascia fuori della prospettiva della salvezza una
considerevole parte di storia e di umanità. «Il problema della fede non si pone
affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere
fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza,
non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso
l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il
proprio amore alle cose di quaggiù». Nella visione omerica della guerra
(“L’Iliade o il poema della forza”, manoscritto del ’39) la filosofa francese
rileva un sentimento di equanimità nei confronti dei contendenti, sentimento
che attribuisce all’intera Grecità. Questa società antica al cospetto della
pulsione distruttiva, generatrice di lutti e rovine, replicava con le
eccellenze dell’animo (le virtù). Simone Weil ricollega, tramite il comune
spirito di pietà davanti alla sorte umana, tale schema al Cristianesimo, in cui
la subordinazione alla forza, che sfugge al controllo dell’uomo, è combattuta
dall’azione della Grazia. L’umanità è stata e rimane indistintamente vittima
della violenza, tuttavia peggiore è l’infelicità causata dalla percezione del
necessario allontanamento di Dio dal creato per dargli spazio di vita in quanto
diverso da Lui. «Dio crea se stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo
in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi.
Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se stesso. Quest’amore,
quest’amicizia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di
amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vicinanza infinita,
identità. Ma a causa della creazione, dell’incarnazione e della passione, è
anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo
interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio».
In un’ottica impregnata dall’eretico rifiuto cataro della realtà materiale, la
scoperta dell’apparente insignificanza della storia, carica dei suoi mali, può
disorientare l’uomo, tuttavia in essa egli può trovare il luogo per procedere
al disallontanamento dal divino, quella decreazione (presentante
suggestioni eckhartiane, e induistiche da “Il canto del beato”) in cui l’io si
annichilisce a vantaggio dell’ingresso di Dio: amarLo e ritornare a Lui sono
gli scopi del progetto creativo divino, «essere nulla per essere al proprio
vero posto nel tutto». Poiché Dio si manifesta nell’ordine naturale, la natura
da cui trae ispirazione l’arte può essere veicolo di moralità nella
testimonianza che la presenza del bello dà a favore dell’attuabilità
dell’ideale. La Weil individuò il fondatore del pensiero mistico in Occidente
in Platone (“Dio in Platone” del ’40) giudicandolo un precursore di punti che
saranno poi della teologia cristiana: il rapporto tra Dio e l’amore, e il suo
intervento salvifico, per mezzo della Grazia, nella storia dell’uomo (che si
aggiunge alle virtù). Scoppiata la seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione
tedesca della Francia, lasciò Parigi e si trasferì a Marsiglia: a causa della
legislazione razziale della Repubblica di Vichy non poté insegnare nelle
scuole. Lavorò alla raccolta dell’uva. Presa ripetutamente di mira dalle forze
dell’ordine subì vari interrogatori ma non l’arresto. Nel ’42 con i familiari
si trasferì negli USA, per poi prontamente ritornare in Inghilterra, spinta dal
suo desiderio di opporsi alle ideologie totalitarie. Operò nel comitato “France
libre”. Morì per le complicazioni di una tubercolosi il 24 agosto 1943 ad
Ashford dopo un’esistenza di autentica partecipazione al disagio (soffriva di
mal di testa e praticava digiuni per solidarietà). Altre opere di Simone Weil:
“Cinque lettere a uno studente”, “I catari e la civiltà mediterranea”, “Il
chicco di melagrana”, “Israele e i Gentili”, “L’amicizia pura”, “L’amore di
Dio”, “L’attesa di Dio”, “L’ombra e la grazia”, “La condizione operaia”, “La
conoscenza soprannaturale”, “La fonte greca”, “La Grecia e le intuizioni
precristiane”, “La prima radice”, “Lettera a un religioso”, “Lezioni di
filosofia”, “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, “Oppressione
e libertà”, “Pensieri disordinati sull’amore di Dio”, “Primi scritti
filosofici”, “Professione di fede”, “Progetto di una formazione di infermiere
di prima linea”, “Quaderni”, “Sul colonialismo”, “Sulla scienza”, “Venezia
salvata”.
