di DANILO CARUSO
Questo
scritto raggruppa una serie di spunti critico-analitici sopra il romanzo
dannunziano “Il piacere”. La storia ivi narrata riguarda la decadente parabola
sentimentale di Andrea Sperelli, abbandonato dall’amante Elena Muti (in seguito
a motivi economici), il quale trova una nuova sponda in un’altra particolare
donna (Maria Ferres). Tal ultima, a sua volta (ma con motivazioni più nobili),
si separerà dal legame con Andrea. Nelle mie
riflessioni ho seguito il mio indirizzo intellettuale spiritualista: pertanto
in esse si ritroveranno richiami a Jung e a Platone, giacché la mia critica
letteraria in generale si appoggia al contributo di pensatori del passato, i
cui insegnamenti è possibile applicare ad hoc. L’analisi si accompagna
all’estrazione di brani dal testo letterario di Gabriele D’Annunzio.
1.
ASPETTI PSICOANALITICI
1.1
Il cap. I del libro II del romanzo mette in
risalto particolari e interessanti dinamiche della psiche di Andrea, uscito
sconfitto e ferito in modo abbastanza grave nel duello d’onore col Rutolo.
Sebbene in apertura di suddetto capitolo inizia un richiamo a tangenze
concettuali precise, a partire dalla nietzschiana “volontà di potenza”, seguita
dall’evocazione del panismo greco-romantico (cui fa da contraltare il passaggio
a una dimensione interiore del protagonista più decadente), non è da
sottovalutare tuttavia la possibilità di una lettura di questa sezione
dell’opera in chiave psicoanalitica junghiana. È dunque lecito vedere
nell’esperienza di recupero mentale dello Sperelli spunti di un suo contatto
momentaneo con “l’inconscio collettivo”, rappresentato in maniera intensa
dall’immagine del mare. La fase panica sa di temporanea apertura della psiche
individuale di Andrea, grazie al canale dell’“anima junghiana”, all’“inconscio
impersonale”. Questo contatto gli consente di maturare il guadagno di un concetto
di libido – per lui più prassi che conoscenza – nuovo e diverso da quello
strettamente freudiano: egli coglie la “libido” secondo una più ampia visione
junghiana, dove l’estetica si allarga a un ambito di edonismo non solo
sessuale.
1
La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il
senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana
più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della
morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la
volontà, la conscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più
vigile del pensiero, più continua del desiderio, più potente della volontà, più
profonda anche della conscienza; ed è la sostanza, la natura dell’essere suo.
Comprende egli che la sua vita reale è quella, dirò così, non vissuta da lui; è
il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive;
è l’attività armoniosa e misteriosa della vegetazione animale; è
l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le
rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della
convalescenza: richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame
infrante, rammenda i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi, rinfonde
nelle vene la ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda dell’amore,
rintreccia d’intorno al capo la corona de’ sogni, riaccende nel cuore la fiamma
della speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
[…]
Il convalescente rinveniva sensazioni obliate della puerizia,
quell’impression di freschezza che dànno al sangue puerile gli aliti del vento
salso, quegli inesprimibili effetti che fanno le luci, le ombre, i colori, gli
odori delle acque su l’anima vergine. Il mare non soltanto era per lui una
delizia degli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i
suoi pensieri, una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la
salute e il suo spirito la nobiltà. Il mare aveva per lui l’attrazion
misteriosa d’una patria; ed egli vi si abbandonava con una confidenza filiale,
come un figliuol debole nelle braccia d’un padre onnipossente. E ne riceveva
conforto; poiché nessuno mai ha confidato il suo dolore, il suo desiderio, il
suo sogno al mare invano.
Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni
subitanee, d’illuminazioni improvvise, di significazioni inaspettate. Gli
scopriva nella segreta anima un’ulcera ancor viva sebben nascosta e glie la
faceva sanguinare; ma il balsamo poi era più soave. Gli scoteva nel cuore una
chimera dormente e glie la incitava così ch’ei ne sentisse di nuovo le unghie e
il rostro; ma glie la uccideva poi e glie la seppelliva nel cuore per sempre.
