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martedì 30 ottobre 2018

LEGGENDO D’ANNUNZIO: “IL PIACERE”.

di DANILO CARUSO

Questo scritto raggruppa una serie di spunti critico-analitici sopra il romanzo dannunziano “Il piacere”. La storia ivi narrata riguarda la decadente parabola sentimentale di Andrea Sperelli, abbandonato dall’amante Elena Muti (in seguito a motivi economici), il quale trova una nuova sponda in un’altra particolare donna (Maria Ferres). Tal ultima, a sua volta (ma con motivazioni più nobili), si separerà dal legame con Andrea. Nelle mie riflessioni ho seguito il mio indirizzo intellettuale spiritualista: pertanto in esse si ritroveranno richiami a Jung e a Platone, giacché la mia critica letteraria in generale si appoggia al contributo di pensatori del passato, i cui insegnamenti è possibile applicare ad hoc. L’analisi si accompagna all’estrazione di brani dal testo letterario di Gabriele D’Annunzio.


1. ASPETTI PSICOANALITICI

1.1 Il cap. I del libro II del romanzo mette in risalto particolari e interessanti dinamiche della psiche di Andrea, uscito sconfitto e ferito in modo abbastanza grave nel duello d’onore col Rutolo. Sebbene in apertura di suddetto capitolo inizia un richiamo a tangenze concettuali precise, a partire dalla nietzschiana “volontà di potenza”, seguita dall’evocazione del panismo greco-romantico (cui fa da contraltare il passaggio a una dimensione interiore del protagonista più decadente), non è da sottovalutare tuttavia la possibilità di una lettura di questa sezione dell’opera in chiave psicoanalitica junghiana. È dunque lecito vedere nell’esperienza di recupero mentale dello Sperelli spunti di un suo contatto momentaneo con “l’inconscio collettivo”, rappresentato in maniera intensa dall’immagine del mare. La fase panica sa di temporanea apertura della psiche individuale di Andrea, grazie al canale dell’“anima junghiana”, all’“inconscio impersonale”. Questo contatto gli consente di maturare il guadagno di un concetto di libido – per lui più prassi che conoscenza – nuovo e diverso da quello strettamente freudiano: egli coglie la “libido” secondo una più ampia visione junghiana, dove l’estetica si allarga a un ambito di edonismo non solo sessuale.

1
La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la conscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, più continua del desiderio, più potente della volontà, più profonda anche della conscienza; ed è la sostanza, la natura dell’essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è quella, dirò così, non vissuta da lui; è il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; è l’attività armoniosa e misteriosa della vegetazione animale; è l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della convalescenza: richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame infrante, rammenda i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi, rinfonde nelle vene la ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda dell’amore, rintreccia d’intorno al capo la corona de’ sogni, riaccende nel cuore la fiamma della speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
[…]
Il convalescente rinveniva sensazioni obliate della puerizia, quell’impression di freschezza che dànno al sangue puerile gli aliti del vento salso, quegli inesprimibili effetti che fanno le luci, le ombre, i colori, gli odori delle acque su l’anima vergine. Il mare non soltanto era per lui una delizia degli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri, una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la salute e il suo spirito la nobiltà. Il mare aveva per lui l’attrazion misteriosa d’una patria; ed egli vi si abbandonava con una confidenza filiale, come un figliuol debole nelle braccia d’un padre onnipossente. E ne riceveva conforto; poiché nessuno mai ha confidato il suo dolore, il suo desiderio, il suo sogno al mare invano.
Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni subitanee, d’illuminazioni improvvise, di significazioni inaspettate. Gli scopriva nella segreta anima un’ulcera ancor viva sebben nascosta e glie la faceva sanguinare; ma il balsamo poi era più soave. Gli scoteva nel cuore una chimera dormente e glie la incitava così ch’ei ne sentisse di nuovo le unghie e il rostro; ma glie la uccideva poi e glie la seppelliva nel cuore per sempre. Gli svegliava nella memoria una ricordanza e glie l’avvivava così ch’ei sofferisse tutta l’amarezza del rimpianto verso le cose irrimediabilmente fuggite; ma gli prodigava poi la dolcezza d’un oblio senza fine. Nulla entro quell’anima rimaneva celato, al conspetto del gran consolatore. Alla guisa che una forte corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal color della loro fiamma, la virtù del mare illuminava e rivelava tutte le potenze e le potenzialità di quell’anima umana.
[…]
– L’Arte! L’Arte! – Ecco l’Amante fedele, sempre giovine, immortale; ecco la Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l’uomo simile a un dio. Come aveva egli potuto bevere ad altre coppe dopo avere accostate le labbra a quell’una? Come aveva egli potuto ricercare altri gaudii dopo aver gustato il supremo? Come il suo spirito aveva potuto accogliere altre agitazioni dopo aver sentito in sé l’indimenticabile tumulto della forza creatrice? Come le sue mani avevan potuto oziare e lascivire su i corpi delle femmine dopo aver sentito erompere dalle dita una forma sostanziale? Come, infine, i suoi sensi avean potuto indebolirsi e pervertirsi nella bassa lussuria dopo essere stati illuminati da una sensibilità che coglieva nelle apparenze le linee invisibili, percepiva l’impercettibile, indovinava i pensieri nascosti della Natura?

