di
DANILO CARUSO
Sylvia
Bloch è stata moglie dello scrittore newyorkese Leonard Michaels (1933-2003).
Entrambi sono i protagonisti letterari di un autobiografico romanzo di
quest’ultimo, uscito nel settembre del ’92: “Sylvia: a fictional memoir”
(l’autore aveva già parlato della compagna in “Shuffle” del ’90, una raccolta
di ricordi familiari vari). Ho letto il testo incuriosito dall’omonimia con la
Plath. Non pochi elementi in comune fra le due Sylvia hanno colpito il mio
interesse. In aggiunta all’evidente nome in comune, che entrambe avessero nella
veste di compagno un penman, che provenissero dal nord-est degli USA e che si
fossero suicidate, erano fattori di suggestione nei confronti di uno studioso,
tra l’altro, junghiano quale mi reputo. Non minore impressione ha destato una
vaga somiglianza tra Michaels e Ted Hughes (1930-1998). Ho impostato perciò il
mio procedere nella lettura considerando uno schema di coppie parallele di cui
verificare eventuali analogie e differenze, senza farmi trasportare dal modello
di guida. Si tratta infatti di persone che hanno avuto tutte un’esistenza
autonoma, da non ricondurre in maniera nevrotica a un telaio generale. Sylvia
Plath era coetanea dello scrittore newyorkese, morì a 30 anni, e quasi trenta
anni dopo la pubblicazione di “The bell jar” (gen. ’63) fu edito “Sylvia”.
Poiché ho scritto due saggi critici sulla musa di Boston1, mi sono
inoltre prefisso di non scartare il raffronto tra Esther Greenwood e Sylvia Bloch.
Ignoro se ci siano pubbliche fotografie di costei, tuttavia Michaels la
descrive benissimo sotto ogni profilo nel romanzo: ne ho visto un disegno
realizzato da lui, rievocante l’immagine di “Donna seduta con abito blu” di
Amedeo Modigliani. Allorché il racconto inizia, nel dicembre del ’60 (ha una
forma espositiva cronologica di diario), Leonard – di origine ebraica – ha
terminato i canonici studi universitari (poi, perfezionati, lo porteranno da
New York a insegnare anche in California). Si descrive un soggetto interessato
alla letteratura e voglioso di distinguersi dalla massa. Leonard Michaels, al
contrario del poeta inglese Ted Hughes, mi ha destato una positiva impressione.
Tipi caratteriali differenti: nel primo ci sono uno spirito di sacrificio, una
coerenza e un’apertura umana maggiori rispetto al secondo. Ambedue i loro primi
incontri con le Sylvia furono fulminazioni reciproche. In quel 1960 fu però lo
scrittore di New York a finire in congresso carnale al primo approccio, non
conoscendosi bene e malgrado lei avesse già un ragazzo. La conoscenza con Sylvia
Bloch era stata accidentale, nell’alloggio in affitto di una comune amica
condiviso dalle due donne. La Sylvia michaelsiana mostra un aspetto altro dalla
Plath: più bassa di una decina di centimetri (1,65 m), è un’affascinante
brunetta di 19 anni dai lunghissimi capelli lisci con frangetta (la poetessa
bostoniana li aveva castani). La distinzione mi ha fatto pensare alle due
Isotta (la bionda e dalle bianche mani). Sylvia Bloch aveva perso i genitori
anzitempo: prima il padre (come la Plath), e poi la madre (diversamente da
questa). Michaels si rivela molto profondo nel rilevare il trauma prodotto in
lei: l’assenza le produce una mutilazione agli occhi del mondo, il quale la
considererebbe di grado inferiore a ragione di ciò. Tale è la sorgente del
disagio. Allo stesso modo della musa di Boston, su di lei – giovane studentessa
universitaria di materie umanistiche (indirizzatavi dal compagno Leonard) –
sembra gravare una figura di animus junghiano riecheggiante la mancanza
paterna. È in seguito a simile motivo – credo – che ella lascia il suo
precedente partner, un altro studente, sostituendolo con uno avente circa sette anni in più. Dice Michaels di Sylvia: «Lei amava essere trattata da piccola
ragazza in una casa piena di uomini». Lo scrittore newyorkese evidenzia nel
romanzo la consistenza marcusiano-orwelliana2 dell’actus copulandi.