L’epistola indirizzata nel novembre del 1942 da Simone
Weil a Padre Couturier è una delle ultime testimonianze del suo genio
intellettuale e mistico, nella quale lei scandisce, quasi fosse un manifesto,
l’articolazione programmatica della propria teologia (edificata sopra un
sentimento di fede che la condusse a costruire un ideale di natura universale).
La filosofa francese nella sua ricerca scelse un’ottica differente da quella di
uno storico: lei proiettò lo schema del cristianesimo all’indietro, la ragione
a spiegare le radici, laddove uno studioso che guarda gli eventi nel loro
sedimentarsi in un percorso di cause ed effetti avrebbe soprattutto rilevato –
come anche la Weil in fin dei conti non mancò di fare – ciò che di quel passato
si impresse sul Cristianesimo. Questa duplice, e non antitetica , possibilità
di lettura dei fenomeni storici in campo mette capo a una seria e difficile
riflessione critica del rapporto tra Simone Weil e il suo modo di fare i conti
con la storia. La sua lettera apre le porte a lunghi spunti. In una parte della
sezione 34 la Weil tocca, nel suo excursus di argomenti da riscoprire più
veracemente a una rilettura oculata, il tema del “Logos (Verbo)”, su cui è
incentrato il prologo del Vangelo non sinottico di Giovanni. Fa un’osservazione
raffinata e pertinente che lascia purtroppo senza approfondimento
riconducendola a un mistero di comprensibilità di tutto il brano. Stupisce,
appunto, ed è cosa non da poco per il modo in cui lei presenta questo guadagno
concettuale, da un lato leggere come avesse compreso il ruolo di intermediario
tra Dio e gli uomini del Logos (cosa a cui accenna nel punto 7, brano di
seguito riportato), e dall’altro notare il fatto che nell’intera lettera, e in
questo passaggio in particolare, non faccia menzione della filosofia di Filone
Alessandrino (il Platone ebreo, che questo dato affermò in modo
esplicito nel suo pensiero che mediava e fondeva Ebraismo e conoscenze
filosofiche greche): «Numerose parole del Cristo riferite dai Vangeli
(soprattutto da san Giovanni) presentano, con una insistenza così accentuata
che non può non essere intenzionale, la forma algebrica della media proporzionale.
Per esempio: “Come il Padre mio ha inviato me, così io invio voi...”. II
rapporto che unisce il Padre al Cristo è lo stesso che unisce il Cristo ai
discepoli. II Cristo è media proporzionale tra Dio e i santi; lo indica il
termine stesso: mediazione. Sono pertanto giunta alla conclusione che come il
Cristo si è riconosciuto nel Messia dei Salmi, nel Giusto sofferente di Isaia,
nel serpente di bronzo del Genesi, ugualmente si è
riconosciuto nella media proporzionale della geometria greca, che diventa così
la più clamorosa delle profezie.». La successiva considerazione weiliana,
sempre nella sezione epistolare 34, è relativa a una diversa resa di Gv 1,9,
versetto così volto secondo la Vulgata da lei contestata: «La vera luce, che
illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo ( Ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινόν, ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον,
ἐρχόμενον εἰς τὸν κόσμον)». La sua diversa traduzione può
incontrare migliore accoglimento: è lecito riferire il participio ἐρχόμενον al precedente termine ἄνθρωπον (accusativo maschile singolare, cui può essere o meno
separato da virgola) e non necessariamente a φῶς (nominativo neutro singolare).