2
[Dal cap. II seguente] Pensieri subitanei insorgevano dalle profondità misteriose della conscienza e lo sorprendevano.


1.2. LA POTENZA DELLA POESIA E IL POETA “JUNGHIANO SCOPRITORE” DI IMMAGINI ARCHETIPICHE

«Il Verso è tutto.»
Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posseder il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto. Un verso perfetto e assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere.


1.3. Questo brano, riguardante Andrea Sperelli e Maria Ferres (che parla), tratteggia l’intuizione da parte di lei di un contenuto dell’inconscio assoluto. Testimonia la finezza intellettuale di D’Annunzio, al di là degli studi, nel far tesoro presumibilmente di riflessioni espostegli da interlocutrici intellettuali. E dimostra come egli abbia potuto trarne spunto per elaborare l’illustrazione di dinamiche (junghiane), in particolar modo femminili; dinamiche che lo scrittore ha saputo cogliere, nel loro vivo aspetto esteriore, grazie alla sua abilità di scandaglio introspettivo. Tale sensibilità fa sì che si possa notare in più punti del romanzo l’agire di una dimensione psicologica, nuova frontiera di esplorazione scientifica alla fine dell’Ottocento.

– Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo su la strada, al ponte del Convito, dall’altra parte.
E trattenne il cavallo.
Perché acconsentii? Perché entrai con lui? Io aveva negli occhi una specie di abbagliamento; mi pareva d’essere sotto l’influenza d’una fascinazione confusa; mi pareva che quel paesaggio, quella luce, quel fatto, tutta quella combinazione di circostanze non fossero per me nuovi ma già un tempo esistiti, quasi direi in una mia esistenza anteriore, ed ora riesistenti... L’impressione è inesprimibile. Mi pareva dunque che quell’ora, che quei momenti, essendo stati già da me vissuti, non si svolgessero, fuori di me, indipendenti da me, ma mi appartenessero, ma avessero con la mia persona un legame naturale e indissolubile così ch’io non potessi sottrarmi a riviverli in quel dato modo ma dovessi anzi necessariamente riviverli. Io aveva chiarissimo il sentimento di questa necessità. L’inerzia della mia volontà era assoluta. Era come quando un fatto della vita ritorna in un sogno con qualche cosa di più della verità, e di diverso dalla verità. Non riesco nemmeno a rendere una minima parte di quel fenomeno straordinario.
E una segreta rispondenza, un’affinità misteriosa era tra l’anima mia e il paesaggio.


1.4. Appena ritornato a Roma, il complesso di Maria non si è allontanato nella mente di Andrea (principio di nevrosi): nella di lui stanza da letto.

Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo d’intelletto, l’Amante Ideale, l’Amie avec des hanches, secondo l’espressione di Carlo Baudelaire, la Consolatrix unica, quella che conforta e perdona sapendo perdonare. […] Nella sua imaginazione egli cominciò a svestire la senese, ad involgerla del suo desiderio, a darle attitudini di abbandono, a vedersela tra le braccia, a goderla. Il possesso materiale di quella donna così casta e così pura gli parve il più alto, il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere; e quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento, perché avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione e di sacrilegio che il segreto atto, secondo lui, doveva avere.
La stanza era religiosa, come una cappella.