Gli svegliava nella memoria una ricordanza e glie l’avvivava così ch’ei sofferisse
tutta l’amarezza del rimpianto verso le cose irrimediabilmente fuggite; ma gli
prodigava poi la dolcezza d’un oblio senza fine. Nulla entro quell’anima
rimaneva celato, al conspetto del gran consolatore. Alla guisa che una forte
corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal color
della loro fiamma, la virtù del mare illuminava e rivelava tutte le potenze e
le potenzialità di quell’anima umana.
[…]
– L’Arte! L’Arte! – Ecco l’Amante fedele, sempre giovine, immortale;
ecco la Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti;
ecco il prezioso Alimento che fa l’uomo simile a un dio. Come aveva egli potuto
bevere ad altre coppe dopo avere accostate le labbra a quell’una? Come aveva
egli potuto ricercare altri gaudii dopo aver gustato il supremo? Come il suo
spirito aveva potuto accogliere altre agitazioni dopo aver sentito in sé
l’indimenticabile tumulto della forza creatrice? Come le sue mani avevan potuto
oziare e lascivire su i corpi delle femmine dopo aver sentito erompere dalle
dita una forma sostanziale? Come, infine, i suoi sensi avean potuto indebolirsi
e pervertirsi nella bassa lussuria dopo essere stati illuminati da una
sensibilità che coglieva nelle apparenze le linee invisibili, percepiva l’impercettibile,
indovinava i pensieri nascosti della Natura?
2
[Dal cap. II seguente] Pensieri subitanei insorgevano dalle profondità misteriose della
conscienza e lo sorprendevano.
1.2.
LA POTENZA DELLA POESIA E IL POETA “JUNGHIANO
SCOPRITORE” DI IMMAGINI ARCHETIPICHE
«Il Verso è tutto.»
Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento
d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente,
sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più
sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più
fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto,
più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può
tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della
sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare
l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può
rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare
come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posseder il nostro
intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere
l’Assoluto. Un verso perfetto e assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le
parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio
preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni
legame da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di
nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un
pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già
esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta,
séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui
che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste
preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali
versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade
d’improvviso tutto l’essere.
1.3.
Questo brano, riguardante Andrea Sperelli e
Maria Ferres (che parla), tratteggia l’intuizione da parte di lei di un
contenuto dell’inconscio assoluto. Testimonia la finezza intellettuale di
D’Annunzio, al di là degli studi, nel far tesoro presumibilmente di riflessioni
espostegli da interlocutrici intellettuali. E dimostra come egli abbia potuto
trarne spunto per elaborare l’illustrazione di dinamiche (junghiane), in
particolar modo femminili; dinamiche che lo scrittore ha saputo cogliere, nel
loro vivo aspetto esteriore, grazie alla sua abilità di scandaglio introspettivo.
Tale sensibilità fa sì che si possa notare in più punti del romanzo l’agire di
una dimensione psicologica, nuova frontiera di esplorazione scientifica alla
fine dell’Ottocento.
– Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo su la strada, al ponte
del Convito, dall’altra parte.
E trattenne il cavallo.
Perché acconsentii? Perché entrai con lui? Io aveva negli occhi una
specie di abbagliamento; mi pareva d’essere sotto l’influenza d’una
fascinazione confusa; mi pareva che quel paesaggio, quella luce, quel fatto,
tutta quella combinazione di circostanze non fossero per me nuovi ma già un
tempo esistiti, quasi direi in una mia esistenza anteriore, ed ora
riesistenti... L’impressione è inesprimibile. Mi pareva dunque che quell’ora,
che quei momenti, essendo stati già da me vissuti, non si svolgessero, fuori di
me, indipendenti da me, ma mi appartenessero, ma avessero con la mia persona un
legame naturale e indissolubile così ch’io non potessi sottrarmi a riviverli in
quel dato modo ma dovessi anzi necessariamente riviverli. Io aveva chiarissimo
il sentimento di questa necessità. L’inerzia della mia volontà era assoluta.
