di
DANILO CARUSO
Il
testo seguente è un estratto del mio secondo saggio di critica letteraria
plathiana (“Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, “Sulla poesia di Sylvia
Plath”).
Nelle
mie due opere di analisi ho assunto una prassi interpretativa junghiana. Qui
chiarisco meglio che nell’indicare il complesso dell’Io, a seconda dei casi, ho
adottato il termine “anima” o “animus”: e parlato, dunque in generale di una
dialettica “anima/animus” nell’ambito della psiche individuale, da intendersi
nel senso di “complesso dell’Io / controparte psichica sessuale”. Mi sono
avvalso del potere critico di introdurre uno schema analitico, il quale non
vorrei venisse frainteso: Jung coi termini “anima” e “animus” indica le sole
controparti. Io ho generalizzato l’uso dei termini in una forma speculare e
dialettica, ma si tratta di una variazione semantica e retorica ad hoc. Fuori
di tale dettaglio, dove il binomio “anima/animus” si polarizza (a seconda del
sesso del soggetto), ho mantenuto inalterata la terminologia usata da Carl
Gustav Jung. In effetti, però, ciascun soggetto femminile o maschile
nell’altrui considerazione può diventare prolungamento di “anima” e “animus”
stricto sensu junghiano: e ciò rappresenta quello che ho inteso significare nel
sistema delle relazioni umane coinvolte.
Il
“Dialogue over ouija board” del ’57 è uno dei più bei componimenti plathiani,
esso sta alla Plath come “La ginestra” a Leopardi o il carme “Dei sepolcri” a
Foscolo. Va letto alla maniera platonica allo scopo di scoprire il significato
che si cela dietro le sue figurate parole. E dunque saremo in grado di cogliere
la plathiana dialettica “anima/animus” al di là delle interazioni tra le
maschere protagoniste.
Sibyl
rappresenta l’anima (junghiana) della poetessa, Leroy e Pan sono quelle forme
di animus (junghiano) che Sylvia ha prima individuato nel padre, e poi in Ted
Hughes (la figura del marito che avrebbe dovuto scacciare la prima, incombente
sul cielo esistenziale della scrittrice in modo sinistro e concorrente rispetto
alla Grande madre negativa, la quale in questo dialogo rimane fuori, tagliata
dalla preponderanza di queste due forme di animus). L’insicurezza iniziale di
Sibyl, che Leroy cerca di disinnescare, è l’espressione di un processo di
individuazione junghiano ancora aperto e con i suoi problemi. Sylvia Plath
rivela anche il suo scetticismo sulla durata dell’amore con Ted. Quando ai vv.
1-3 della strofa 9 dice: «immagino che quando siamo / fuori di esso [amore;
n.d.r.] ci sarà tempo e abbondanza per noi / di corteggiare il rimorso. O
qualcun altro.», vede già qualcosa di Hughes che lei vuol rimuovere pro bono –
pro tempore – pacis animae.
Molto
profonda, molto espressiva l’autrice ai successivi vv. 5-6: «Io considero /
meno temibile il mondo dell’aldilà che il nostro». E di una simile idea ho già
parlato nelle mie analisi. Leroy, alter ego, nella realtà sub specie di Ted
(pseudopositivo animus), del complesso paterno (tendente a identificarsi
radicalmente, in una prima fase di vita della Plath, col termine per lei polare
dell’animus) cerca di rassicurarla in modo ambiguo inducendola a credere
nell’esistenza di un «inferno» oltremondano come una delle dimensioni di
provenienza di Pan (il complesso paterno vero e proprio).
Non
c’è letterale evocazione di uno spirito nel “Dialogue…”, c’è sottile trama
psicoanalitica: si sta discutendo di dinamiche psicologiche, una soggettiva
(quella della poetessa) e una intersoggettiva (o possiamo anche definirla
collettiva, dove l’inconscio minaccia l’io che duella con l’“ombra junghiana”,
riproponentesi con l’abito infernale). L’interrogare Pan sulla vita
ultraterrena e sulla sorte del genitore ha per la scrittrice di Boston pure un
significato metafisico che tocca il dialogo in più punti. Si veda, oltre al
chiedere sul destino dell’anima, la detta miscredenza di un inferno
metasensibile. Si combina in questi casi una schietta materia psicologica con
temi filosofici, il che non è contraddittorio o d’intralcio in una costruzione,
e nella sua lettura, junghiana.
Allorché
nella strofa 20 al v. 6 la Plath definisce Pan «psychic bastard» (si veda il
riutilizzo del secondo termine in “Daddy”) mostra con chiarezza il fatto che
sta parlando della sua relazione “anima/animus” in rapporto al complesso
paterno, cui aggiunge l’indicazione di una (pseudo)sizigia alchemico-junghiana
denotata dal parlare di «nozze (wedding)» nel verso successivo. In queste
strofe 20 e 21 viene esternato il disappunto plathiano sul frutto di questa
“coniunctio”, la quale sovrappone nel processo di individuazione della
scrittrice il nuovo animus hughesiano sul precedente a impronta del complesso
paterno. Questo però non è stato rimpiazzato in simile contesto del tutto
poiché il nuovo animus non è in toto positivo, a causa di difetti di Ted e
perché costui ha natura ambigua nell’essere un sostituto paterno che non riesce
a portare un’originalità definitivamente risanatrice (questa coabitazione non
tanto facile è evidente tra le strofe 26 e 27, e nella 38). Questi fattori
insani sono tematizzati nel “Dialogue…”, ma come già detto subito dopo
sotterrati a difesa di un momentaneo equilibrio che lo stesso Hughes poi
spingerà con la sua pessima condotta in altre direzioni. A posteriori Leroy
appare un ipocrita. Un’altra cosa che si nota in questa opera plathiana è
l’attingere immagini dalla tradizione ebraica (strofe 23, 25 v. 3, 29 v. 6).