1.5. La conclusione dell’opera contempla un ping–pong nella mente di Andrea, dove il suo complesso dell’Io è la pallina e le racchette sono i complessi psichici (nonché le persone reali) di Elena e Maria. Definitivamente deluso della prima donna, un frustrato Sperelli ne proietta l’imago sulla seconda, sprofondando in un serio disturbo mentale dislocante. Elena si rivela legata a una forma di amore erotico indifferenziato (in fondo le interessa il fine non la stabilità del mezzo). Maria invece mostra attenzione verso l’amore agapico, disinteressato. Non è una donna propensa al convegno amoroso, come l’altra, e sebbene alla fine ceda una tantum, quale rito di congedo nell’allontanamento irrimediabile fra i due, riesce a scoprire in tempo la radicale ipocrisia del suo partner (di cui aveva apprezzato più la superficie estetica e la raffinatezza intellettuale, che non la cangiante sostanza interiore). Maria aveva compreso a tempo debito il legame che univa Andrea alla di lui ex amante, ma si lascia illudere da un sogno di medievale ascendenza. Il romanzo dannunziano si distingue nella chiusura per il fatto di lasciare il finale aperto circa la sorte dello Sperelli: troverà egli la forza in direzione di un cammino di redenzione morale, o la sua involuzione lo proietterà inevitabilmente alla volta dell’autodistruzione? “Il piacere” è dunque un romanzo definibile aporetico. Ha una forte connotazione platonica nel suo strutturare le vicende secondo il modello psichico della “biga” nel “Fedro”. Andrea rappresenta l’auriga, la ragione e la capacità di determinazione della volontà personale, in relazione alla “passionale” Elena e alla “emotiva” Maria. Le due donne simboleggiano due dimensioni libidiche opposte: una involutiva e degenerativa nei confronti di chi si fa trascinare, l’altra normale e costitutiva dell’esistenza umana. In termini junghiani si può inoltre specificare che sotto il profilo caratteriale Elena è “sentimentale-percettiva”, Maria “sentimentale-intuitiva; Andrea è strutturalmente “sentimentale”, e come un pendolo ha oscillato tra il “sentimentale” e l’“intuitivo”: un meccanismo patologico che lo ha connotato per buona parte del romanzo.


1 (Maria)
Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in una felicità solcata d’inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano s’accendeva alle voluttà della passione non mai provate e s’agghiacciava agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante, immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando con un dolor disperato, come sopra la testa d’una morta.
Tutto il suo essere s’affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità oltraveggente, una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno di Andrea, ella si sentiva passare un’ombra su l’anima, provava una inquietudine indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d’un sospetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finché non si dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell’ incomprensibile amante.
Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le persone gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe voluto leggere nella memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: – A che pensi? – E mentre ella profferiva le tre parole, inevitabilmente l’ombra le passava negli occhi e su l’anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore.
Anche quel giorno, all’improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido erale balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady Heathfield, dal palazzo Barberini.
Ella sapeva che Andrea era stato l’amante di quella donna, sapeva che quella donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell’inscrizione. «Ich lebe!...» Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido lirico le dava la misura dell’amor d’Andrea per la bellissima donna. Egli doveva averla immensamente amata!
Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l’apparizione di Elena nella sala del concerto, al Palazzo de’ Sabini, e il turbamento mal dissimulato dell’antico amante. Ricordava la terribile commozione che l’aveva presa una sera, a una festa dell’Ambasciata d’Austria, quando la contessa Starnina le aveva detto, al passaggio di Elena: – Ti piace la Heathfield? È stata una gran fiamma del nostro amico Sperelli, e credo che sia ancora.
«Credo che sia ancora.» Quante torture per quella frase! Ella aveva seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla elegante; e più d’una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di lei, ed ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima, presentate l’una all’altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla, avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi ripetuto in seguito nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila aveva attraversato un salone mondano.
Perché i dubbii, sopiti o spenti sotto l’onda delle ebrezze, risorgevano con tanta veemenza? Perché ella non riusciva a reprimerli, ad allontanarli? Perché in fondo a lei si agitavano, ad ogni piccolo urto dell’imaginazione, tutte quelle sconosciute inquietudini?
Camminando sotto gli alberi, ella sentiva crescere l’affanno. Il suo cuore non era pago; il sogno levatosi dal suo cuore – nella mattina mistica, sotto gli alberi floridi, in conspetto del mare – non s’era avverato. La parte più pura e più bella di quell’amore era rimasta là, nel bosco solitario, nella selva simbolica che fiorisce e fruttifica perpetuamente contemplando l’Infinito.

2 (Andrea)
Pur contaminandola e ingannandola senza ritegno, egli sapeva d’essere amato da un alto e nobile spirito, egli sapeva omai di trovarsi innanzi a una grande e terribile passione, egli aveva omai conscienza di quella grandezza come della propria viltà. Egli sapeva, egli sapeva d’essere immensamente amato; e talvolta, nelle furie delle sue imaginazioni, giungeva perfino a mordere la bocca della dolce creatura per non gridare un nome che gli risaliva con invincibile impeto alla gola; e la buona e dolente bocca sanguinava in un sorriso inconscio, dicendo:
– Anche così, tu non mi fai male.