Quindi la resa (quella proposta dall’autrice dell’epistola) sarebbe: «Era la
vera luce che illumina ogni uomo che viene al mondo». Con questo meccanismo di
concordanze si deduce che ciascun essere umano nasca con una scintilla di Logos
incorporata. Ma pure collegando ἐρχόμενον a φῶς tal senso non muterebbe in virtù di quanto affermato
in 1,4: «In lui [Logos] era la vita, e la vita era la luce degli uomini». La
«luce» precede gli uomini che vengono al mondo e li illumina alla loro nascita,
perciò, anche a voler tradurre in modo diverso dalla Weil il v. 9, il
significato pare sempre quello intravisto da lei. Del resto a testimonianza del
fatto che questo prologo evangelico è permeato di teologia filoniana, lo stesso
Filone, in merito a questa lettura weiliana, sostiene che «l’invisibile
divinità ha impresso nell’anima invisibile il sigillo di sé medesima, cosicché
la stessa regione terrestre non rimanesse senza un’immagine di Dio» e che «ogni
uomo per intelligenza è parente del Verbo divino, essendo impronta o particella
e raggio della natura beata». Per inciso va detto che Filone era di forma
mentis un po’ weiliana poiché vedeva sparse nella cultura filosofica greca
verità concesse da Dio che meglio si rivelava nelle scritture sacre
giudaiche. L’idea del Logos come compare all’esordio del vangelo
giovanneo (vv. 1-3) riecheggia la riflessione filoniana. Filone a sua volta si
richiamava al lógos spermatikós degli stoici: nel Logos divino è la ragione
seminale (e dunque altresì strumentale) di tutte le cose create, le quali
senza di Lui non possono concretizzarsi nella realtà né tanto meno avere un
sostegno a fondamento del loro essere. Nel “De opificio mundi” è spiegato come
il Verbo sia un cosmo noetico di stampo platonico. La problematica del Logos
nel vangelo non sinottico è tutta filoniana. Egli vede in Dio infatti l’Essere
supremo ed esclusivo (che denomina Padre), il quale crea l’universo e i suoi
singoli enti (in questa veste definito propriamente Dio, θεός = Elohiym),
enti che vengono sorretti nell’esistenza da Lui (stavolta in quest’altra
prospettiva, o potenza, definito Signore, κύριός = Yahwèh)
per mezzo delle sue ragioni noetiche contenute nel Logos divino. Filone
considera Dio, accanto a queste due potenze (Padre; Dio, che sta alla sua
destra; Signore, che sta alla sua sinistra), uno e trino nelle
sfaccettature. Questo tema dell’unità e trinità divina è d’altronde toccato
dalla Weil nel punto 12 della lettera. La sua dicotomia
“personalità/impersonalità” di Dio presenta spunti di tangenza con l’ottica
filoniana. Però in tale confronto i valori si ribaltano: mentre per Filone
l’uomo ha l’obiettivo di superare nel suo itinerarium mentis in Deum il
divenire nella sua pluralità, e dunque gli aspetti delle sue due principali
potenze, per arrivare a Lui come Essere unitario (e non trinitario, a suo
avviso oggetto di un’attenzione inferiore), la filosofa francese pone l’accento
non sul dato semplice della singola personalità divina, bensì sul suo carattere
impersonale che si mostra attraverso gli effetti delle potenze tratteggiate da
Filone, modi di operare verso cui l’uomo si relaziona in varia maniera. È così
possibile, a parere di Simone Weil, incontrare Dio senza accorgersene, essere
di convinzione atea, ma santi de facto: «Non si può pensare Dio allo stesso
tempo, e non successivamente, come tre e uno (cosa a cui pochi cattolici
arrivano) se non pensandolo insieme come personale e impersonale. Altrimenti
ci si rappresenta ora una sola Persona divina, ora tre Dei. […] Anime meno
progredite rivolgono la loro attenzione e la loro fede soprattutto – o
esclusivamente – a uno di questi due aspetti. […] Poiché in Occidente la parola
Dio, nel suo significato corrente, designa una Persona, quegli uomini nei quali
l’attenzione, la fede e l’amore si applicano quasi esclusivamente all’aspetto
impersonale di Dio possono credersi e dirsi atei, sebbene l’amore soprannaturale
abiti nella loro anima. Costoro sono sicuramente salvati. Li si riconosce dal
loro atteggiamento verso le cose di quaggiù. Quelli che posseggono allo stato
puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa
la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono
in apparenza atei. Coloro che posseggono perfettamente queste due virtù,
anche se vivono e muoiono atei, sono santi. Quando si incontrano uomini
siffatti, è inutile volerli convertire. Essi sono pienamente convertiti,
sebbene non in modo visibile; sono stati generati di nuovo a partire dall’acqua
e dallo spirito, anche se non sono mai stati battezzati; hanno mangiato il pane
della vita, anche se non si sono mai comunicati». Sia chiaro che in Filone
quelle due da lui definite potenze rappresentano una dinamica interiore di Dio,
mentre il Logos (come cosmo noetico) risulta frutto di una processione che
getta le basi dell’universo, qualcosa in Lui sostanzialmente più separabile che
non si dà al confronto con le sue attività del creare e del conservare il
tutto. Nei primi versi del vangelo di Giovanni (vv. 1-3) si va in direzione di
una sovrapposizione della figura del Verbo e delle due suddette potenze: «Nel
principio era il Verbo, il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio. Esso era nel
principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lui; e senza di lui
neppure una delle cose fatte è stata fatta. (Εν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν,
καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος. Οὗτος ἦν ἐν ἀρχῇ πρὸς τὸν θεόν. Πάντα δι᾽ αὐτοῦ ἐγένετο,
καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἓν ὃ γέγονεν.)». Infatti
l’apostolo Tommaso, scettico, dopo aver visto Gesù – Verbo incarnato – risorto
gli esclamerà (Gv 20,28): «Mio Signore e mio Dio! (Ὁ κύριός μου καὶ ὁ θεός μου.)», ossia con valenza teologica: «Reggitore di me e Creatore di me!». La
funzione della reggenza sarà attribuita dalla teologia cristiana alla terza
persona della Trinità, lo Spirito Santo, ipostasi corrispondente alla seconda
potenza filoniana, della quale nel Credo cattolico si dice che «è Signore e dà
la vita». La Weil che sosteneva, e non solo, la presenza di prefigurazioni di
verità teologiche all’interno del sistema culturale greco, nella sezione 7
dell’epistola, riscopre argomenti di quello stoicismo che fu radice, assieme al
platonismo, del ripensamento filoniano alla luce della cultura filosofica
greca, argomenti che si riallacciano al filo dell’analisi: «In Eraclito c’è una
Trinità, che si può solo intuire attraverso i suoi frammenti giunti fino a
noi, ma che appare chiaramente nell’Inno a Zeus di Cleante,
d’ispirazione eraclitea. Le Persone sono: Zeus, il Logos e il Fuoco divino o
Folgore. Cleante dice a Zeus: “Questo universo… acconsente al tuo
dominio (ἑκὼν κρατεῖται) / Tale è la virtù del servitore che lo tieni sotto le tue
invincibili mani / Di fuoco, dal doppio taglio, eterno vivente, la folgore”.
La folgore non è uno strumento di costrizione, è un fuoco che suscita il
consenso e l’obbedienza volontaria. È dunque l’Amore. E questo Amore è un
servitore, un eterno vivente, dunque una Persona. Forse le antichissime
rappresentazioni di Zeus con un’ascia dal doppio taglio (simbolo della
folgore), nei bassorilievi cretesi, avevano questo significato. Si accosti
“dal doppio taglio” alle parole del Cristo: “Non sono venuto a portare la
pace, ma la spada”. Nel Nuovo Testamento, il Fuoco è costantemente il simbolo
dello Spirito Santo. Gli Stoici, eredi di Eraclito, chiamavano pneuma il fuoco la cui energia sostiene l’ordine del mondo. Pneuma è un soffio igneo. […] San Giovanni,
servendosi dei termini Logos e Pneuma, indica la profonda affinità che lega lo
stoicismo greco (che va distinto da quello di Catone e di Bruto!) al
cristianesimo. Anche Platone conosceva chiaramente – vi allude nelle sue opere
– i dogmi della Trinità, della Mediazione, dell’Incarnazione, della Passione,
e le nozioni di grazia e di salvezza mediante l’amore. Egli ha conosciuto la
verità essenziale, cioè che Dio è il Bene». E in più nel punto 34 aggiunge:
«Nell’insegnamento del Cristo doveva esserci la nozione di una certa virtù di
indifferenza, simile a quanto si può trovare nello stoicismo greco e nel
pensiero indù». La weiliana «accettazione dell’ordine del mondo» corrisponde a