Era come quando un fatto della vita ritorna in un sogno con qualche cosa di più
della verità, e di diverso dalla verità. Non riesco nemmeno a rendere una
minima parte di quel fenomeno straordinario.
E una segreta rispondenza, un’affinità misteriosa era tra l’anima mia
e il paesaggio.
1.4.
Appena ritornato a Roma, il complesso di Maria
non si è allontanato nella mente di Andrea (principio di nevrosi): nella di lui
stanza da letto.
Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo d’intelletto, l’Amante
Ideale, l’Amie avec des hanches, secondo l’espressione di Carlo Baudelaire, la
Consolatrix unica, quella che conforta e perdona sapendo perdonare. […] Nella
sua imaginazione egli cominciò a svestire la senese, ad involgerla del suo
desiderio, a darle attitudini di abbandono, a vedersela tra le braccia, a
goderla. Il possesso materiale di quella donna così casta e così pura gli parve
il più alto, il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere; e
quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento, perché
avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione e di sacrilegio che
il segreto atto, secondo lui, doveva avere.
La stanza era religiosa, come una cappella.
1.5.
La conclusione dell’opera contempla un
ping–pong nella mente di Andrea, dove il suo complesso dell’Io è la pallina e
le racchette sono i complessi psichici (nonché le persone reali) di Elena e
Maria. Definitivamente deluso della prima donna, un frustrato Sperelli ne
proietta l’imago sulla seconda, sprofondando in un serio disturbo mentale
dislocante. Elena si rivela legata a una forma di amore erotico indifferenziato
(in fondo le interessa il fine non la stabilità del mezzo). Maria invece mostra
attenzione verso l’amore agapico, disinteressato. Non è una donna propensa al
convegno amoroso, come l’altra, e sebbene alla fine ceda una tantum, quale rito
di congedo nell’allontanamento irrimediabile fra i due, riesce a scoprire in
tempo la radicale ipocrisia del suo partner (di cui aveva apprezzato più la
superficie estetica e la raffinatezza intellettuale, che non la cangiante
sostanza interiore). Maria aveva compreso a tempo debito il legame che univa
Andrea alla di lui ex amante, ma si lascia illudere da un sogno di medievale
ascendenza. Il romanzo dannunziano si distingue nella chiusura per il fatto di
lasciare il finale aperto circa la sorte dello Sperelli: troverà egli la forza
in direzione di un cammino di redenzione morale, o la sua involuzione lo
proietterà inevitabilmente alla volta dell’autodistruzione? “Il piacere” è
dunque un romanzo definibile aporetico. Ha una forte connotazione platonica nel
suo strutturare le vicende secondo il modello psichico della “biga” nel
“Fedro”. Andrea rappresenta l’auriga, la ragione e la capacità di
determinazione della volontà personale, in relazione alla “passionale” Elena e
alla “emotiva” Maria. Le due donne simboleggiano due dimensioni libidiche
opposte: una involutiva e degenerativa nei confronti di chi si fa trascinare,
l’altra normale e costitutiva dell’esistenza umana. In termini junghiani si può
inoltre specificare che sotto il profilo caratteriale Elena è
“sentimentale-percettiva”, Maria “sentimentale-intuitiva”; Andrea è
strutturalmente “sentimentale”, e come un pendolo ha oscillato tra il
“sentimentale” e l’“intuitivo”: un meccanismo patologico che lo ha connotato
per buona parte del romanzo.
1 (Maria)
Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si
agitava in una felicità solcata d’inquietudini profonde; tutto il suo sangue
cristiano s’accendeva alle voluttà della passione non mai provate e
s’agghiacciava agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima,
soverchiante, immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria
della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed
aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui
ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando
con un dolor disperato, come sopra la testa d’una morta.
Tutto il suo essere s’affinava alla fiamma, si assottigliava, si
acuiva, acquistava una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità
oltraveggente, una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad
ogni inganno di Andrea, ella si sentiva passare un’ombra su l’anima, provava
una inquietudine indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d’un
sospetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza,
finché non si dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell’ incomprensibile
amante.
Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la
gelosia, non pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le
persone gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe voluto leggere nella
memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate
dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva alle
labbra, quando Andrea taceva, era questa: – A che pensi? – E mentre ella
profferiva le tre parole, inevitabilmente l’ombra le passava negli occhi e su
l’anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore.
Anche quel giorno, all’improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva
ella avuto in fondo a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido
erale balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady
Heathfield, dal palazzo Barberini.
Ella sapeva che Andrea era stato l’amante di quella donna, sapeva che
quella donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena
dell’inscrizione. «Ich lebe!...» Il distico del Goethe le squillava forte sul
cuore. Quel grido lirico le dava la misura dell’amor d’Andrea per la bellissima
donna. Egli doveva averla immensamente amata!
Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l’apparizione di Elena
nella sala del concerto, al Palazzo de’ Sabini, e il turbamento mal dissimulato
dell’antico amante. Ricordava la terribile commozione che l’aveva presa una
sera, a una festa dell’Ambasciata d’Austria, quando la contessa Starnina le
aveva detto, al passaggio di Elena: – Ti piace la Heathfield? È stata una gran
fiamma del nostro amico Sperelli, e credo che sia ancora.
«Credo che sia ancora.» Quante torture per quella frase! Ella aveva
seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla
elegante; e più d’una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di lei, ed
ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima,
presentate l’una all’altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla,
avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi
ripetuto in seguito nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila
aveva attraversato un salone mondano.
Perché i dubbii, sopiti o spenti sotto l’onda delle ebrezze,
risorgevano con tanta veemenza? Perché ella non riusciva a reprimerli, ad
allontanarli? Perché in fondo a lei si agitavano, ad ogni piccolo urto
dell’imaginazione, tutte quelle sconosciute inquietudini?
Camminando sotto gli alberi, ella sentiva crescere l’affanno. Il suo
cuore non era pago; il sogno levatosi dal suo cuore – nella mattina mistica,
sotto gli alberi floridi, in conspetto del mare – non s’era avverato. La parte
più pura e più bella di quell’amore era rimasta là, nel bosco solitario, nella selva
simbolica che fiorisce e fruttifica perpetuamente contemplando l’Infinito.
2 (Andrea)
Pur contaminandola e ingannandola senza ritegno, egli sapeva d’essere
amato da un alto e nobile spirito, egli sapeva omai di trovarsi innanzi a una
grande e terribile passione, egli aveva omai conscienza di quella grandezza
come della propria viltà. Egli sapeva, egli sapeva d’essere immensamente amato;
e talvolta, nelle furie delle sue imaginazioni, giungeva perfino a mordere la
bocca della dolce creatura per non gridare un nome che gli risaliva con
invincibile impeto alla gola; e la buona e dolente bocca sanguinava in un
sorriso inconscio, dicendo:
– Anche così, tu non mi fai male.
1.6.
UNO SCRITTORE TRA FREUD E JUNG: “ES / SUPER
EGO”, E L’“OMBRA”.
Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al
sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza
dell’abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania
sanguinaria ed anela alla strage.
2.
ASPETTI CRITICI VARI
2.1. A casa di Andrea Sperelli, Ruggero Grimiti racconta l’erotico comico
aneddoto di Gino Bomminaco. D’Annunzio in fatto di estetica si è rivelato un
precursore di tendenze future. Della menzionata poesia di Gautier (21 quartine
a rima alternata), di contenuto antitetico alla dannunziana intuizione, sono
evocati sei precisi versi (8, 14, 22–24, 79) dal Poeta soldato.
– Nella primavera scorsa (non so se tu l’abbia notato) Gino faceva a
Donna Giulia una corte ardentissima, assai visibile. Alle Capannelle, la corte
si mutò in flirtation assai vivace. Donna Giulia era sul punto di capitolare; e
Gino, al solito, era tutto in fiamme. L’occasione si presentò. Giovanni Moceto
partì per Firenze, a portare i suoi cavalli slombati sul turf delle Cascine.
Una sera, una sera dei soliti mercoledì, anzi dell’ultimo mercoledì, Gino pensò
che il gran momento era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se ne andassero
e che il salone rimanesse vuoto e ch’egli finalmente rimanesse solo, con lei...
– Qui – interruppe il Barbarisi – ci vorrebbe ora Bommìnaco. È
inimitabile. Bisogna sentirgli fare, in napoletano, la descrizione
dell’ambiente, e l’analisi del suo stato, e poi la riproduzione del momento
psicologico e del fisiologico, com’egli dice, alla sua maniera. È d’una
comicità irresistibile.
– Dunque – seguitò Ruggero – dopo il preludio, che sentirai da lui,
nel languore e nell’eccitazione erotica d’una fin de soirée, egli s’inginocchiò
d’innanzi a Donna Giulia che stava seduta su una poltrona molto bassa, su una
poltrona imbottita di complicità» . Donna Giulia già naufragava nella dolcezza,
difendendosi debolmente; e le mani di Gino divenivano sempre più temerarie,
mentre ella già esalava il sospiro della dedizione... Ahimè, dall’estrema
temerità le mani si ritrassero con un moto istintivo come se avessero toccato
la pelle d’una serpe, una cosa repugnante...
Andrea ruppe in uno scoppio di risa così schietto che l’ilarità si
propagò a tutti gli amici. Egli aveva compreso, perché sapeva. Ma Giulio
Musèllaro disse, con gran premura, al Grimiti:
– Spiegami! Spiegami!
– Spiega tu – disse il Grimiti allo Sperelli.
– Ecco, – spiegò Andrea, ancora ridendo – conosci tu la più bella
poesia di Teofilo Gautier, il Musée secret?
– O douce barbe féminine! – recitò il Musellaro, ricordandosi.
– Ebbene?
– Ebbene, Giulia Moceto è una finissima bionda; ma se tu avessi la
fortuna, che ti auguro, di tirare le drap de la blonde qui dort, certo non
troveresti, come Filippo di Borgogna, il toson d’oro. Ella è, dicono, sans
plume et sans duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier.
– Ah, una rarissima rarità che io apprezzo molto – disse il Musèllaro.
– Una rarità che noi sappiamo apprezzare – ripeté Andrea. Ma Gino
Bommìnaco è un ingenuo, un semplice.
Ascolta, ascolta il resto – fece il Barbarisi.
– Ah se ci fosse qui l’eroe! – esclamò il duca di Grimiti. – La
storiella in un’altra bocca perde tutto il sapore. Figurati dunque che la
sorpresa fu tanta e tanta la confusione, da spegnere ogni fuoco. Gino dovette
ritirarsi prudentemente, per l’impossibilità assoluta d’andar più oltre. Te
l’imagini? T’imagini tu la terribile mortificazione d’un uomo che, essendo
giunto ad ottener tutto, non può prender nulla? Donna Giulia era verde; Gino
fingeva di tender l’orecchio ai rumori, per temporeggiare, sperando... Ah, il
racconto della ritirata è una meraviglia. Altro che Anabasi! Sentirai.
– E Donna Giulia è poi divenuta l’amante di Gino? – domandò Andrea.
– Mai! Il povero Gino non mangerà mai di quel frutto; e credo che ne
morrà di rammarico, di desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne, con gli
amici; ma tu osservalo bene, quando racconta. Sotto la buffoneria c’è la
passione.
2.2. Una puntata di anticlericalismo esplicito, e l’ironica acutezza di
eloquio di Andrea. Nel seguente brano, laddove lo scrittore sembra essere
offensivo nei confronti delle donne, occorre ricordare che egli qui nel romanzo
(o altrove) non generalizza. D’annunzio distingue in modo preciso le donne: ci
sono quelle della categoria di Eleonora Duse (Maria Ferres, ad esempio), quelle
(soggettivamente) attraenti e (obiettivamente) incolte, le altre. Il Poeta
soldato è tutto l’opposto di un antifemminista alla maniera di Erasmo da
Rotterdam .