1.6. UNO SCRITTORE TRA FREUD E JUNG: “ES / SUPER EGO”, E L’“OMBRA”.

Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell’abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria ed anela alla strage.


2. ASPETTI CRITICI VARI

2.1. A casa di Andrea Sperelli, Ruggero Grimiti racconta l’erotico comico aneddoto di Gino Bomminaco. D’Annunzio in fatto di estetica si è rivelato un precursore di tendenze future. Della menzionata poesia di Gautier (21 quartine a rima alternata), di contenuto antitetico alla dannunziana intuizione, sono evocati sei precisi versi (8, 14, 22–24, 79) dal Poeta soldato.

– Nella primavera scorsa (non so se tu l’abbia notato) Gino faceva a Donna Giulia una corte ardentissima, assai visibile. Alle Capannelle, la corte si mutò in flirtation assai vivace. Donna Giulia era sul punto di capitolare; e Gino, al solito, era tutto in fiamme. L’occasione si presentò. Giovanni Moceto partì per Firenze, a portare i suoi cavalli slombati sul turf delle Cascine. Una sera, una sera dei soliti mercoledì, anzi dell’ultimo mercoledì, Gino pensò che il gran momento era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se ne andassero e che il salone rimanesse vuoto e ch’egli finalmente rimanesse solo, con lei...
– Qui – interruppe il Barbarisi – ci vorrebbe ora Bommìnaco. È inimitabile. Bisogna sentirgli fare, in napoletano, la descrizione dell’ambiente, e l’analisi del suo stato, e poi la riproduzione del momento psicologico e del fisiologico, com’egli dice, alla sua maniera. È d’una comicità irresistibile.
– Dunque – seguitò Ruggero – dopo il preludio, che sentirai da lui, nel languore e nell’eccitazione erotica d’una fin de soirée, egli s’inginocchiò d’innanzi a Donna Giulia che stava seduta su una poltrona molto bassa, su una poltrona imbottita di complicità» . Donna Giulia già naufragava nella dolcezza, difendendosi debolmente; e le mani di Gino divenivano sempre più temerarie, mentre ella già esalava il sospiro della dedizione... Ahimè, dall’estrema temerità le mani si ritrassero con un moto istintivo come se avessero toccato la pelle d’una serpe, una cosa repugnante...
Andrea ruppe in uno scoppio di risa così schietto che l’ilarità si propagò a tutti gli amici. Egli aveva compreso, perché sapeva. Ma Giulio Musèllaro disse, con gran premura, al Grimiti:
– Spiegami! Spiegami!
– Spiega tu – disse il Grimiti allo Sperelli.
– Ecco, – spiegò Andrea, ancora ridendo – conosci tu la più bella poesia di Teofilo Gautier, il Musée secret?
– O douce barbe féminine! – recitò il Musellaro, ricordandosi.
– Ebbene?
– Ebbene, Giulia Moceto è una finissima bionda; ma se tu avessi la fortuna, che ti auguro, di tirare le drap de la blonde qui dort, certo non troveresti, come Filippo di Borgogna, il toson d’oro. Ella è, dicono, sans plume et sans duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier.
– Ah, una rarissima rarità che io apprezzo molto – disse il Musèllaro.
– Una rarità che noi sappiamo apprezzare – ripeté Andrea. Ma Gino Bommìnaco è un ingenuo, un semplice.
Ascolta, ascolta il resto – fece il Barbarisi.
– Ah se ci fosse qui l’eroe! – esclamò il duca di Grimiti. – La storiella in un’altra bocca perde tutto il sapore. Figurati dunque che la sorpresa fu tanta e tanta la confusione, da spegnere ogni fuoco. Gino dovette ritirarsi prudentemente, per l’impossibilità assoluta d’andar più oltre. Te l’imagini? T’imagini tu la terribile mortificazione d’un uomo che, essendo giunto ad ottener tutto, non può prender nulla? Donna Giulia era verde; Gino fingeva di tender l’orecchio ai rumori, per temporeggiare, sperando... Ah, il racconto della ritirata è una meraviglia. Altro che Anabasi! Sentirai.
– E Donna Giulia è poi divenuta l’amante di Gino? – domandò Andrea.
– Mai! Il povero Gino non mangerà mai di quel frutto; e credo che ne morrà di rammarico, di desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne, con gli amici; ma tu osservalo bene, quando racconta. Sotto la buffoneria c’è la passione.