un tipico atteggiamento stoico. Questo tipo di adeguamento alle cose compare
altresì rivisitato in Filone, per il quale la realtà si dispiega in base al suo
copione contenuto nel Logos, nel migliore dei modi, su un registro di
predestinazione che apre alla libertà individuale allorché l’uomo accoglie
consapevolmente il suo destino incastonato nella più grande vicenda
dell’universo volto al Bene Supremo: mete che nell’essere umano sono quelle
dell’apertura a Dio e dell’ottenimento della fede. Simili obiettivi la Weil
pone per l’uomo in ambito religioso, con la differenza che lei non attribuisce
a un disegno divino la controversa presenza del male nel mondo,
circoscrivendolo a un circuito di cause non riconducibile a Dio. Queste sue
parole della sezione epistolare 25 (in cui lei sostiene l’invalidità del potere
di testimonianza dei miracoli nei confronti delle religioni) rievocano il suo
ideale di fede: «E se l’Evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione del
Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta. Per me la
prova, la cosa veramente miracolosa, è la perfetta bellezza dei racconti della
Passione, insieme ad alcune parole folgoranti di Isaia: “Ingiuriato,
maltrattato, non aprì la sua bocca”, e di san Paolo: “Non ha considerato
l’uguaglianza con Dio come un bottino... Egli si è svuotato... Si è fatto obbediente
sino alla morte, e alla morte di croce...”, “È stato fatto maledizione”. È
questo che mi costringe a credere. Senza l’anatema lanciato da un concilio,
l’indifferenza nei riguardi dei miracoli non mi sarebbe di alcun ostacolo, dal
momento che la Croce produce su di me lo stesso effetto che su altri la
resurrezione. D’altra parte, se la Chiesa non mette a punto una dottrina
soddisfacente riguardo ai fatti ritenuti miracolosi, per colpa sua molte anime
si perderanno a causa dell’apparente incompatibilità tra la religione e la
scienza. E molte altre si perderanno perché, credendo che Dio intervenga
spesso nel tessuto delle cause seconde per produrre fatti particolari con una
intenzione particolare, gli imputeranno la responsabilità di tutte le atrocità
in cui Egli non interviene». Perché Simone Weil non cita Filone d’Alessandria
rivolgendosi a Padre Couturier? Il sistema filoniano è una summa operante
all’interno dell’Ebraismo, summa che ricapitola nozioni già note e rielabora
quelle conoscenze in vista di una preservazione del Giudaismo nel contesto
politico romano. L’assetto teologico weiliano esclude dalla dimensione
dell’autenticità di fede gran parte della religiosità ebraica a causa del suo
nazionalismo e della sua lontananza dai valori evangelici neotestamentari
(vedasi nei punti epistolari 1, 18, 31, 35) da lei rilevati altrove, in
ambienti precristiani e non cristiani (leggasi nelle sezioni 7, 11, 13, 22, 29,
35). Ciò non rappresenta assolutamente una forma di antisemitismo, si tratta
solo di una considerazione storico-filosofica che accomuna Israele a Roma nella
ricerca di un’affermazione costruita con la forza (a tal riguardo nei punti 18
e 35). Pertanto, agli occhi dell’antinazista filosofa francese di famiglia
ebraica, le eclettiche posizioni filoplatoniche e filostoiche del giudaismo
alessandrino – nel cui seno era stata prodotta la versione dei Settanta del
Tanak – apparivano un insincero ripiego di tornaconto che mancava
l’appuntamento, con gran parte del popolo giudaico, di fronte alla novità del
Cristianesimo. Se pensiamo a una sorprendente e anticipatrice definizione del
Verbo divino data da Filone («figlio primogenito del padre increato», con una
terminologia ripresa dal “Timeo” platonico, dove vien detto padre l’artefice di qualcosa, madre la sostanza per produrre e figlio il prodotto) non si rivelano di
circostanza o casuali le parole weiliane della chiusura a Padre Couturier:
«Come cambierebbe la nostra vita se si vedesse che la geometria greca e la fede
cristiana sono scaturite dalla stessa fonte!». Rimane tuttavia un quesito senza
risposta: come si sarebbe evoluto il pensiero teologico di Simone Weil dopo i
ritrovamenti di Qumran, fatti pochissimi anni dopo la sua prematura scomparsa?