In occasione del primo coitus giudica sé e la Bloch «una coppia condannata a
una [reciproca] concessione sacrificale», concludendo: «Liberati dal sesso
dentro una confidenza semplice, parlammo». Nella coabitazione scaturita, il
disagio di Sylvia provocava litigi con Leonard, il quale, da persona più
matura, manteneva un assetto difensivo senza usare violenza. Il fatto che gli
scontri potessero culminare in incontri sessuali è orwelliano. Pensiamo altresì
a “Eros e civiltà (1955)” di Marcuse. La furiosa rabbia della Bloch,
scatenantesi su cose, aveva una cornice di terapia nell’amorevole vicinanza di
Michaels. Lei non è una bestia feroce, un tirannico sadico essere, né tanto meno
una pazza: «Lei era intelligente in modo inconsueto». La sua unione con Leonard
non è ispirata da natura cinica, nel senso letterale etimologico. La
maggioranza di uomini e donne costituiscono coppie più o meno stabili dove
l’attività sessuale ha un esclusivo connotato animale. Partecipare a un
congresso carnale (o avere figli), in sé e per sé, non distingue dai cani.
Umano è colui/colei che esercita un’attività intellettuale la quale gli animali
non possono svolgere. Chi, ad esempio, è estraneo all’arte, è più vicino
all’ambito cinico che non all’umanità autentica. Un actus coeundi fra persone
di capacità intellettuali e di conoscenza superiori alla mediocritas è qualcosa
di dissimile da quello che fanno i cani. La mente di Sylvia inquadrava
l’interazione personale in schemi distorti, devianti su versanti nevrotici e
paranoici più per disagio e immaturità che a causa di inclinazione patologica.
Lo stesso scrittore newyorkese confessa: «La sensibilità di Sylvia a immaginare
un’offesa […] era patologica». Lei aveva una vocazione autolesionistica, sadica
in virtù degli effetti di richiamo esercitati sul suo partner. Farsi del male
catalizza l’attenzione di lui, e al contempo ne condiziona la volontà al
servizio di ella. Leonard Michaels potrebbe apparire un povero martire, e in
effetti nessuno a priori accetterebbe una siffatta vita di coppia. Tuttavia un
uomo di valore non è certo quello che vive nell’anonima mediocrità cinica (plathiana
“flatness”). Il superiore intravede i suoi simili e su tale stampo di
anima/animus junghiani aderisce. A guisa di missili intelligenti partono da Sylvia
rimproveri, mortificazioni alla sua volta. Sembrano tessere di un complicato
mosaico del destino, dove lei è consapevole di un disturbo bipolare (condiviso
con Esther-Sylvia, assieme alle ipotesi di suicidio tagliandosi le vene).
Pertanto rifiuta la proposta di Leonard di assistenza psichiatrica (per Esther-Sylvia
le vicende si svolgono in altro modo. L’autore del racconto autobiografico
sonda la situazione iniziale del suo rapporto in un significativo passaggio: «Sylvia
scoprì in me una malattia che mi inabilitava. Insieme, la alimentavamo. Io non
ero una persona buona a sufficienza, vorrei pensare, mentre lei era un
meccanismo prezioso dove molle e ingranaggi molto pregiati erano stati in modo
brutale danneggiati da un trauma. Questo le diede accesso alla verità. Se Sylvia
diceva che io ero cattivo, lei aveva ragione. Non potevo vedere perché, ma il
motivo è che io ero cattivo. Accecato da cattiveria. Lei doveva essere nel
giusto. Stavo vivendo con lei da mesi. Proteggevo il mio investimento, così per
dire, grazie al supporre che l’isterismo e le accuse di lei fossero non
rivoltanti e spregevoli ma una cosa molto morale simile al parossismo di un
profeta del Tanak. Erano impetuose illuminazioni, momenti di grazia perversa.
Non la manifestazione di pazzia. In modo normale, difensivo, vorrei pure
pensare che nessuno mi aveva mai parlato come Sylvia. Ciò significava che non
ero cattivo, forse. Nessuno mi rimproverò mai per avere pensieri e sentimenti
che non possedevo. Ma anche se avessi avuto pensieri cattivi e una vita
interiore in genere ripugnante, chi se ne frega? Non mi comportavo bene? Ero
molto amorevole, sempre profuso in abbracci e carezze. Giunsi a credere che i
pensieri e i sentimenti odiati in me da Sylvia fossero più suoi che miei.
