di DANILO CARUSO
“L’insostenibile leggerezza
dell’essere” di Milan Kundera (scrittore nato nella vecchia Cecoslovacchia nel
1929, il quale ha poi preso cittadinanza francese) è un romanzo, purtroppo, non
alla portata di lettura di chi non possieda un bagaglio intellettuale adeguato
alla sua ispezione critica. Il rischio obiettivo, di cui non si può far comunque
colpa al lettore sprovveduto, è quello di non comprenderne i significati e di
relegarlo fra le brutture letterarie. Prendendo spunto da questo romanzo,
pubblicato nel 1984, è stato realizzato un film nel 1989. Il primo passo da
compiere al fine di intraprendere una corretta ermeneutica consiste nel
ricondurre l’opera al suo contesto genetico storico: non è ancora caduto il
Muro di Berlino, né tanto meno il socialismo reale sovietico, e da pochi anni
sono scomparsi i grandi filosofi esistenzialisti Heidegger e Sartre. Kundera,
che risiede ormai da parecchi anni in Francia, all’inizio del romanzo evoca
alcuni concetti filosofici e cita alcuni filosofi. Egli sottolinea nell’incipit
dell’opera la rilevanza di una dicotomia: “pesantezza/leggerezza”. Si riferisce
a dimensioni ontologiche ed esistenzialistiche legate al soggetto umano, la
cosa che mi ha colpito è che egli non faccia menzione dell’analogia con Simone
Weil. Naturalmente non era obbligato a farlo, giacché al limite appare
possibile che durante l’atto redazionale la ignorasse. Tuttavia nell’apertura
del testo compaiono tangenze weiliane. Della filosofa francese rimane tra
l’altro uno zibaldone pubblicato postumo nel 1947 col titolo “La pesanteur et
la grace [La pesantezza e la grazia]”. Rimane chiaro che gli ordini di
riflessione mentale di Milan Kundera e Simone Weil sono separati da un abisso
concettuale, però la dicotomia che costui evoca è, non solo formalmente, ma
altresì in certi tratti ontologici, vicinissima a quella weiliana presentata
nella raccolta testé ricordata. Con “pesantezza” entrambi indicano qualcosa di
legato ontologicamente al lato materiale/terreno della vita, il quale sarebbe
regolato da meccanicità: nel caso di Kundera si parla di “eterno ritorno”
stoico-nietzschiano. Ancora per entrambi, ci può essere un’eccezione a ciò: la
“leggerezza-dell’essere” kunderiana in Simone Weil si chiama “grazia”.
Quest’ultima nella filosofia della pensatrice rappresenta il prodotto
dell’intervento di Dio, nello scrittore invece simile smarcamento dal rigore
dell’eterno ritorno troverebbe nell’essere umano la sua possibile sorgente. All’interno
della narrazione kunderiana si parte dalla Cecoslovacchia comunista degli anni
’60, al di là della “cortina di ferro”. Tomáš, un chirurgo divorziato da anni,
e deluso dall’esperienza matrimoniale, con un figlio e un assegno di
mantenimento mensile da pagare, rivede Tereza (una donna dagli interessi
intellettuali costretta a fare la cameriera) quando è lei, dopo essersi
conosciuti casualmente, ad andarlo a trovare a Praga: lui decide di ospitarla. La
relazione tra Tomáš e Tereza prosegue tra la promiscuità di lui e la gelosia di
lei. Il che mi ha rammentato la vicenda sentimentale di Sylvia Plath e Ted
Hughes, e in particolare le mie impressioni scritte in un mio saggio a
proposito delle poesie plathiane “Pursuit” e “Gigolo”1. Tomáš finisce
con lo sposare Tereza, e prende pure in casa un cucciolo di cane. Ella (la
quale da tempo era diventata fotoreporter) e il marito, al momento
dell’occupazione sovietica in Cecoslovacchia, decidono di emigrare a Zurigo,
dove volevano assumere lui presso un ospedale. Tomáš a Ginevra ha ritrovato,
temporaneamente lei là, l’“amica erotica” Sabina (cioè una persona appartenente
a un novero diversificato volto all’esercizio dell’eros in modo non impegnativo
e non verso un soggetto esclusivo nello stesso tempo: “amicizia erotica”; nel
caso particolare costei è una pittrice anticonformista). Tereza decide di
abbandonarlo e di fare ritorno a Praga. Lui alla fine sceglie di seguirla in
patria, dopo una contrastata valutazione della sua situazione sentimentale. Il
rapporto che Kundera descrive nella crescita di Tereza intercorrente fra lei e
la madre (dipinta come una disinibita, poco di buono) mi rievoca un’altra
tangenza plathiana a proposito della prima. Si badi bene, però, che si tratta