Andrea Sperelli salutò la compagnia e, portando per mano Clara Green,
disse:
– Ecce Miss Clara Green, ancilla Domini, Sibylla palmifera, candida
puella.
– Ora pro nobis – risposero in coro il Musèllaro, il Barbarisi e il
Grimiti.
[…] Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir
di stupefazione o d’irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. […]Per
non annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi,
atroci impertinenze dissimulate con l’ambiguità delle parole, sottigliezze
incomprensibili, madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un
gergo […]. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa, un
aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d’una
cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa e
possente.
2.3. Esempi della sottigliezza intellettuale, retorica e semantica
dannunziana in ambito erotico.
Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato,
sul quale s’aprivano due lunghi occhi di velluto, d’un morbido velluto castagno
che talvolta prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po’ carnoso e le labbra
tumide, fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso
un’espressione d’aperta lascivia, resa ancor più vivace dall’irrequietudine
della lingua. I canini, essendo troppo forti, le sollevavano gli angoli della
bocca; e, come gli angoli così sollevati si facevano aridi o le davano forse un
lieve fastidio, ella ad ogni tratto con la punta della lingua li inumidiva. E
si vedeva ad ogni tratto scorrere per la chiostra dei denti quella punta, come
la foglia bagnata d’una rosa grassa per una fila di piccole mandorle nude.
– Julia, – disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca – san
Bernardino ha per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo
non sapete, voi!
L’Arici si mise a ridere, d’un riso ebete ma bellissimo, che le
scopriva un poco le gengive; e nell’agitazione ilare usciva da lei un profumo
più acuto come quando viene scosso un cespuglio.
– Che mi date – soggiunse Andrea – che mi date in compenso se,
estraendo dal sermone del santo quella parola voluttuosa, come da un tesoro
teologale una pietra afrodisiaca, io ve la offro?
– Non so – rispose l’Arici, sempre ridendo e tenendo tra le dita a
bastanza fini e lunghette un bicchiere con vin di Chablis. – Quel che volete.
– Il sostantivo dell’adjettivo.
– Che dite?
– Ne discorreremo. La parola è: linguatica. Messer Ludovico,
aggiugnete alle vostre litanie questa appellazione: «Rosa linguatica, glube
nos.»
[…]
Quel vino chiaro e brillante, che ha su le donne una virtù così pronta
e così strana, già incominciava ad eccitare variamente i cervelli e le matrici
di quelle quattro etàire ineguali, a risvegliare e a stimolare in loro il
piccolo dèmone isterico e a farlo correre per tutti i loro nervi propagando la
follia.
[…]
– Non so se tu abbia fatto miglior caccia, – seguitò il duca di Beffi
– ma noi abbiamo avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti e due volpi.
Giovedì, alle Tre Fontane.
– Capisci? Non alle Quattro... – ammonì, con la sua solita gravità
comica, Gino Bommìnaco.
Gli amici risero, al motto; e il riso si propagò anche allo Sperelli.
2.4.
UNA SINGOLARE COINCIDENZA DI VEDUTE CON MARX
[A proposito di Andrea Sperelli in un
particolare passaggio del testo]
L’assenza completa di mistero nell’avventura, la compiacenza vanitosa degli
amanti nell’acco-gliere i motti e i sorrisi altrui, la cinica indifferenza con
cui gli amanti d’un tempo lodano le qualità della donna a coloro che già sono
su la via di goderle, e l’affettazione con cui quelli dànno a questi i consigli
per giunger meglio allo scopo, e la premura con cui questi dànno a quelli i più
minuti ragguagli su un primo convegno per sapere se la maniera tenuta ora dalla
dama nel concedersi si riconfronti con quella tenuta altre volte, e le
cessioni, e le concessioni, e le successioni, e insomma tutte le piccole e
grandi viltà che accompagnano i dolci adulterii mondani, gli parvero ridur l’amore
una mescolanza insipida e immonda, una volgarità ignobile, una prostituzion
senza nome.
NOTE
I
brani dannunziani sono stati tratti da “Il piacere” (Treves, 1894).