Sarebbe stato facile lasciare Sylvia. Se fosse stato difficile, è possibile che
l’avrei fatto». La loro vita è all’insegna di «liti» e «sesso compulsivo»: in
essa cercare un approccio attraverso la ragione su Sylvia sortiva un effetto
negativo. Un momento di sollievo Michaels lo trova in una confidenza di un
amico che si scontra con la moglie (come i cani) e capisce che la cosa non è
rara. La Bloch era però diversa dalle mediocri all’asta per un acquirente da
contratto matrimoniale, «lei aveva bisogno di conforto». Non sono da annoverare
nella mediocritas: donne di spessore intellettuale e di talento, sentimentali,
pórnai intuitive. Durante il coitus le donne possono avere esperienze mistiche,
da qui l’origine della prostituzione sacra. Leonard Michaels non era Ted
Hughes. Lo scrittore newyorkese avrebbe gradito che il padre gli desse
l’assenso a separarsi dalla compagna giacché egli, da solo, non trovava una
volontà e una forza proprie. Ma il genitore, un Ebreo emigrato dalla Polonia,
gli presenta un insegnamento sulla coppia traente spunto dalla cultura
giudaica, dove l’unione ha il potere di ripristinare la perfezione originaria
androginica3. Però soprattutto gli dice: «Lei è un’orfana. Non puoi
abbandonarla». E tale principio ha una solida base nel Tanak: Es 22,21-23; Dt
14,28-29 / 24,20; Tb 1,8; Gb 31,17; Sal 67,6 / 145,9; Is 1,17. La prospettiva coniugale
è segnata, e cercando di condurre Sylvia da uno psichiatra, è invece Leonard
l’unico a farsi ascoltare dopo l’ostinato rifiuto di lei. Riceve comunque la
conferma che qualcosa nella testa della Bloch non procedeva nella giusta
direzione, e che ambedue erano interdipendenti. Nella parte centrale del
racconto michaelsiano comparisce la figura di Agatha Seaman, un’amica di Sylvia,
di ricca famiglia, un po’ invidiata da questa. Per via del suo comportamento
sessuale Agatha finisce in una casa di cura, però entrata eterosessuale con
altri problemi, alla fine diventa pure omosessuale mantenendo la precedente
indole filomasochista. Questa accoppiata Sylvia/Agatha rispecchia nella forma
quella Plath/Sexton. Quest’ultima fu sospettata di lesbismo, e fu pure in
terapia e ricoverata per problemi psichici. Da non trascurare inoltre la
coincidenza delle iniziali: A. S. Ignoro quanto di tutto lo schematismo (per
analogia e contrasto) evidenziato nella mia analisi sia proveniente dalla
realtà dei fatti o dalla creatività letteraria. Nonostante tutto il mio lavoro
non subisce una diminutio capitis. È pur sempre un esame testuale, dove la
lettera prevale sui fatti esteriori da verificare al di fuori della critica. In
generale debbo dire che in relazione a “The bell jar” la Sylvia michaelsiana
versa in uno stato di disagio più intenso di quello di Esther. I gradi di
maturità personale sono dissimili. La protagonista plathiana, toccato il fondo
del tentato suicidio, cammina verso una sizigia junghiana. Michaels e la Bloch
vivono una contraddittoria distopia di coppia aggravata dal limite di Sylvia
legato all’evoluzione psichica della ragazza ancora molto giovane. Benché Leonard
s’impegni ad aiutarla non riesce a migliorare la condizione di lei, la quale
probabilmente avrebbe tratto qualche beneficio da assistenza medica, al pari di
Esther/Sylvia. E quindi egli non può evitare di risentire del peso della
situazione. L’uso di droghe, inoltre, praticato nel giro delle loro amicizie –
e disapprovato in segreto da Michaels – non ha giovato a favore di un progresso
dell’individuazione junghiana e di crescita della Bloch (laureatasi all’inizio
del ’63). Mi sono chiesto dove lo scrittore newyorkese trovasse la vis di
animare il suo spirito di sacrificio nel rapporto con colei che è diventata sua
moglie nella primavera del ’61. La risposta datami rintraccia una spiegazione di
nuovo nel mondo veterotestamentario, nell’idea di subordinazione al dispotico
Dio del Tanak (la quale avrà un’evoluzione nell’insegnamento evangelico di Gesù
a porgere l’altra guancia). La forma mentis ebraica sostiene questo iter
distopico di coppia, nel quale l’attività sessuale non sortisce effetti meno
deludenti della droga. La dialettica tra i due è più adorniana che hegeliana:
c’è infatti più risalto del contrasto che della sintesi. L’involuzione
sessuale, la quale non diminuisce la frequenza degli acta copulandi, disorienta
lo “stoico” Leonard, che tuttavia si mantiene fedele (ancora una volta prevale
un principio, a mio avviso, di radice religiosa). La società, non solo
americana, mal attrezzata nell’affrontare problemi di disagio interiore,
piuttosto propensa a crearli mediante pregiudizi e conformismo, è denunciata in
queste parole michaelsiane: «Noi eravamo portatori di visioni di disperazione e
noia, ma altresì di penetranti percezioni di questo momento, in questo mondo
moderno, dove il vuoto poteva essere squisito, pure un modo di vita […], per
noi, anche. […] I sentimenti erano tutto ciò che importava, e loro erano
accessibili per noi. Comprendevamo. Noi eravamo soggetti alle ineffabili
tensioni e agli stati d’animo della vita moderna». Siamo vicini a “1984”. Qua è
però peggio. La vita di relazione ha metabolizzato il venefico proveniente dal
sistema sociale: due caratteri estroversi
sentimentali con propensione all’asse
dell’irrazionalità. Nell’estate del ’63, Leonard, partito alla volta del
Michigan per motivi di studio, de facto, avvia una separazione da Sylvia.
