di DANILO CARUSO
“Martin Eden” è un romanzo di Jack London (1876-1916)
pubblicato nel 1909, un anno dopo “The iron heel” (altro romanzo londoniano cui
ho dedicato la metà di un mio saggio1). “Martin Eden” rappresenta
un’opera contenente diversi spunti autobiografici. La vita di Jack London è
stata alquanto sregolata, il che sta alla base della sua prematura scomparsa.
In questo testo egli castiga a livello ideologico cose che praticò. Quest’opera
sta sullo stesso piano del suo socialismo e de “Il tallone di ferro”. È da
notare che come si suicidò Martin Eden così il medesimo London pose più o meno
indirettamente fine alla propria vita provocandone a causa di sregolatezza il
termine precoce. “Martin Eden” costituisce una sorta di avvertimento che il suo
autore non ha saputo cogliere, nonostante si sia sforzato di indicare i chiari
pericoli di quel percorso esistenziale. Il messaggio dell’Inconscio collettivo
nell’archetipo (negativo) di Martin Eden (l’attivista irrazionale e non molto
riflessivo, più impetuoso che altro) non è stato colto appieno dallo scrittore
californiano. Il quale ha lasciato tale romanzo sempre a mo’ di monito, ma
altresì quale emendamento della sua condotta pratica, nonché nella veste di
velata profezia della sua morte. L’ombra di “The iron heel” si risente in
“Martin Eden”. Anche se vagamente, dacché la storia narrata è diversa, si
notano certe analogie situazionali fra i protagonisti maschili principali di
tale due testi. In entrambe le opere sono presentati quali volti a ricercare
confronto e affermazione al cospetto della borghesia. In “Martin Eden” però
rispetto all’altro precedente romanzo la cosa assume una prospettiva più
tragica. L’individualismo portato avanti da questo personaggio possiede una
radice protestante, rappresenta il classico attivismo della società americana
delineato da Max Weber. Nella creazione di questo protagonista letterario Jack
London inserisce degli assi cartesiani chiari e precisi: Herbert Spencer e Friedrich
Nietzsche. Il richiamo che a costoro rivolge Martin Eden nell’esporre il suo
orizzonte di pensiero è molto eloquente. Lo scrittore americano ha intuito
delle verità analitiche filosofiche e le mette in scena attraverso il suo personaggio
nella narrazione. Costui rappresenta un simbolo del generale attivismo
weberiano, che London vuole in qualche maniera condannare in ossequio al suo
socialismo. “Martin Eden” costituisce una sorta di compagno de “Il tallone di
ferro, rappresenta in primis un romanzo politico dove si castiga l’attivismo
borghese, mentre il precedente – sebbene apertamente distopico – celebrava il
socialismo (alla fine trionfante). Si tratta di un’accoppiata di romanzi legati
cronologicamente e idealmente. Allorché parlai di “The iron heel” dissi che a mio
avviso là c’era il tocco di una mano femminile sparso in aggiunta nel testo
londoniano. La stessa impressione ho avuto altresì in “Martin Eden” in qualche
passaggio, dove mi è parso di leggere alcuni brani i quali potessero essere il
prodotto di un intelletto femminile. In entrambi i casi credo si possa indicare
la “mano fantasma” di Charmian, moglie di Jack London. Completata questa
introduzione possiamo addentrarci meglio nel telaio narrativo del romanzo e
rilevare altri più approfonditi contenuti. Un primo aspetto del mio esame che
tengo a riprendere subito è inerente all’attivismo di Martin Eden. Egli compare
all’inizio un giovane incolto, di bassa provenienza popolare, un marinaio giramondo,
che accidentalmente conosce Ruth Morse di famiglia borghese: «Lui era
profondamente sensibile, irrimediabilmente impacciato». I due si innamorano. Da
simile stilnovistica scintilla scatta la marcia di innalzamento intellettuale
di Martin. Inizia a studiare, sostenuto da Ruth, e matura il desiderio di
diventare uno scrittore. La fidanzata vorrebbe invece che lui investisse le sue
abilità in qualche professione borghese più convenzionale e più stabile. Martin
dal canto suo si ostina, fra alti e bassi, tra momenti di estremo disagio e di
piccole gratificazioni (prima di giungere al conclamato successo), a perseguire
il suo obiettivo di affermarsi nella società come scrittore. Ho già ricordato
sopra che London ha connotato il suo protagonista facendogli professare una
fede spenceriana e nietzschiana. Tale connotazione ideologica si ricollega
direttamente all’attivismo formale protestante weberiano. Spencer è un
apologeta del capitalismo industriale, odia la presenza statale, apprezza la
massima libertà individuale. Figura chiaramente quale ideologo nel solco dello
spirito attivistico alla radice della società americana. A proposito della
connessione di Martin Eden con Nietzsche posso aggiungere qualche parola di
migliore approfondimento. In una mia analisi passata2 ho evidenziato
i motivi per cui la filosofia nietzschiana scaturisca del tutto da elementi
luterani rielaborati in una veste biologicizzante. Il volontarismo di Lutero
(fratello gemello dell’attivismo calvinista) ritorna nella “volontà di potenza”
di Martin come manifestazione appunto attivistica omogenea all’attivismo
weberiano: a monte di tutto esiste un nevrotico schema mirante in modo
irrazionale all’affermazione di sé quale segno di una elezione (in senso lato).
Nel personaggio londoniano ritroviamo simile nevrosi. Non vediamo in lui
riflessione e buonsenso. Egli percorre tutto il “cursus honorum” attivistico.
Lo vediamo sfacchinare qua e là ciecamente.
Tutte le parti del romanzo che in tal senso possono apparire digressive,
sono invece strutturalmente – in relazione all’ideale edeniano – agiografiche.
Jack London mostra nella sua interezza e nella sua nitidezza quale
dovrebbe/potrebbe essere il cammino di ogni Americano ortodosso (ortodosso,
ovviamente, in relazione all’ideologia sociale dominante capitalistica). Il
fatto che di ciò l’autore californiano non faccia apprezzamento, bensì
condanna, si rileva dal fallimento esistenziale finale di Martin (nonostante
sia approdato al successo) e dal suo suicidio. L’estremo gesto possiede un quid
di romantico, a ulteriore dimostrazione che di culto della ragionevolezza nella
mente del protagonista londoniano non ce ne fosse. Si suicida in maniera
irrazionale come un qualsiasi Werther3, prigioniero del recinto
nevrotico anziché aprirsi a nuove salvifiche soluzioni. Adesso è giunto il
momento di esaminare questo rapporto sentimentale fra Ruth e Martin, dopo aver
dipinto lo sfondo in cui si cala. Questa relazione, la quale si era costruita
con l’ambiziosa meta di innalzarsi a matrimonio, costituisce il secondo asse
portante del romanzo accanto al primo su descritto. Quantunque la coppia si
fosse formata in modo spontaneo e senza ostacoli da parte della famiglia di
lei, Martin e Ruth a lungo andare vengono a trovarsi su piani psichici
differenti. Lei appartiene a quella categoria la quale altrove4 ho
definito “tipi freudiani”. Vale a dire: la sua consapevolezza della libido è
bassa, si mantiene a un grado di coscienza animale (lo Es freudiano). E si
contrappone a lui il quale nutre una vocazione da “tipo junghiano”. Cioè di
colui che potrebbe rielaborare la libido freudiana in vista di una nuova fase
(la “fase culturale” junghiana) in cui questa non sia solo potenza animale: «Lui
era ribelle, selvaggio, e in guise segrete la di lei vanità fu toccata dal
fatto che egli era venuto così dolcemente alla sua mano. Allo stesso modo lei
fu agitata dall’impulso comune di addomesticare la cosa selvatica. Era un
impulso inconscio, e più lontano dai suoi pensieri che il suo desiderio era riplasmare
l’argilla di lui in una somiglianza dell’immagine di suo padre, la quale l’immagine
lei credeva essere la migliore al mondo. Non c’era là altro modo, al di fuori
della sua inesperienza, per lei di sapere che il contatto cosmico che lei
prendeva con lui era quella la più universale delle cose, amore, il quale con
uguale potere trascinava uomini e donne attraverso il mondo, cervi costretti a
uccidersi reciprocamente nella stagione degli accoppiamenti, e guidava anche
irresistibilmente gli elementi a unirsi». Lucrezio e Schopenhauer traspariscono
in tale brano. Martin Eden rimane in bilico sino alla autodistruttiva fine.
Gode di talento e intelligenza tali da permettergli di smarcarsi dal giogo
nevrotico, ma non sfrutta l’occasione, e getta tutto alle ortiche. In ciò Ruth
gli dà una mano determinante. Ella non apprezza l’homo bensì il vir: non per
niente è un tipo freudiano. Non dispone delle capacità intellettuale di Martin,
e tutto sommato l’ostacola. Alla lunga gli mette i bastoni fra le ruote, sino
al punto, delusa da lui, di rompere il fidanzamento. Ciò non vuol dire che Ruth
sia disprezzabile. E colei che gramscianamente apprezza la conoscenza del
latino: «I giocatori di calcio devono allenarsi prima del grande incontro. E
ciò è quanto la lingua latina fa per colui che pensa. Allena». Non ha tutti i
torti a chiedere un marito con una posizione salda. I livelli libidico e
sociale cui appartiene glielo chiedono. Il mondo è strutturato perlopiù di
mediocrità, e chi ci nasce quasi sempre non se ne libera. Ruth rappresenta una
di costoro, incontra il talentuoso Martin, e dal canto suo non ne trae uno
spunto di reciproca crescita spirituale junghiana. Fallisce il destino di una
coppia il quale poteva essere più brillante e che però soccombe sotto la
pressione ideologica dominante circostante. La madre di Ruth parlandole di
Martin lo disprezza e privilegia il primato canonico dell’attivismo weberiano
dove la felicità poggia le sue basi nella proprietà e nel denaro (il diritto
alla felicità nella società americana indica queste due vie): «Lui non ha un
posto nel mondo. Egli non ha né posizione né salario. Lui non è pragmatico.
Amandoti, lui dovrebbe, nel nome del senso comune, apprestarsi a fare qualcosa
che gli darebbe il diritto di sposarsi, invece di tergiversare attorno a quelle
sue storie e a sogni infantili. Martin Eden, io ho paura, non crescerà mai. Lui
non si sobbarca la responsabilità e il lavoro di un uomo nel mondo come tuo
padre faceva, o come tutti i nostri amici, Mr. Butler per esempio. Martin Eden,
io ho paura, non sarà mai uno ben remunerato [money-earner]. E questo mondo è
strutturato in modo tale che il denaro è necessario alla felicità. Oh, no, non
queste gonfie fortune, ma abbastanza soldi da permettere comuni conforto e
decenza». In “Martin Eden” è venuto a mancare l’apporto di Ruth: «Quanto era
grande e forte in lui, lei lo aveva smarrito, o, peggio ancora, mal
interpretato. Quest’uomo, la cui argilla era così duttile che lui poteva vivere
in qualsiasi numero di nicchie di colombaia dell’esistenza umana, lei giudicava
testardo e più ostinato perché ella non poteva plasmarlo per vivere nella di lei
nicchia, la quale era solamente l’unica che ella conosceva. Lei non poteva
seguire i voli della sua mente, e quando il suo cervello andava oltre lei, lei
lo riteneva eccentrico. Nessun altro cervello era mai andato oltre lei. Lei
poteva sempre seguire suo padre e madre, i suoi fratelli e Olney; perché,
quando ella non poteva seguire Martin, lei credeva il difetto in lui. Era la
vecchia tragedia dell’‘insularità che tenta di servire come mentore
all’universale». Non c’è stato il salto di entrambi alla volta di una “fase
culturale” junghiana.
Il romanzo londoniano in questione costituisce una distopia
psicologica. Ruth è quella che «mentre consapevole che la povertà era
tutt’altro che dilettevole, lei aveva un confortevole sentimento borghese che
la povertà era salutare, che era un incitamento acuto il quale esortava su al
successo tutti gli uomini che non erano stati degradati e sgobboni senza
speranza». Anche ella fa professione di maltusianismo e attivismo
capitalistico. Rimane prigioniera mentale del suo mondo borghese, con i di lei
pregi e difetti della di lei ingenuità. Prima della rottura del fidanzamento Martin
fa la conoscenza del benestante Brissenden, un intellettuale sui generis, il
quale lo metterà in contatto con altri intellettuali economicamente disagiati,
la cui scoperta sorprenderà in positivo Martin dato il loro valore di pensiero.
Brissenden lo spronerà a confrontare il peso intellettuale di Ruth con altri
parametri più validi e obiettivi. Egli la definirà: «Quella pallida,
raggrinzita, cosa femminile [that pale, shrivelled, female thing]». Brissenden
inviterà Martin a volgersi verso lidi più maturi. Però «lui l’amava al punto
che lui non la capiva completamente, e lei non poteva capirlo perché lui era
così grande che lui si era ingigantito oltre il suo orizzonte». Una coppia
evidentemente mal saldata dal destino e destinata al fallimento per via di
carenza razionalistica. Egli, alla vigilia del suicidio, dirà a lei, essendo
stato cercato da ella dopo il successo editoriale allo scopo di rimettersi
insieme, le parole della disillusione: «Ho paura di essere un commerciante
accorto, che guarda attentamente dentro i piatti della bilancia, che cerca di
pesare il tuo amore e scoprire di quale genere di cosa esso è». Non si
rimetteranno più insieme. Da un lato perché ella era rimasta sempre la stessa
borghese, dall’altro perché l’animo di Martin guardava senza interesse a Lizzie
Connolly, una donna del popolo innamorata di lui. Martin Eden al posto di
voltare pagina, di iniziare una nuova vita più serena, porta alle estreme
conseguenze il proprio individualistico attivismo. Perde interesse al mondo e
alla vita, e decide di annegarsi in mare.
NOTE
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Partita a scacchi”
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
https://www.academia.edu/88052996/Partita_a_scacchi
1 Socialismo e
finzione letteraria in Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017).
2 All’interno
del mio
saggio Filosofie sadiche (2021) la parte recante il titolo Leopardi e Nietzsche: i profeti del male?.
3 Al riguardo indico uno scritto della mia pubblicazione
Considerazioni letterarie (2014): Considerazioni sul Werther goethiano.
4 Si veda
nel saggio indicato nella nota 2 la sezione intitolata L’irrazionalismo
nevrotico di Kierkegaard.