di una analogia in parte formale dato che la mamma di Silvia Plath era
inquadrata nei canoni di una mentalità media femminile americana della sua
epoca. Quella di Tereza appare la copia in veste anarco-marxista
d’oltrecortina. Ma la cosa che emerge al mio sguardo è che entrambe agli occhi
delle rispettive figlie siano fonte di disagio attraverso il messaggio
ideologico deteriorato (distopico) di cui si pongono sulla scena quali
rappresentanti. Il tema della maternità, anche se sotto profili diversi, appare
nevralgico in alcuni passaggi del romanzo in relazione alla formazione di
Tereza, e altrove parallelamente, per quanto concerne la linea del mio
accostamento, nella vita della scrittrice di Boston. Davanti a queste donne, a
prescindere dal loro status di esistenza letteraria o reale, le madri hanno costituito
dei mostri: un carattere di presenza gorgonea, che la Plath ha riportato nella
sua produzione2. A conclusione dell’intermezzo nel romanzo rivolto
alla storia fra Sabina e il suo amante Franz (un professore universitario, il
quale lascia la moglie per lei, ma che poi viene di riflesso allontanato da
questa), Kundera chiarisce l’idea che dà il titolo al suo romanzo:
l’insostenibile-leggerezza-dell’essere. In un passaggio ci riporta all’incipit
del testo, dov’egli aveva evocato filosofi e concetti filosofici. Anche qui,
pur non facendo nomi, l’autore offre spunti che fanno intravedere quella che si
rivela essere la sua forma mentis.
L’insostenibile-leggerezza-dell’essere,
così come vissuta da Sabina, viene presentata quale una continua ricerca della
contraddizione. La pittrice la vive nella veste di anticonformismo, ma nella di
essa dimensione astratta kunderiana simile atteggiamento non può non rievocare
una radice marxiano-hegeliana: la contraddizione (l’opposizione) motore della
vita davanti alla “pesantezza” di quanto si è consolidato, compare vita
autentica solo nel mettere in atto una “dialettica negativa” (T. W. Adorno). Se
si vuol superare l’omologazione nell’eterno-ritorno-dell’uguale, la quale ha
appiattito e annichilito l’essere umano su un piano statico, l’unica via di
salvezza rimane l’andare-contro. Unicamente in questa maniera la vita non
tradirà se stessa. Il concetto marxiano di “lotta di classe” viene volto da
Kundera in una individuale ed esistenzialistica “dialettica negativa”, e il personaggio
di Sabina incarna alla perfezione suddetto modus vivendi. Non appare più uno
schieramento di classe sociale omogeneo e indistinto a contrapporsi alla
reazione nei confronti del progresso, bensì un insieme di atomi-persone, i
quali si staccano dalla superficie a una dimensione (H. Marcuse). La componente
dell’esistenzialismo porta nella riflessione kunderiana il primato della
persona, sulla quale, isolata, si scarica
l’insostenibile-leggerezza-dell’essere. All’insostenibile-leggerezza-dell’essere
di Sabina fa seguito nel romanzo l’exemplum della pesantezza-dei-corpi nel caso
di Tereza allorché costei finisce in modo del tutto surreale nell’appartamento
di un pressoché sconosciuto ingegnere il quale vorrebbe tenere con lei un
congresso carnale. In simili descrizioni offerte da Kundera risalta la
circostanza della fisiologia di lei che si pone in contrasto con la psiche.
Tereza affronta proprio un disturbo psicosomatico nella contrastata situazione
interiore del momento la quale finisce per condurla letteralmente in bagno.
Quanto lei attraversa durante quell’approccio sessuale da parte di quegli è uno
stato di profondo turbamento, dove la dicotomia “corpo/psiche” entra in
conflitto nei suoi due termini. La dimensione del disagio scaturente compenetra
reciprocamente i due poli: la corporeità vorrebbe adeguarsi a una pulsione
sessuale di stampo freudiano e manda alla psiche un messaggio di un suo
adeguamento in tal direzione, mentre la psiche (da un più alto gradino di una
libido che pare junghiana) dal suo canto risponde con un atteggiamento di
rifiuto. Tale contrasto si sana, per così dire, nella mediazione di un sintomo
psicosomatico, il quale è invece nella sostanza soltanto un segnale
dell’avvenuto conflitto interiore. Infatti Tereza, a differenza di Sabina,
attraversa un rapporto problematico in generale con la propria corporeità, la
quale vorrebbe imporre unica ed esclusiva in campo erotico al cospetto di Tomáš.
L’intero episodio, alla fine, restituisce un’allegoria della sofferta ipocrisia
umana. Per quanto riguarda Tereza, ella poi si tormenterà con l’idea del suo
occasionale partner, in maniera più o meno paranoica, sospettando di essere
rimasta vittima di un complotto di estranei, forse al servizio del regime
comunista in Cecoslovacchia; un complotto che avrebbe dovuto portarla fra le
braccia di quell’ingegnere a scopo di denuncia per immoralità. Tomáš, dopo il
ritorno a Praga, finisce col perdere il lavoro all’ospedale, e quello di medico
completamente, a causa di un articolo pubblicato su un periodico, nel quale
contestava la dirigenza comunista cecoslovacca: davanti a ben due opportunità
di ritrattare le sue idee, preferisce desistere dal compiere tale atto, volendo
mantenere integra la sua coscienza. Nel finale del romanzo Kundera riserva una
tragica morte a quasi tutti i suoi protagonisti: Tomáš e Tereza, Franz. Solo
Sabina sopravvivrà emigrata negli USA a un ciclo di intrecciate vicende umane.
I personaggi di primo piano moriranno in un incidente stradale, dopo essersi
trasferiti in campagna. Ritornano le tangenze plathiane: la poetessa bostoniana
col consorte era andata ad abitare in una residenza campestre (denominata
“Court green”), e in quel periodo, compreso il tradimento da parte di Ted con
Assia Wevill, aveva cercato di suicidarsi, mentre guidava l’auto, andando fuori
di strada. Oltre a questi due dettagli, nella narrazione kunderiana, relativa a
suddetta permanenza, in una zona di campagna, di Tomáš e Tereza, compare una
sinistra evocazione della Luna, un’imago che è saliente nella produzione
plathiana (col suo significato archetipico di Grande Madre negativa/positiva).
Voglio infine rammentare altresì un altro piccolo particolare: la poetica di
Hughes ruotava attorno al rapporto fra uomo e natura. “L’insostenibile
leggerezza dell’essere” costituisce un testo dentro a cui Milan Kundera ha
intrecciato diversi piani concettuali e narrativi. Si va da contenuti
filosofici di marca esistenzialistica, come sopra visto, ad approfondimenti e
riflessioni di spessore politico. Un velato sfondo di pessimismo permea tutto,
un pessimismo la cui radice sembra avere una tangenza nel pensiero di
Schopenhauer, di cui lo scrittore evoca alcune puntuali idee a proposito di
innamoramento, amore e sessualità: in fin dei conti agli occhi del filosofo
tedesco un colossale inganno della Natura, la quale mirerebbe soltanto alla
perpetuazione della specie in un cieco e irrazionale slancio vitalistico. E in
effetti ciò che alla fine emerge dall’intero romanzo è un senso di assurdità
dell’esistenza umana, il cui significato Kundera porta alla luce mediante un
disvelamento (ma oserei dire, stando nell’orbita kunderiana, uno sputtanamento) di tutta l’ipocrisia
della società umana a lui contemporanea. L’autore affronta nell’opera
l’ambivalenza del concetto di “kitsch”: cose-di-cattivo-gusto.
E lo fa mostrando le due prospettive della sgradevolezza: agli occhi dei
perbenisti e a quelli degli osservatori critici obiettivi. Quanto nel romanzo
appare non gradevole ha il preciso scopo di urtare per dare una spallata
all’ipocrisia costituita puritana. Lì stanno la forza e il pregio de “L’insostenibile
leggerezza dell’essere”: un testo che, indubbiamente, potrebbe mostrarsi
sgradevole qualora non compreso nella sua, anche provocatoria si potrebbe dire
formalmente, natura di “kitsch”. In simile logica trovano lo spazio di innesto
i vari livelli di narrazione, i quali non risultano qui sintomo di
policentrismo. La ciclica eterna tragica morte di Tomáš, Tereza e Franz, e la
parziale salvazione di Sabina, si rivelano esemplificazioni (attraverso
maschere) dell’assurdità della vita (non soltanto nel ’900, ma in ogni tempo);
e unicamente alla maniera di Sabina può esserci una soggettiva via di fuga alla
condanna ontologica dell’Essere.