Non
si rivela curiosa, anzi tutt’altro, l’attribuzione, nella strofa 24 di un
fattore di razionalità a Leroy giacché la componente del logos corrisponderebbe
al lato psichico soggettivo dell’animus: è Sylvia in questa tensione a
mostrarsi più razionalizzante della sua controparte narrativa, la cui
irrazionalità è più ipocrisia.
I
primi tre versi della strofa 31 ricordano il fenomenismo di Prospero da “The
tempest”1. La Plath fa dire a Leroy di Pan, l’“animus/complesso
paterno”, paragonato a un vampiro alla fine della strofa 37, all’inizio, una
verità obiettiva (terapeutica): «è buono / a sondare sillabe che noi non
abbiamo ancora / portato alla luce in noi stessi». In parole povere costui è un
termine di sprone psicologico.
Le
strofe 41 e 42 sono centrali nell’evoluzione di tali dinamiche. Viene a galla
una disarmonia triangolare “Sylvia / il padre / Ted”, a cui quest’ultimo
vorrebbe replicare candidandosi come fattore di una albedo alchemico-junghiana
prontamente da lei smentita, la quale vorrebbe smarcarsi dal complesso paterno.
Un circolo vizioso questo confronto delle due forme di animus “Ted / il padre”,
al momento, in Sylvia Plath: il primo ha bisogno del secondo per offrirsi come
alter ego, mentre il secondo ha bisogno del primo per reincarnarsi, e tutti e
due sono legati da vicendevole rapporto di appoggio con la poetessa. Ma lei
vuol voltare pagina, chiudere con simili meccanismi che le generano disagio,
perciò nella strofa 43 rompe il bicchiere, figurato medium paterno diretto: è
questo il significato del sogno ricordato da ella poco dopo.
La
percezione plathiana delle macerie di una nigredo è contenuta nella strofa 45,
dove altresì lo spettro dell’ombra junghiana è in maniera inequivocabile
riportato («shadow»). La strofa 46 rappresenta un punto di vista analitico
hughesiano: egli stesso (Leroy) rimane turbato dalla sua rivalità coll’analogo
animus paterno plathiano, sino al punto di cogliere lo smarrimento di Sylvia.
La strofa 47 parla del processo di individuazione della Plath: «l’immagine di
te [the image of you; n.d.r.]» è l’animus che attraversa le vicende su
descritte. Anche Ted Hughes viveva un siffatto cammino psichico, come del resto
ogni essere umano; e infatti Leroy confessa di nuovo il suo trauma maturato nel
confronto col complesso paterno plathiano: ma la volontà di Sylvia di
allontanarsene, alla fine, gli giova pure in questo scontro di lui con quello.
Cosicché lei può proclamare una sizigia.
L’archetipo
della Grande madre positiva e il blu alchemico compaiono nella strofa 49,
benché la prima non abbia giocato nessun ruolo in precedenza nel dialogo. La
razionalità di Leroy adesso si fa trascinare dalla femminilità di Sibyl.
Completata questa prima analisi testuale, un ulteriore esame dei nomi
attribuiti ai tre protagonisti del “Dialogue…” apre le porte di un
significativo approfondimento. Cominciamo da Pan, il quale rivela un’ascendenza
plutarchiana. Plutarco fu autore di un dialogo sugli oracoli delle divinità
pagane che vengono a mancare nel momento in cui il Cristianesimo lievitando
comincia a estromettere le tradizionali pratiche religiose. Il Pan plutarchiano
è un essere mortale (un demone) poiché figlio di una divinità (Ermete) e di una
donna.
La
prima tangenza Plutarco-Plath rientra nel merito di un oracolo difettoso: il
Pan plathiano, oltre che irriverente, è impreciso nelle sue predizioni. La
seconda tangenza trova la sua motivazione nell’origine egizia del culto panico,
che costeggia, imita e si inserisce in quello di Osiride, la tradizione di un
Dio che muore e risorge appartenente a un più vasto campo di credenze diffuse.
Il totalitarismo sincretistico cristiano avrà pure modo di schiacciare Pan
(“buon pastore”) sulla figura di Gesù (si vedano i casi letterari di Rabelais,
Spenser e Milton). Il Pan di Sylvia è dunque l’evoluzione, una maschera scenica, di quel che, nel primo dei suddetti saggi, ho definito “animus-Cristo”, il quale nel “Dialogue…” mostra la sua dialettica con quell’altro “animus Perseo”, che qui è Leroy (ossia Ted Hughes, the hero, heroic). Il nome Sibyl ha una forte impronta wildiana: non voglio dire che sia profezia di suicidio a causa di un eroe ambiguo, ma che si tratti dell’espressione del disagio plathiano. Dorian Gray peraltro è uno che non invecchia, e un proclama di questa sostanza sarà fatto nel (e dal) “Gigolò” della Plath (la cui mia analisi invito a leggere nella prima monografia citata in apertura: qui mi limito a dire l’essenziale, e cioè che il “gigolò / Dorian Gray” è l’ormai conclamato fedifrago Hughes).
NOTA
1 “The tempest”,
atto IV scena I: «E al pari della struttura senza base di questa visione, / le
torri incappucciate dalle nuvole, i magnifici palazzi, / i solenni templi, lo
stesso grande globo, / così, tutto ciò che esso riceve, si dissolverà / e come
quest’insostanziale scena è scomparsa, / non lascerà un segno dietro. Noi siamo
fatti della stessa sostanza di cui sono i sogni; e la nostra piccola vita / è
circondata da un sonno».