In “Israele e i gentili” la Weil espone una serie di osservazioni riguardanti
differenze tra la religiosità giudaica antica e quella pagana a essa
contemporanea, mettendo in risalto il fatto che, a suo avviso, i Giudei
avessero trascurato il principale aspetto di Dio, e cioè il suo essere “il
Bene”. Lei fa notare che nell’Antico Testamento è quasi del tutto assente la
dimensione della carità (assenza che va a vantaggio di un sistema repressivo),
e che Mosè, istitutore della nazione ebraica (alla quale occorrevano basi
materiali più che spirituali) e Platone avessero avuto in comune un sostrato
culturale egiziano: «Mosè comprende che Dio impone dei comandamenti d’ordine
morale. La qual cosa non ci stupisce, dato che egli era stato “istruito nella
saggezza egiziana”. Egli ha definito Dio come l’Essere. I primi cristiani hanno
cercato di spiegare l’affinità, su questo punto, fra l’insegnamento mosaico e
quello di Platone, sostenendo che il primo ha esercitato un’influenza sul
secondo attraverso la mediazione della cultura egiziana. Nessuno oggi sostiene
questa interpretazione, tuttavia nessun’altra per ora si è sostituita ad essa.
Ma la vera spiegazione è evidente: Platone e Mosè furono ambedue “istruiti
nella saggezza egiziana”; se non proprio Platone, sicuramente Pitagora.
D’altronde Erodoto sostiene che tutto il pensiero religioso degli Elleni ha le
sue origini nelle dottrine religiose degli Egiziani, portate in Grecia da
Fenici e Pelasgi». Il Dio giudaico, per Simone Weil, è espressione di un
carattere di forza militare che nessun’altra divinità suprema dei gentili ha:
tale preferenza nella visione teologica ebrea fece trascurare la piena
identificazione divina con “il Bene”, e di conseguenza impedì l’emersione della
bontà evangelica.
Tratto, quest’ultimo, che, per esempio, invece lei rilevava attivo nella
religione egizia allorché essa ispirava a non fare il male. «Gli Ebrei sono
sempre oscillati fra la concezione di Jahvè come un dio nazionale fra gli altri
dèi nazionali, appartenenti ad altre nazioni, e di Jahvè come Dio
dell’universo. La confusione fra le due concezioni implicava la promessa di
quel dominio del mondo al quale ogni popolo aspira. […] Jahvè appare in quel
periodo della storia come un Dio nazionale ebreo più potente degli dèi
egiziani: egli non chiede al faraone di adorarlo, ma solo di lasciar liberi gli
Ebrei di farlo». Diversi nel pensiero weiliano sono i contenuti richiamati per
segnalare intuizioni precrisitiane: l’immagine di “Zeus supplice”, di Dio che si immedesima nel bisognoso,
accostata al Cristo evangelico; i simboli neotestamentari del grano e della
vite culminazione di motivi già esistenti nella mitologia classica; Prometeo
paragonato a Cristo, etc. La Weil ricorda, tra l’altro, l’egiziano “Libro dei
morti” in cui al fine della salvazione eterna si indicava un’opportuna
predisposizione dell’anima durante la ricerca di Dio, il quale dal canto suo si
mostrava dispensatore di Grazia. Nella tradizione pagana in Egitto veniva
raccontata altresì una rivelazione divina sotto forma di agnello sgozzato (v. Apocalisse 13,8). La filosofa
rammenta, in aggiunta al caso di Osiride, che il tema della passione divina
fosse conosciuto in ambiti misteriosofici mediterraneo-orientali. Le tangenze
fra Ebraismo/Cristianesimo, filosofia greca e dottrine egizie sono indicate con
chiarezza da Simone Weil.
Bibliografia dei brani weiliani tradotti
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1983
Bibliografia dei brani weiliani tradotti
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1983
L'amore di Dio, traduzione di G. Bissaca e A.
Cattabiani, Borla, Torino 1968
L'ombra e la grazia, traduzione di F. Fortini,
Bompiani, Milano 2002
Lettera a un religioso, Adelphi, 1996
http://www.reteccp.org/biblioteca/nonvio/weil/weil4.html#Anchor