NOTE
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Studi critici (2019)”
https://www.academia.edu/41345317/Studi_critici
1 Dal mio saggio “Silvia Plath e l’utopia dell’essere” del 2016
“Pursuit” […] si segnala non
solo grazie al suo connotato profetico, ma anche per una diffusa atmosfera
dantesca. Il maschio di pantera, di cui parla, che insegue l’autrice è Ted
Hughes di cui dice al v. 2: «un giorno io avrò la mia morte da lui». Al di là
di ciò la lirica è pervasa da sensi di eccitazione e ansietà analoghi a quelli
di Dante, rivelati nel primo canto dell’“Inferno” allorché egli incontra le tre
bestie simboliche. I versi plathiani ricalcano dettagli danteschi. I vv. 2-3,
recitanti: «la sua cupidigia ha messo il bosco in fiamme, / egli cerca la preda
più altero del sole», da un lato ci fanno rivivere la pressione sentita da
Dante alla vista delle forze che vogliono impedirgli il cammino di salvazione,
dall’altro offrono una proiezione unificata di quelle tre fiere sull’immagine
saliente in “Pursuit” della lonza (ossia, sul piano concettuale, dell’istinto
erotico). Il maschio di pantera («panther») della Plath assomma l’avidità della
lupa («greed» del v. 3 ; si vedano pure il v. 13: «insaziabile…», i vv. 23-24:
«… le donne giacciono / divenute esca del suo corpo affamato», il v. 32 «…
affamato, affamato…», i vv. 38-40: «per estinguere la sua sete sciupo il
sangue; / egli mangia, e tuttavia il suo bisogno cerca cibo, / esige un
sacrificio totale»), e la superbia del leone (al v. 4 la fiera plathiana «cerca
la preda più altera del sole», tant’è che l’autrice afferma ai vv. 43-44:
«scappo da tale assalto di radiosità», e il sole dantesco è simbolo rinviante a
Dio). I baci della pantera che
inaridiscono (v.19) hanno inoltre alquanto del potere della lupa, il quale
è altresì manifesto nei vv. 21-23: «Nella scia di questo fiero felino [fierce
cat: la “lussuriosa” lonza dantesca] / accese a mo’ di torce per la di lui
gioia le donne giacciono». In questi ultimi versi si può vedere in aggiunta
alla fine di Sylvia anche quella di Assia Wevill. Sia la Plath che Dante
iniziano i rispettivi incontri nella prima metà del giorno, però davanti a
entrambi, braccati, si prospetta il momento dell’oscurità della junghiana
“ombra”: l’essere ricacciato nella «selva oscura» per il secondo dalla quale
egli sarà tratto in salvo da Virgilio, e il sopraggiungere della notte per la
prima. La dinamica di costei è sospesa tra due poli: la luminosità iniziale nel
contesto del «mezzogiorno» (v. 10) e l’oscurità finale nell’altro contesto
della «mezzanotte» (v. 26) in cui «le collline covano una minaccia, generando
l’ombra [shade]». Il maschio di pantera plathiano si presenta e adesca con
forza incantatrice e certa grazia della lonza dantesca: «La sua voce mi tende
un agguato, significa un’estasi» (v.41). La poetessa di Boston avverte il
disagio provocato dalla dilagante (freudiana) libido (un momento dell’eros
junghiano) (vv. 33-34), e nella conclusione della lirica sente la necessità di
una ritirata (vv.45-47; percepisce un saffico somatico turbamento: v. 48 della
Plath, seconda parte del v. 11 di Saffo del frammento 31 dell’edizione Voigt ),
ma ella è consapevole d’altro canto di non poter resistere a quel richiamo e di
cedere a quello che sarà il suo destino con Ted Hughes (vv. 49-50): un verso di
Jean Racine (1639-1699) riportato dalla Plath dopo il titolo della sua poesia,
«Nel fondo della foresta la tua immagine mi segue», rievoca da un lato la già
vista potenza di eros e dall’altra la figura della suicida Fedra, dalla cui
omonima tragedia detto verso fu tratto (si tenga presente però che a parlare è
Ippolito ad Aricia). A Hughes è molto probabilmente rivolto lo strale della
poesia plathiana “Gigolo”, datata 29 gennaio ’63. Tale personaggio di gaudente senza cuore, che parla di sé, è
antitetico, speculare nelle analogie tematiche, al leopardiano “pastore errante
dell’Asia”. Questo si rivolge alla luna lamentando la sua infelicità (e quella
del genere umano, ovunque e sempre) e riconoscendo al suo gregge una speranza
di animale inconsapevolezza di tutto il negativo dell’esistenza. Lo
Hughes-gigolò invece si proclama contento del suo successo con le donne, le
quali adesca con la sua monumentale immagine. Loro sono il suo gregge, in
rapporto a cui la prospettiva di felicità è invertita: è lui colui che non si
annoia mai, non incorrente nel pericolo di restar solo (a guisa delle sue
vittime). Egli appare una sorta di narcisistico re Mida di «bitches [alla
lettera “cagne; indica pure l’uggiolio” e quindi per estensione lagnanze,
gemiti, nonché “donne scostumate”; n.d.r.]» che lui converte «in mormorii di
argentei / rotoli». Questo pastore (poeta) errante
per Assia pare essere invidiato da quello leopardiano: «… s’avess’io l’ale
[per potere; n.d.r.]… come il tuono errare di giogo in giogo, più felice
sarei…». Sylvia Plath tempo addietro aveva definito la voce di Ted simile al tuono di Dio («voice like the thunder of
God»). I gioghi del gigolò sono i
«violoncelli [cellos]», evocanti non solo la sagoma femminile, ma anche
inequivocabile linguaggio di “Brave New World” quando Aldous Huxley parla di
“saxphonist / sexophonist”; una forma figurata la quale rimbalza all’interno
del poetico monologo plathiano nelle «nuove ostriche [new oysters; fuor di
metafora “muliebria genitalia”]» che si offrirebbero in maniera spontanea a
Hughes (definito da Sylvia altresì un «leone»), il quale attraverso la bocca
del gigolo, imitando uno dei migliori α[...], dichiara prima pure: «Mai
invecchierò».