2.2. Una puntata di anticlericalismo esplicito, e l’ironica acutezza di eloquio di Andrea. Nel seguente brano, laddove lo scrittore sembra essere offensivo nei confronti delle donne, occorre ricordare che egli qui nel romanzo (o altrove) non generalizza. D’annunzio distingue in modo preciso le donne: ci sono quelle della categoria di Eleonora Duse (Maria Ferres, ad esempio), quelle (soggettivamente) attraenti e (obiettivamente) incolte, le altre. Il Poeta soldato è tutto l’opposto di un antifemminista alla maniera di Erasmo da Rotterdam .

Andrea Sperelli salutò la compagnia e, portando per mano Clara Green, disse:
– Ecce Miss Clara Green, ancilla Domini, Sibylla palmifera, candida puella.
– Ora pro nobis – risposero in coro il Musèllaro, il Barbarisi e il Grimiti.
[…] Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir di stupefazione o d’irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. […]Per non annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi, atroci impertinenze dissimulate con l’ambiguità delle parole, sottigliezze incomprensibili, madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un gergo […]. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa, un aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d’una cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa e possente.


2.3. Esempi della sottigliezza intellettuale, retorica e semantica dannunziana in ambito erotico.

Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato, sul quale s’aprivano due lunghi occhi di velluto, d’un morbido velluto castagno che talvolta prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po’ carnoso e le labbra tumide, fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso un’espressione d’aperta lascivia, resa ancor più vivace dall’irrequietudine della lingua. I canini, essendo troppo forti, le sollevavano gli angoli della bocca; e, come gli angoli così sollevati si facevano aridi o le davano forse un lieve fastidio, ella ad ogni tratto con la punta della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni tratto scorrere per la chiostra dei denti quella punta, come la foglia bagnata d’una rosa grassa per una fila di piccole mandorle nude.
– Julia, – disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca – san Bernardino ha per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo non sapete, voi!
L’Arici si mise a ridere, d’un riso ebete ma bellissimo, che le scopriva un poco le gengive; e nell’agitazione ilare usciva da lei un profumo più acuto come quando viene scosso un cespuglio.
– Che mi date – soggiunse Andrea – che mi date in compenso se, estraendo dal sermone del santo quella parola voluttuosa, come da un tesoro teologale una pietra afrodisiaca, io ve la offro?
– Non so – rispose l’Arici, sempre ridendo e tenendo tra le dita a bastanza fini e lunghette un bicchiere con vin di Chablis. – Quel che volete.
– Il sostantivo dell’adjettivo.
– Che dite?
– Ne discorreremo. La parola è: linguatica. Messer Ludovico, aggiugnete alle vostre litanie questa appellazione: «Rosa linguatica, glube nos.»
[…]
Quel vino chiaro e brillante, che ha su le donne una virtù così pronta e così strana, già incominciava ad eccitare variamente i cervelli e le matrici di quelle quattro etàire ineguali, a risvegliare e a stimolare in loro il piccolo dèmone isterico e a farlo correre per tutti i loro nervi propagando la follia.
[…]
– Non so se tu abbia fatto miglior caccia, – seguitò il duca di Beffi – ma noi abbiamo avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti e due volpi. Giovedì, alle Tre Fontane.
– Capisci? Non alle Quattro... – ammonì, con la sua solita gravità comica, Gino Bommìnaco.
Gli amici risero, al motto; e il riso si propagò anche allo Sperelli.


2.4. UNA SINGOLARE COINCIDENZA DI VEDUTE CON MARX

[A proposito di Andrea Sperelli in un particolare passaggio del testo] L’assenza completa di mistero nell’avventura, la compiacenza vanitosa degli amanti nell’acco-gliere i motti e i sorrisi altrui, la cinica indifferenza con cui gli amanti d’un tempo lodano le qualità della donna a coloro che già sono su la via di goderle, e l’affettazione con cui quelli dànno a questi i consigli per giunger meglio allo scopo, e la premura con cui questi dànno a quelli i più minuti ragguagli su un primo convegno per sapere se la maniera tenuta ora dalla dama nel concedersi si riconfronti con quella tenuta altre volte, e le cessioni, e le concessioni, e le successioni, e insomma tutte le piccole e grandi viltà che accompagnano i dolci adulterii mondani, gli parvero ridur l’amore una mescolanza insipida e immonda, una volgarità ignobile, una prostituzion senza nome.


NOTE

I brani dannunziani sono stati tratti da “Il piacere” (Treves, 1894).

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Ovidio e D’Annunzio (2018)”
http://www.academia.edu/37703484/Ovidio_e_D_Annunzio