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lunedì 23 giugno 2025

I PROFILI SADISTI DI LUCIA E GELTRUDE MANZONIANE NEL “FERMO E LUCIA”

di DANILO CARUSO


Il n’y a de délicieux au monde
 que les jouissances despotiques; 
il faut violenter l’objet que l’on désire.

D. A. F. de Sade, “La nouvelle Justine”


Il “Fermo e Lucia” di Alessandro Manzoni (1785-1873) è un romanzo che costituisce il primo stadio (1823) da cui si evolverà la versione ufficiale de “I promessi sposi” (1827), poi di nuovo rivista sotto il profilo linguistico a beneficio della lingua italiana toscaneggiante (1840). Il manoscritto del 1821-23 fu integralmente pubblicato nel 1916 a cura di Giuseppe Lesca dalla Società anonima editrice Francesco Perrella a Napoli. Da tale edizione provengono i pochi brani citati. A me della prima originaria opera qua interessano solo gli aspetti concettuali in quanto la mia analisi predilige i dettagli che più si prestano alla lettura psicanalitica e ideologica. Nel primo tomo del “Fermo e Lucia” si avverte subito un’aria misogina giacché l’autore definisce Lucia Zarella «donnicciuola» e «di una modesta bellezza», lei e la madre «due donnicciuole», definisce inoltre la donna in generale «persona di quel sesso terribile». Io giudico riguardo a «modesta bellezza» che il Manzoni abbia voluto dire proprio che Lucia non fosse molto attraente, e non che fosse dotata di un «ornamento [...] quotidiano» di bellezza disadorna. Lui la sta descrivendo mentre ella indossa l’abito nuziale, e mi pare che abbia affermato che senza di quello (e tutto il correlato matrimoniale) non fosse gran che sotto il profilo estetico. Nelle maniere retoriche della lingua italiana l’aggettivo preposto al sostantivo assolve a un compito assoluto di descrizione (la bellezza di Lucia è modesta), quello posposto circoscrive, differenzia crea un’opposizione di unità (sarebbe stata “la bellezza modesta di Lucia” antitetica alla “bellezza immodesta”: Lucia sarebbe stata bella, ma semplice). L’aggettivo preposto si comporta come un moltiplicatore: rende positivo o negativo in assoluto, in astratto, il moltiplicando senza andare a fare paragoni, confronti. Nel merito strettamente semantico dell’aggettivo usato dal Manzoni va ricordato che questo deriva dal latino “modestus”, a sua volta proveniente dalla radice di “modus” (misura, moderazione, maniera). In italiano “modesto” allorché non funge da predicato di persone, bensì di qualità, possiede il comune significato di “mediocre”. Il Manzoni avrebbe detto di Lucia parafrasando: di una mediocre bellezza. Rimane ovvio che non si può escludere una predicazione aggettivale sopra qualità astratte o fisiche espresse in un sostantivo cui si voglia attribuire “l’esercizio della modestia (traslata coscienza della personale limitata altezza)”. Però se volessimo parlare di un’intelligenza che fa professione di modestia pare meglio dire: un’intelligenza modesta. E non dire: una modesta intelligenza. Perché nell’ultimo caso l’impressione, con l’aggettivo preposto sembra tutta concentrata sulla “mediocrità assoluta in sé”, senza procedere a distinzioni puntuali. Est modus in rebus, ma nel caso di Lucia non est modus in beauty. Costei si mostra una ragazza molto legata alla religione cattolica, ha assorbito il nevrotizzante indottrinamento di base. Agisce e parla consapevole, rassegnata, contenta (?) di stare in serie B nel mondo cristianizzato. Il Manzoni apprezza simile modestia (virtù) e proclama: «Noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie». Il che si rivela una rinnovata perla di antifemminismo. Ci ha detto che non sembra attraente, ha definito le donne terribili, l’ha chiamata (assieme alla madre) donnicciuola. Quest’ultimo termine è spregiativo: indica in senso lato soggetti volti al pettegolezzo e/o imbelli. Ecco cosa sono le donne agli occhi dell’autore de “I promessi sposi”. Il secondo tomo del “Fermo e Lucia si apre con un ragionamento manzoniano preciso. L’autore disapprova le descrizioni vive e particolareggiate degli amori nelle narrazioni giacché potrebbero stimolare la fantasia e l’interesse non appropriati di uomini di Chiesa. Le disapprova in generale ritenendole fuori luogo nel contesto di una morale comune la quale in queste passaggi letterari vuole attenta alla censura di contenuti apertamente sentimentali ed erotici. Fin qui niente di strano nelle postulazioni di uno scrittore cattolico (di qualsiasi epoca). La stranezza emerge quando incomincia a parlare della Monaca di Monza presso il cui monastero è andata a finire la povera Lucia. Abbiamo già capito che il non essere attraente di costei si addica alle pie donne cattoliche. Mostrarsi donne attraenti costituisce un problema davanti alla dottrina cristiana, in aggiunta alla già più semplice questione di rappresentare porte dell’inferno. Un cappuccino ha accompagnato Lucia e la madre dalla Monaca di Monza e gli ha chiesto di stare nel tragitto a distanza di sicurezza da lui, preoccupato che «si vedesse il padre guardiano con una bella giovane [subito correggendosi;...] con donne per la via». Lucia non si è convertita in bella di colpo, è diventata porta del Diavolo tosto associata alla madre nel «sesso terribile». Nella mente di questo cappuccino l’aggettivo «bella» rimanda al piano semantico di “pericolosa”, non possiede una valenza estetica bensì etica. Simile meccanismo di significanza viene avvalorato dalla condotta narrativa manzoniana che si spende meglio a fondo nella descrizione dell’aspetto della Monaca di Monza. Cito, tralasciando il resto un piccolissimo brano il quale trasuda misoginia: «L’aspetto della Signora, d’una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po’ conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni». Il Manzoni ci racconta il cammino di monacazione della Signora costretta dal padre, un Marchese (una eco sadiana?), a seguire un destino religioso. Nella narrazione della giovinezza di lei, contravvenendo in maniera plateale al principio della censura enunciato poco prima, addirittura ci presenta, in guisa che sinceramente disorienta, una Lolita: «A misura ch’ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza». C’è anche alla vigilia della presa definitiva dei voti il tentativo da parte di costei, dipinta orgogliosa e passionale dal Manzoni, di un approccio amoroso verso un paggio di casa. Meno male che lo scrittore milanese si prefiggeva di non suscitare pensieri inopportuni. Nella dicotomia esistente tra Lucia e la Monaca di Monza l’autore del “Fermo e Lucia” riprende quella sadiana fra Justine e Juliette. Tuttavia inverte alla luce della sua gabbia mentale religiosa l’esito in rapporto al successo. La storia della monacazione di Geltrude costituisce una vicenda di violenza psichica perpetrata dal padre a scapito della figlia: uno scenario sadico celato dietro gli interessi patrimoniali familiari. L’andare-dentro-una-struttura-religiosa accomuna Lucia, Geltrude, Justine. Con la seconda che, facendo da contraltare alla prima, rammenta Juliette. Geltrude è entrata in monastero malvolentieri, forzata, violentata nell’animo. Chi è vittima di abusi porta seco un trauma che può trasformare questa in un soggetto abusatore. Così è accaduto alla Monaca di Monza, di cui il Manzoni ci informa che fosse cosciente di una sua superiore avvenenza rispetto alle altre che la circondavano. Il cruccio di tale privilegio estetico inutile in un luogo di isolamento religioso femminile ha contribuito a inasprirne lo spirito. Perciò, divenuta docente delle fanciulle ospitate per ricevere una formazione educativa, si accanisce sulla loro naturale spontanea giovialità, volendo (a sua volta) praticare una sadica azione. Ma questo tiaso di Geltrude non viene unicamente a vivere nell’oppressione psicologica, e può rovesciarsi, in un meccanismo governato dal bipolarismo, in uno spazio di discussione salottiero dove lei s’immerge e nuota nei discorsi riversati. Simile oscillazione di comportamento di Geltrude appare di evidente natura patologica, e derivante da un mancato equilibrio interiore pregiudicato abbondantemente prima durante la sua vita familiare, la quale contribuì a imprimere in lei la potenza di una psiche tirannica che avrebbe sotterrato quella dell’indifesa e debole fanciulla sconfitta dalle circostanze. Una psiche tirannica venuta fuori in monastero e legittimata dalle sue prerogative di classe sociale alta. Il Manzoni ha affermato di non voler turbare nessuno, però con la Signora ha aperto un romanzo psicologico molto profondo, molto lontano dalle sue declamate direttive. Il convento, il monastero, quali luoghi di trasgressione sono topoi sadiani: la Geltrude manzoniana non vi risulta estranea. Diviene ella infatti l’amante di Egidio, farabutto donnaiolo, abitante attiguo al monastero della Signora. Costei ha accanto a sé due suore al suo servizio, le quali saranno inglobate nel sistema della tresca. Una di loro prima di aderire a suddetto circuito aveva esternato suoi sospetti in merito a carico della Monaca di Monza all’orecchio di una compagna, la quale, sebbene poi rassicurata con la scusa di un presunto errore di valutazione da parte della servitrice, ebbe l’ardire di mal reagire all’incostante tirannica Geltrude minacciando di rivelare quei sospetti all’autorità religiosa. La serva della Signora, secondo il piano convenuto dai quattro con a guida Egidio, uccide la suora che rappresentava un pericolo per loro, e il cadavere dal monastero viene trasportato e seppellito nella confinante proprietà di e da Egidio. La storia di questi scellerati organizzatori di un assassinio, con occultamento del corpo, tinge di tinte oscure e forti questa sezione del romanzo, il quale predilige il dilungarsi in ricche descrizioni dei caratteri negativi. La caccia a Lucia e il suo rapimento, prima fallito dai bravi del nobile spagnolo, poi riuscito sotto l’egida del Conte del Sagrato, cui l’altro si è rivolto ad hoc, a me ricorda un po’ quegli inseguimenti di sadico svago messi in atto in “The sound of his horn” di Sarban1. La povera Lucia in simili momenti del romanzo pare proprio una di quelle vittime travestite da animali alle quali viene data la caccia quasi fossero volpi. Il sadismo velato e soft del “Fermo e Lucia” convive con la misoginia. È lampante la guisa in cui Lucia e Geltrude (Justine e Juliette) vengano indicate quali cause di mali. Le donne sia che si sposino, sia che si facciano monache, sono, in tale quadro manzoniano, possibile origine di sviamento per gli uomini. Fermo vuol unirsi in matrimonio a Lucia, però costei muove l’interesse di Don Rodrigo. Qualcosa di analogo accade col personaggio di Geltrude. Se la Signora non avesse avuto un amante, Lucia sarebbe rimasta nel di lei monastero poiché Egidio, amico del Conte del Sagrato, da questo messo in azione alla volta del rapimento della ragazza, non avrebbe potuto persuadere la Monaca di Monza a farla uscire dalla struttura con l’obiettivo di catturarla. Come si vede le donne sono ianua Diaboli. Le uniche buone sul serio devono navigare nel medesimo canale della Zarella. Il Manzoni ci dice che Lucia mena sempre seco il rosario, e che, prigioniera, calandosi nei panni di una martire cristiana la quale non ha voluto cedere al suo pagano amoroso pretendente, ha rivolto voto alla Madonna di castità purché questa la faccia uscire salva da quella circostanza. Tale si rivela la donna comune ideale del Cattolicesimo manzoniano: colei che rinunzia alla contaminazione sessuale. E, al pari di una rivestita di santità, Lucia riuscirà a mettere in crisi l’animo del suo carceriere, il quale attraverso di ella prenderà miracolosa coscienza delle sue scelleratezze: percorso surreale, acrobatico, alquanto fantastico. Vedo nella giovane promessa sposa il simbolo dell’“anima junghiana” dello scrittore milanese. Il trattamento riservato alla nubenda nei frangenti del rapimento, della prigionia e della liberazione, sotto un profilo psicanalitico dinamico mi ha rievocato l’eutanasia di Mabel Brand in “Lord of the world”. Là, ho spiegato, nel mio pertinente saggio bensoniano2, essere costei il simbolo dell’“anima junghiana” di Monsignor Robert Hugh Benson. Questa in punto di morte riceve la grazia dell’illuminazione divina, e di una conseguente conversione in extremis vitae. Io ho meglio chiarito che si maschera invece il complesso nevrotico il quale assediava l’Io dell’autore inglese. Parallelamente qua col Manzoni notiamo un imbrigliamento psichico della parte di contraltare sessuale, ma senza che si persegua un cammino estremo e irrimediabile. Al Manzoni le donne interessavano, a Benson no: il primo ha potuto frequentarle e sposarsi due volte, il secondo era congelato dentro un voto di castità. Pertanto a differenza di Mabel, Lucia sopravvive. Però lo fa imprigionata nel binario nevrotico manzoniano. Quel voto di castità della sposa promessa sta per un tentativo di “suicidio bensoniano” (mi riferisco alla vicenda della moglie di Oliver Brand, non sto parlando di azione dell’autore inglese). Lucia, anima junghiana manzoniana, si pone sotto scacco (nevrotico) in attesa che un agente nevrotico eviti il matto in maniera inequivocabile: Manzoni non vuol perdere la donna a fine sessuale, Benson non poteva e dunque ha eliminato Mabel. Il voto di castità di Lucia, sentitasi in pericolo, si mostra il frutto di una mente masochista oppressa da un dominante sadico. Fermo, che il Manzoni ha definito «minchione», ritrova in conclusione colei, la sua promessa sposa, la quale io ho ritenuto masochista. Ella oppone alla rinnovata prospettiva nuziale di lui il proprio voto di castità rivolto alla Madonna, di cui sopra. Sarà Padre Cristoforo a scioglierlo e a restituire ai due sposi promessi la strada del matrimonio. Uno sguardo ingenuo direbbe: tutto a posto. Per me, no. Il frate ha compiuto un atto gravemente dissacratorio nel cancellare un impegno (positivo) di peso superiore nei confronti della Vergine, un impegno seguito il quale aveva rimosso quello nei riguardi di Fermo. Il voto di castità di Lucia correlato a ottenimento di miracolo non può essere sciolto senza sacrilegio. V’è più di un motivo teologico per dire che Padre Cristoforo abbia compiuto un atto sacrilego paragonabile alla celebrazione eucaristica tenuta da Padre Jérôme sopra πυγή di Justine. Posso aggiungere, a proposito della maniera in cui il cappuccino ha liberato la masochista Lucia dal suo voto di castità, che così operando l’ha riconsegnata alla sua dimensione di porta del Diavolo. Voglio riportare la chiusura del manoscritto del “Fermo e Lucia”, dove la masochista protagonista ci spiega “le sventure della sua virtù” (culminante, schiacciante analogia Justine/Lucia): «Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: “d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra”. Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: “Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire”, aggiunse ella soavemente sorridendo, “che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te”. Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de’ guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia». Notiamo che sino alla conclusione la bassa opinione patristica sulle donne non abbandoni il Manzoni. Ma poi guardando il destino della sua Lucia (anima junghiana) non posso in extremis sottolineare altra analogia sadiana: le donne servono soprattutto per scopi sessuali, ecco perché Lucia non è finita col farsi suora (o restare nubile).


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio intitolato “Sadismo e oscurantismo religioso in Alessandro Manzoni”
 
1 Una mia analisi di questo romanzo, Il nazisadismo di Sarban fra spirito del tempo e spirito del profondo, nella mia pubblicazione Studi illuministi (2024).
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/il-nazisadismo-di-sarban-fra-spirito.html
 
2 L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson, uscito nel 2017.
https://www.academia.edu/33666516/L_apologia_dell_irragionevole_di_Robert_Hugh_Benson