2 Ibidem
2 Ibidem
In “Medusa” (poesia plathiana
del 16 ottobre ’62) l’archetipo della Grande Madre, in veste soprattutto negativa,
si mostra nella sua evidenza.
Suo simbolo è appunto Medusa,
la quale riflette l’immagine dell’inconscio collettivo: «le orecchie rivolte
[che fanno coppa, letteralmente; n.d.r.] alle incoerenze del mare [l’acqua è
per Jung simbolo dell’inconscio; n.d.r.] / … snervante testa – palla di Dio».
Ella si incarna e si sovrappone nella figura della mamma (da non trascurare che
un genere marino di me-dusa si chiama Aurelia, come la madre di Sylvia) in modo
tale da lasciare all’archetipo il suo gioco di ambiguità bipolare, cosicché
Medusa può essere «lente di misericordie», ma d’altro canto provocare l’assedio
dell’Io della poetessa (v. seconda strofa).
Il non sereno, ambiguo, legame
archetipico del complesso materno attraversa le strofe 3-5, culminando nell’emblematica
immagine della «placenta», il rassicurante luogo di una Grande Madre positiva.
La Plath ricorda la condizione di estremo disagio di fronte a costei: «morta e
senza denaro, / sovraesposta come una radiografia». E in un sussulto titanico,
che segue quello di “Daddy” scaccia il negativo dell’archetipo. Dopo le ultime
due incisive strofe, un singolo, isolato verso, lapidario dice: «Non c’è più
niente tra noi». Da sottolineare la metafora uterina collegata alla Grande
Madre: «bottiglia nella quale vivo, / orrendo Vaticano [il colle, nella cui
zona fu il posto del martirio di san Pietro]». Questa riflette il carattere
elementare dell’archetipo, la sua statica presenza (dunque positiva, tuttavia
impantanante nella dipendenza) in un simbolo che è variante in merito del più
classico vaso. Il verso terminale di “Medusa” si può accostare all’incipit di
“Daddy” (nella sostanza sono molto simili): «There is nothing between us»; «You
do not do, you do not do / any more».
In “Medusa” si compie la
simbolica uccisione della madre (Grande Madre negativa presente, ad esempio,
come detto nelle favole) affinché ci sia l’emancipazione dalla faccia oscura
dell’archetipo; e il processo di individuazione, mirante a realizzare le
interiori coerenza e integrità psichiche, dopo un’ulteriore rivisitazione del
“maschile” (motore dell’azione menzionata, la quale comporta il recupero del
“femminile” rifiutato), possa procedere libero verso il guadagno di un piano di
equilibrio psichico di natura androginica (raggiungimento del Sé, riabilitante
l’archetipo non più oscurato da qualità negative). È indubbio che le esperienze
di maternità avessero condotto Sylvia Plath a una relazione archetipica con la
Grande madre sotto un più maturo carattere trasformatore, consentendole di superare
il livello del carattere elementare, e quindi di affrontare il mostro con più
efficace vigore. Il muro materno, alla cui “ombra” in precedenza si era mossa
(in maniera più agevole se di fatto distante dalla figura materna), le pare
statica costruzione psichica da abbattere: lo confessa in una lettera alla
madre dello stesso 16 ottobre, giorno di “Medusa”, lettera nella quale rifiuta
la prospettiva simbolica del rifugio uterino, e riconosce la sua grandezza come
autrice che ha raggiunto la maturità dell’essere: il suo potere creativo è
completo, perfetto.