Logorato dalle tensioni, lascia che l’unione matrimoniale si disintegri. Ognuno
di loro conduce sostanzialmente vita propria: lui trova una nuova partner, lei
ne ha di più. Assieme a Sylvia, nel di lei appartamento newyorkese, il
penultimo giorno dell’anno 1964, l’autore vorrebbe apertamente chiedere il
divorzio, ma lei gli strappa il benestare a un tentativo di ricominciare.
Subito dopo accade l’imprevedibile: a insaputa di Michaels lei assume
un’overdose di secobarbital. Entra in coma, ricoverata, morirà il 2 gennaio
1965, giorno del di lui compleanno. Il Qoelet afferma che c’è un giorno per nascere e uno per morire. Aveva 24 anni (gli
stessi compiuti da Sylvia Plath in quel ’56 in cui sposò Ted Hughes) nell’anno di pubblicazione di
“Ariel” (prima opera postuma della poetessa americana). Inoltre era del ’40,
l’anno di scomparsa del padre della musa di Boston. In maniera analoga al caso
di quest’ultima, è difficile parlare del suicidio di Sylvia Bloch (nella realtà
avvenuto nel ’63, lo stesso anno della Plath). Ritengo che non avesse una
volontà autodistruttiva radicale, cioè non volesse morire, solo compiere un
gesto da cui poter tornare indietro. Penso che volesse suggellare quel consenso
ottenuto in favore di una riconciliazione con una richiesta d’aiuto la cui
forma purtroppo è andata oltre il limite. Doveva essere un “tentato suicidio”,
una simbolica manifestazione mirante a recuperare la vicinanza dello “stoico”
Michaels in maniera definitiva. Una sizigia di morte avvolge il finale del
romanzo e la mente dello scrittore newyorkese, che nel mezzo del cammino della vita si trova in una selva oscura (35
anni). La corrispondenza anima/animus si trasforma in qualcosa che va al di là
del mondo fenomenico. Muore Beatrice (a 24 anni), muore Sylvia Plath, muore Sylvia
Bloch. Tuttavia possiamo ritrovarci tutti, oltre la vita e oltre la morte, nel
fondo metafisico dell’inconscio collettivo. Con una tensione mistica
novalisiana, l’autore del romanzo chiude un’esperienza catartica narrativa; in
tutte le sue parole c’è più di un semplice narrare, c’è il peso tragico della
vita: «Non mi sembrava strano il fatto di potermi svegliare nel mezzo della notte
sentendomi certo che lei avesse chiamato il mio nome, però iniziai a temere
l’andare a letto. Avevo paura che potessi fare dei sogni. Stavo alzato sino a
tardi, leggendo fin quando i miei occhi si irritavano e non potevo seguire più
a lungo il senso delle pagine. Quindi avevo l’intenzione di andare a dormire,
sperando di cadere presto sotto il livello dei sogni dentro l’oblio. Una volta
caddi dentro all’obitorio, Sylvia che giaceva là, un lenzuolo bianco fino al
suo mento. Era come ai vecchi tempi, noi due in una piccola stanza, Sylvia
addormentata, io avvilito. Presi a piangere, implorandola, non facendo
concessioni alla realtà. La mia necessità era l’unica realtà, più reale della
morte. Sylvia doveva finire quella scena. Doveva aprire i suoi occhi e mettersi
dritta. Lo fece. La strinsi fra le mie braccia e chiesi se le sarebbe piaciuto
andare al cinema. Lei disse di sì, ma potevamo prendere qualcosa da mangiare
prima? Dissi che potevamo fare ogni cosa che lei volesse, qualsiasi cosa
davvero e andammo fuori a cercare un ristorante, disperatamente felici». Leonard
Michaels è venuto a mancare all’età di 70 anni a causa di un cancro (come Ted
Hughes), quarant’anni dopo il reale
suicidio di Sylvia (la traversata del deserto
della vita); si risposò tre volte (due divorzi), ed ebbe un figlio e due figlie
dalle mogli seconda e terza. Con la quarta abitò in Italia. “Sylvia: a
fictional memoir” appare una “Vita nuova” negativa. L’ultimo rilievo sul
romanzo michaelsiano è in merito al confronto con “The bell jar”: le sorti
della coppia Esther/Joan si ribaltano rispetto a quella Sylvia/Agatha, formando
un chiasmo delle parti.
NOTE
1
Due saggi dedicati a Sylvia Plath
2 La sessualità repressa in “1984”
3 Antropogonia e androginia nel Simposio e
nella Genesi
http://danilocaruso.blogspot.it/2014/06/antropogonia-e-androginia-nel-simposio_4.html
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria