di DANILO CARUSO
Questa mia analisi ha un carattere storiografico e filosofico, non pretende di offrire una ricostruzione esauriente, bensì
mediante lavori di sintesi degli eventi cerca di consegnare un risultato il
quale mi sembra opportuno premettere ai momenti analitici e di riflessione in
itinere. Intendo dimostrare, sotto un profilo vichiano, presa in esame la
storia italiana novecentesca, e in particolar modo nei periodi seguenti ai due
dopoguerra, come ci siano stati un “corso” e un “ricorso” dinamici.
Naturalmente la facciata statica degli eventi possiede le sue esclusività
cronologiche, tuttavia nell’operazione analitica che a breve illustrerò ho
recuperato le linee profonde che mi consentono quest’azione di sovrapposizione
formale fra il secondo e il primo dopoguerra in Italia. Ritengo
metodologicamente il caso di parlare prima del secondo dopoguerra e di indicare
successivamente la sua sovrapposizione al primo, però mantenendosi in
controluce onde vedere per mezzo di questi raggi luminosi (concettuali) i quali
attraversano tali due piani storici resi traslucidi (diacronia) le cose in
comune (sincronia vichiana). Appunto ho rilevato simile parallelismo, evocato
in apertura in maniera teorica, fra le vicende della dialettica nazionale
borghesia/sinistra dopo il 1918 e dopo il 1945. A me sono apparsi un “corso” e
un “ricorso” dove la grande borghesia italiana ha cercato di allontanare da sé
il pericolo marxista. E ho notato che sembra esserci stata la medesima
strategia perseguita nelle due fasi storiche prese in esame, tant’è che ho
parlato di “sinistre parallele”. L’apparato borghese italiano industriale e
latifondista, per due volte, da quanto si mostra a me nella veste di analista
scientifico, nel corso del ’900 pare aver perseguito il tentativo di dividere
il vario fronte delle sinistre allo scopo di portare alleato nel suo campo lo
schieramento avversario più disponibile ai compromessi pragmatici e dunque meno
intransigente nella ricerca di concretizzare i propri obiettivi ideologici di
partenza. Cosicché è la Storia alla fine a mostrarci un reale cammino di
progressiva emarginazione della sinistra radicale dallo scenario
politico-istituzionale. E ciò si è svolto in due fasi fotocopia (primo
dopoguerra e secondo dopoguerra), nelle quali la più recente ha contemplato la
seconda sostanziale scomparsa dei marxisti dalle aule parlamentari italiane. Il
mio presente lavoro d’analisi vuol sottolineare alcuni particolari aspetti
storici, collegandoli inter se, al fine di raggiungere la nitidezza vichiana,
ottenibile in conclusione, ma premessa in questa introduzione per un obiettivo
di migliore comprensione di quanto mi sono prefisso di illuminare. Mi sembra
che i fatti parlino secondo le direzioni analitiche accennate, e che io non sia
andato fuori del seminato ipotizzando un filo vichiano nel sovrapporre due
archi cronologici consecutivi, uno sull’altro. Partiamo allora col delineare il
primo blocco cronologico. Le elezioni parlamentari italiane del ’48 si erano
svolte in un clima di forte ostilità, proveniente dalla Chiesa e dagli USA,
verso le sinistre, unificate in un cartello elettorale (comunisti e
socialisti). La vittoria elettorale della Democrazia cristiana filoamericana
portò quindi poi l’Italia in seno alla NATO (1949) e negli embrionali progetti
di formazione dell’UE nell’immediato dopoguerra. Il capitalismo occidentale era
riuscito a creare un argine antimarxista saldo in tutta l’area d’influenza
nordatlantica. E all’interno di questo spazio l’imprenditoria italiana seppe
produrre il famoso boom economico che portò il Paese, in virtù della sua
laboriosità e della sua intraprendenza, fra le prime potenze economiche
mondiali. Il consolidamento del capitalismo in Italia avvenne non senza
criticità. Il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, tre mesi dopo le lezioni
del 1948 rimase vittima incolume di un attentato da parte di un soggetto
solitario. Questa la versione ufficiale. C’è da pensare che quel gesto avrebbe
potuto comportare un’insurrezione rossa e la possibile conseguente messa
fuorilegge del Partito comunista. All’epoca del Terzo reich i comunisti furono
espulsi dal Parlamento tedesco, e i nazisti diventarono maggioranza assoluta.
La strage di Portella delle ginestre, avvenuta il primo maggio 1947, su cui
gravano ombre, aveva a suo tempo e a suo modo indicato il cammino dentro il
quale l’Italia stava andando a immettersi. La scissione del sindacato unitario
nazionale dei lavoratori italiani nel 1950, con la nascita della cattolica CISL
e della moderata di sinistra UIL, testimoniano ancora una volta come de facto si
andasse svolgendo un processo d’indebolimento della sinistra italiana
comunista. D’altro canto la DC al suo interno aveva una sorta di troncone
integralistico religioso nel quale furono riciclati soggetti che plaudirono
alle antisemite leggi razziali fasciste, una specie di area filo franchista la
quale in Parlamento presentò una interrogazione alla Camera dei deputati circa
la immoralità nella diffusione del romanzo “Lolita” di Nabokov in un anno in
cui la Chiesa non aveva ancora abolito l’Indice dei libri proibiti (1966).
Nonostante il boom economico, la società italiana sottostava a un clima di
controllo sociale alquanto reazionario. Nel corso dei decenni si andrà
affievolendo, e saranno introdotte leggi di “sinistra” come quelle sul divorzio
(1970) e sull’aborto (1978). Leggi che superarono referendum abrogativi
sostenuti da MSI e DC. È sui generis la storia del Movimento sociale italiano,
eredità del fascismo e della RSI. Soprattutto in relazione a quest’ultima1
sarebbe dovuto essere un partito di sinistra non marxista, però in Parlamento
andò a sedere a destra in antitesi ai “fratelli” comunisti e socialisti. Il
recupero di posizioni da fascismo di anni ’20 e ’30 lo trasformò, a mio avviso,
in direzione involutiva, verso una destra vera e propria di stampo
conservatore. Quello che è rimasto di autenticamente fascista è stato definito
con un ossimoro “destra sociale”. L’appiattimento sul capitalismo occidentale
comportò posizioni critiche interne. L’esperienza socioeconomica fascista, fra
le cose positive del regime (ad esempio ricordata da uno scrittore di valore
quale Antonio Pennacchi), la quale certamente non cancella altre cose molto
negative, non è stata recuperata, ma anzi scartata a vantaggio del sistema
liberista. Non dimentichiamo che il perno dell’economia italiana, prima
dell’ultima guerra mondiale e dopo (per lungo tempo), fu l’IRI, una creatura
fascista (assieme all’IMI: tutt’oggi la Germania ha un istituto pubblico di
credito del genere, mentre l’Italia non più). I missini nel ’49 furono contrari
all’entrata italiana nella Nato, tuttavia nel ’52, dopo un non facile
travaglio, diventarono ufficialmente atlantisti. Se si pensa poi che i
monarchici confluiranno nel Movimento sociale (AN aveva al suo interno Azione
monarchica), si nota un’evoluzione di posizioni contraddittorie: i
repubblichini di Salò cantavano «a morte la casa Savoia». Il fronte
filocapitalistico occidentale nel secondo dopoguerra aveva ottenuto quanti più
punti d’appoggio nel panorama politico in Italia. La crescita economica del
Paese però non era così gradita poiché diminuiva i benefici stranieri dominanti
sui mercati. In questo quadro si inserisce l’operato del presidente dell’ENI,
il democristiano Enrico Mattei, perito nel 1962 in circostanze rimaste poco
chiare. Nel 1963 con Aldo Moro venne formato il primo governo italiano di
centrosinistra, dove i socialisti di Nenni accettarono la bontà della NATO.
Tale Svolta che apriva ad alleanze organiche fra DC e PSI presenta complesse
sfaccettature. La prima, più machiavellica, dà come risultato l’allontanamento
dei socialisti dai comunisti, e ricaccia indietro lo spauracchio di governi
PCI-PSI. Rappresenta ciò il dettaglio più vistoso e più radicale nei
presumibili auspici del capitalismo occidentale. Non tutti gli industriali italiani
capirono e valutarono bene la cosa subito. Infatti, d’altro canto, bisognava
oramai fare qualcosa di “sinistra” al governo, e i socialisti, tra l’altro,
chiesero l’erogazione dell’energia elettrica posta sotto tutela di un servizio
pubblico. La nazionalizzazione prodottasi con l’ENEL (1962) è oggigiorno andata
in fumo assieme ai suoi vantaggi per le masse. Durante il centrosinistra di
governo fu varato lo Statuto dei lavoratori (1970), poi ammorbidito dal Job act
del Governo Renzi che ha reso più flessibili, e quindi meno difficili, i
licenziamenti. La paura borghese in Italia che il Partito comunista si potesse
avvicinare al governo grazie all’idealistica visione cristiana della sinistra
interna della DC, promosse due falliti colpi di Stato (nel ’64 e nel ’70). Il
fatto che praticamente non fossero andati in porto indicherebbe iniziative
“all’italiana” senza ipotizzabili speciali benedizioni dall’esterno, dove la
divisione della sinistra (divide PCI et PSI, et impera) sarebbe potuta essere
stata la soluzione gradita meglio. Dall’attentato di Piazza Fontana a Milano
(1969) a quello di Bologna (1980) pare essersi attuata una strategia della
tensione volta a costruire le condizioni emotive propizie all’accettazione di
un regime governativo “forte” di sicurezza nazionale. Altrove, come in Cile,
Argentina e Grecia, negli anni Sessanta e Settanta, golpes militari abbatterono
governi democratici socialpopolari. Durante la seconda metà degli anni ’70,
naufragato il centrosinistra governativo italiano sotto il peso delle sue
contraddizioni, il Partito comunista ebbe in Italia una fiammata elettorale che
sembrava proiettarlo al primato politico e dunque a una possibile prospettiva
di guida del Paese. Con il segretario Enrico Berlinguer il PCI assumeva in
quegli anni una posizione di distacco del nostro Paese dall’URSS, e parimenti
abbandonava il proprio precedente rifiuto dell’inserimento italiano
nell’Organizzazione del trattato nordatlantico e nelle strutture comunitarie
europee. Simile svolta sui generis dei comunisti italiani – l’eurocomunismo –
ottenne varie non indifferenti adesioni di dirigenze comuniste in Europa. Le
pesanti ingerenze sovietiche dei vicini decenni precedenti in Ungheria e
Cecoslovacchia avevano lasciato i loro strascichi. Da tale idea di autonomia da
Mosca, sulla falsariga jugoslava, venne fuori la proposta di Berlinguer di un
“compromesso storico” in Italia, ossia la coalizione tra schieramenti socialprogressisti
la quale recuperasse a beneficio del progetto l’appoggio di cattolici non
conservatori e del PSI in direzione di una grande stagione innovatrice.
L’intenzione non sortì unanimi entusiasmi né ebbe grande successo in termini di
consenso elettorale. Dopo le elezioni politiche italiane del ’76 un governo
monocolore della DC guidava il Paese grazie all’appoggio esterno di altri
partiti, fra cui il PCI. Nel ’77 i comunisti di Berlinguer chiesero di
partecipare direttamente al governo, ma la dirigenza democristiana e gli Usa si
opposero. In mezzo alle difficoltà politiche di allora emerse un nuovo
monocolore (di nuovo guidato da Giulio Andreotti) con esplicita maggioranza parlamentare
costituita da democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti e
comunisti. La marcia verso un più pieno ingresso comunista nel governo aveva un
qualificato sostenitore in Aldo Moro, la cui tragica morte nel 1978 rappresenta
una vicenda rimasta non molto chiara nella storia della Repubblica. Frutto di
quegli anni Settanta carichi di spinte anelanti a una migliore giustizia
sociale, in aggiunta al divorzio, all’aborto e allo Statuto dei lavoratori, fu
nel 1978 il gratuito e universale servizio sanitario assistenziale statale
(SSN) che correggeva la parzialità della “cassa mutua” prevista con la Legge
Mariotti del 1968 e basata su un criterio assicurativo a pagamento. Nel ’79 i
comunisti interruppero la loro organica collaborazione governativa ritornando
all’opposizione. Iniziò allora, fra delusioni, una lenta agonia del PCI, culminata
con la caduta del Muro di Berlino (1989), cui fece subito seguito la svolta
della Bolognina proclamata dal segretario Achille Occhetto che annunziò il
cammino di trasformazione del PCI nel venturo sostitutivo Partito democratico
della sinistra. L’aggettivo/sostantivo “comunista” parve essere caduto in
disgrazia, e il crollo dell’URSS accelerò il processo di metamorfosi. Il Partito
comunista fu dunque sciolto nel 1991. Da tale operazione politica sorse il già
detto PDS e, per dissenso e in contrasto, il Partito della rifondazione
comunista. Prima che tramontasse la stagione della cosiddetta Prima repubblica,
e si passasse alla legge elettorale maggioritaria (con quota di un quarto di
proporzionale), il governo tecnico di Azeglio Ciampi insediatosi nel 1993 aveva
contemplato al suo interno tre ministri del PDS (Visco, Barbera e Luigi Berlinguer).
La loro partecipazione piena al governo terminò subito con impreviste
dimissioni in segno di disapprovazione perché la Camera dei deputati aveva
respinto quattro autorizzazioni a procedere su sei richieste dalla magistratura
a carico di Bettino Craxi. Il primo vero tentativo di esperire il “compromesso
storico” auspicato da Enrico Berlinguer durò quasi niente. Nel 1998-2000 il
post-comunista dei DS (Democratici di sinistra, ulteriore evoluzione del PDS)
Massimo D’Alema fu Presidente del consiglio dei ministri (vicepresidente Sergio
Mattarella), governi sostenuti dal Partito dei comunisti italiani creato dopo
una scissione dal PRC passato all’opposizione durante il primo governo Prodi.
Nel secondo di quei governi D’Alema era stato incaricato quale sottosegretario
alla difesa l’ex missino e fuoruscito da Alleanza nazionale Romano Misserville,
il quale fu costretto a dimettersi subito per via di polemiche generate dalle
sue simpatia fasciste e per aver paragonato D’Alema ad Almirante. La storia dei
due ricordati governi Andreotti ebbe una sorta di vichiano ricorso ravvicinato
con i due governi di Romano Prodi appoggiati dal PRC (1996-98 e 2006-8). Nel
2007 i DS si fusero con la centrista formazione politica della Margherita al
fine di costituire il Partito democratico. Alle elezioni politiche italiane del
2008 la scelta del segretario del PD Walter Veltroni di non allearsi per le
elezioni coi comunisti di Fausto Bertinotti (presidente uscente della Camera
dei deputati) causò, in virtù del meccanismo elettorale l’uscita, perdurante,
di un considerevole schieramento di esplicito e tradizionale richiamo marxista
dal Parlamento italiano. Da quel momento a sinistra del PD soltanto alcuni
piccoli partiti, non paragonabili al vecchio PCI, ai suoi consensi elettorali,
e soprattutto alla sua impronta ideologica. L’era dei prodiani avvenuti, in un
modo o nell’altro, determinanti “compromessi storici” (finché durarono) è scomparsa
per l’assenza di un partito comunista di peso alle elezioni politiche. Prima della
svolta di Occhetto uno su tre votava nel dopoguerra il PCI al Parlamento. Ai
nostri giorni il consenso elettorale marxista si è enormemente ridotto.
L’estromissione dei comunisti post-sovietici dalle aule di Camera e Senato è
stata pressoché totale. Terminata questa prima sintesi possiamo passare alla
seconda cui la suddetta è da sovrapporre al fine di ritrovare le analogie che
ho indicato in partenza d’analisi. La Rivoluzione russa e la nascita
dell’Unione sovietica nel 1917-18 rappresentano degli eventi chiave per la
comprensione del primo dopoguerra italiano. L’avvento del fascismo al potere in
forme via via graduali e sempre più esclusive all’inizio degli anni Venti, a
mio avviso, non può essere classificata come un sintomo consequenziale di una
crisi istituzionale del sistema liberale ereditato dal periodo post-unitario. Dal
mio punto di vista si può parlare di una evoluzione tattica liberal-borghese
mirante all’autoconservazione della classe sociale dominante degli industriali
e dei latifondisti. A costoro era chiaro l’obiettivo di evitare una rivoluzione
armata marxista pure in Italia. E perciò giocarono la migliore carta del
momento, cioè quella di dividere lo sfaccettato schieramento delle forze
politiche di sinistra allo scopo di contrapporre il segmento più propenso a
compromessi coi borghesi ai rivoluzionari filocomunisti russi, i quali, con
un’esperienza di avvenuto socialismo reale, costituivano davvero un terrificante
per loro problema di tenuta sociale e politica. Non è stato il fascismo a
conquistare il potere, è stato il sistema liberal-borghese a compiere l’unica
mossa per sé intelligente, e a sacrificare, come direbbe Sun Tzu, assediato dal
“pericolo rosso”, una parte del proprio potere a vantaggio di una sinistra non
marxista, la quale era disposta alla collaborazione col vecchio apparato
liberale, che i marxisti, rimasti coerenti, avrebbero invece voluto abbattere
sulla falsariga russa rivoluzionaria. Non ci voleva gran che a sbarazzarsi dei
fascisti. Il punto della questione era impedire che questi facessero fronte
unito e unico coi marxisti. La borghesia italiana giocò il più classico dei
machiavellismi: divide et impera. Certamente perse una fetta non indifferente
di potere, ma restò in vita, tutelata entro quei nuovi strategici limiti. Le
politiche sociali del fascismo furono dei realizzati progetti di “sinistra”. Se
da un lato poterono rappresentare delle conquiste proletarie superiori al
passato prefascista, dall’altro non lesero più di tanto i borghesi, i quali
invece si ritrovarono una massa più acquietata e non sensibile ai richiami
rivoluzionari marxisti. Il fascismo italiano fu un’esperienza politica
governativa sui generis e irripetibile. Da un canto costituì un freno
reazionario borghese alle “spinte rosse”, tuttavia da un altro – sempre in
termini di politica sociale ed economica – rappresentò un progresso
apprezzabile. Il fascismo è stato polimorfo. Ha messo in atto anche cose molto
deprecabili quali le leggi razziali antisemite, l’entrata in guerra accanto
alla Germania (con le sue nefaste conseguenze), l’invasione dell’Abissinia, lo
squadrismo e – io aggiungerei tra l’altro – i Patti lateranensi. Avere
resuscitato il Cattolicesimo a una riconosciuta e rinnovata dimensione politica
statale, per me, è stato un grave errore mondiale2. Il fascismo
perseguendo una linea anticomunista (in funzione della quale fu celebrato in
Occidente a suo tempo) sbagliò pressoché tutta la politica estera. Se c’era una
cosa che si doveva conservare del sistema liberal-borghese era la marcata
separazione fra religione e politica. Aver riconsegnato alla Chiesa la dignità
di Stato costituisce un errore sotto tutti i profili i cui effetti perdurano
tutt’oggi. Non dimentichiamo che il Vaticano non intralciò le leggi razziali
contro gli Ebrei in Italia, e quando il governo Badoglio le abolì ne chiese
addirittura un mantenimento di alcune parti. A causa della misoginia cattolica
Mussolini evitò di allargare il suffragio politico nazionale alle donne. Il
fascismo, in quanto coagulo anticomunista, conteneva diverse anime: quella di
destra evidente dei nazionalisti confluiti, quella dannunziana fiumana
progressista, quella monarchica liberale massonica, quella dei post-marxisti
(come Mussolini, Bombacci, e altri), e infine quella tardiva cattolica. In
parole povere era come un dado. Ma la costruzione del “dado fascista” aveva una
storia ordinata cronologicamente, ed ebbe la sua ultima faccia nella RSI. Alle
elezioni politiche svoltesi nel ’19 un terzo dei deputati era andato al Partito
socialista e un quinto al Partito popolare: il campanello d’allarme era suonato
molto forte per l’apparato borghese, pressato a sinistra dai marxisti e a
destra dai cattolici. Il problema principale però proveniva da sinistra, dove
una magmatica area contemplava uno spazio rivoluzionario filosovietico di cui
facevano parte Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, poi fra i fondatori,
assieme a Nicola Bombacci, del PCI nel 1921. Gramsci in quegli anni dirigeva un
suo periodico, l’“Ordine nuovo”, su cui promuoveva l’avvento di uno Stato
comunista in Italia sul modello russo. Sosteneva ante litteram una sorta di
“compromesso storico” antiliberale. Contestualmente a simili aspirazioni nello
schieramento di sinistra marxista, fu dalla piccola borghesia che emerse una
proposta diversa, sì non di richiamo fortemente proletario ma neanche di evidente
derivazione altoborghese. I “Fasci di combattimento” costituitisi nel ’19 e
guidati dall’ex socialista Benito Mussolini si prefiggevano in origine dei
precisi punti programmatici in direzione di un migliore equilibrio sociale:
colpire i redditi provenienti dal grande capitale e le proprietà religiose,
tutelare i lavoratori attraverso un limite orario alle prestazioni d’opera e
all’introduzione di salari minimi, garantire l’inserimento operaio negli organi
di gestione industriale (quest’ultimo aspetto – la socializzazione delle
imprese – connotò la sansepolcrista
Repubblica di Salò). I liberali provarono a formare nel 1919-21 dei governi
assieme ai socialisti, una specie di “grande coalizione”, cosa cui il PSI
rimase sordo altresì in occasione dell’arrivo mussoliniano. A tal riguardo è da
rammentare l’indeterminatezza in quell’epoca di Pietro Nenni, più in là
vicepresidente del primo governo di centrosinistra repubblicano presieduto dal
democristiano Aldo Moro. Nenni fu in origine repubblicano, e, al pari del
socialista Mussolini, interventista. Nel ’19 aderì brevemente al fascismo
divenendo pure lui antimassimalista. Quando il 15 aprile 1919 la sede
dell’“Avanti” fu assaltata e devastata da estremisti nazionalfascisti, Nenni
espresse un plauso. Nel corso delle divergenze tra socialisti e comunisti,
Nenni divenuto socialista sarà successivamente definito con astio un Mussolini
in miniatura. Togliatti non mostrò in era fascista simpatie per Nenni, il quale
in effetti nel dopoguerra assieme a Moro diede una grande spallata all’ideale
di sinistra unitaria. Che fosse giunto a fare il Ministro degli esteri nel
primo governo di Mariano Rumor la dice lunga sulla sua collocazione ideologica
nazionale e internazionale. L’azione politica gramsciana nel primo dopoguerra
in virtù, tra l’altro, dei destabilizzanti effetti ricercati, spinse la grande
borghesia, delusa dall’azione di contenimento liberale governativo, a ripiegare
sui fascisti. Industriali e latifondisti sostennero pertanto le famose
“squadre” contro i marxisti e i loro seguaci proletari. Il progetto di usare un
pezzo di sinistra non marxista da anteporre ai filorivoluzionari era entrato
all’opera con lo stesso uso della violenza previsto da un contesto di
sovvertimento non pacifico quale quello avuto luogo in Russia poco prima.
L’uccisione della famiglia dello Zar era un fattaccio vivo nella memoria
monarchco-borghese, assieme agli altri fenomeni di violenza rivoluzionaria. Lo
“squadrismo fascista” agì, in maniera ingiustificabile e ovviamente da
condannare, in modo omogeneo e in funzione preventiva filoborghese. Lo
squadrismo pregovernativo diffuse terrore e violenza antimarxista su ampia
scala, fatti nella loro qualità (non estensione) riallacciabili in linea
concettuale poi a eventi quali la strage di Portella delle ginestre e
l’attentato a Togliatti. Nel primo dopoguerra l’ordine istituzionale
monarchico-borghese lasciò il “lavoro sporco” all’“opportunismo fascista”. Il
PNF nato nel ’21 abbandonò la esplicita precedente vocazione ideologica di
sinistra: era sorto il partito fascista dalle diverse contraddittorie anime.
Pure la Chiesa, oltre a tutto l’Occidente russofobo, finì per benedire il
“fascismo monarchico”. La frantumazione del PSI in tre tronconi autonomi
(comunisti di Gramsci e Togliatti, vecchi socialisti tradizionalisti di Nenni,
socialisti riformisti di Matteotti) completò un quadro in parte spontaneo e in
parte ricercato di globale “divide et impera” esercitato sulla sinistra dai
liberal-borghesi. Alle elezioni politiche italiane del ’21 liberali,
nazionalisti e fascisti si presentarono alleati e uniti nel “Blocco nazionale”.
Le tensioni e lo scontro sociale provenienti dalla dicotomia
borghesia/proletariato continuarono nel frattempo a crescere, il che promosse
il boom fascista dei consensi antimarxisti. Alla fine del ’22 i fascisti
consapevoli della loro reale forza politica idearono quella che in effetti
risultò una messa in scena: la Marcia su Roma. Il re Vittorio Emanuele III non
firmò il decreto proclamante lo stato d’assedio emanato dal governo del
liberale Luigi Facta (il quale Facta voterà di lì a breve la fiducia
parlamentare al governo Mussolini). Il re quindi, nella cui persona, a norma
statutaria, risiedeva il potere esecutivo e di nomina del Capo del governo,
diede l’incarico di Presidente del consiglio dei ministri a Benito Mussolini.
Avrebbe potuto legittimamente potuto revocargli la nomina in qualsiasi momento
prima del luglio del ’43, quando per giunta un Mussolini appena dimessosi fu
arrestato e in seguito liberati dai Tedeschi. Giunto a questo punto
dell’analisi in merito al secondo segmento storico esaminato eviterò di essere
ripetitivo ricalcando cose che ho detto altrove parlando del fascismo. Rinvio
perciò il lettore ad altri miei scritti riguardanti la dimensione di sinistra
del fascismo3. Essendo ormai arrivati al tratto conclusivo del
percorso argomentativo tengo qui a evidenziare altri contenuti. Il ’900
italiano rappresenta un pezzo di storia europea e mondiale in cui il faro
ideologico dominante è stato costituito dagli USA. Il capitalismo americano in
seguito alle due guerre mondiali (le quali io considero una unica “peloponnesiaca”
contesa intestina capitalistica) che hanno visto uno scontro di fondo tra
Americani e Tedeschi (la cui rilevanza Jack London aveva intuito in principio
del secolo XIX) ha indicato la via a tutto l’Occidente. E tale via è sempre
stata di rifiuto e di chiusura nei confronti del marxismo. L’Italia ha fatto
parte di simile schema. Dal punto di vista statunitense lo sbaglio epocale del
fascismo fu quello di allearsi coi Tedeschi, desiderosi di rivalsa dopo la
sconfitta nella Grande guerra. Come non dimenticare le grandiosi celebrazioni
negli USA degli aviatori fascisti in occasione della seconda crociera atlantica
di Italo Balbo nel 1933? Il fascismo ha sfidato il capitalismo americano dopo
Pearl Harbour e ha perso la guerra. È finita così quella sui generis
coabitazione tra borghesi italiani e vocazioni di sinistra del fascismo durata
in Italia per un ventennio. Nonostante tutti i danni causati e i tragici errori
compiuti è difficile non riconoscere all’azione fascista nel settore
socioeconomico una vocazione di sinistra (pensiamo ad esempio ancora alle
osservazioni di Antonio Pennacchi). Io credo che al di là di simile specifica e
circoscritta esperienza fascista nel campo dell’economia, in virtù dello Stato
etico, non ci sia stato nient’altro nella storia italiana così poderosamente, e
concretamente, di sinistra (non trascuriamo che Lenin aveva ammirato il
socialista Mussolini). L’IMI e l’IRI sopravvissero alla caduta del fascismo
lungamente, smantellati da politiche liberiste. Secondo me, non è iperbolico
ritenere che il fascismo sociale monarchico e infine quello sansepolcrista
repubblicano di Salò abbiano contribuito a creare dei precedenti in favore di
una presa di coscienza popolare, i cui germi autenticamente socialisti siano
sopravvissuti e trasmigrati idealmente nella base del più grande partito
comunista dell’Occidente, che è stato il PCI. Il regime fascista non pose in
subalternità ideologica la massa del popolo nei riguardi di un primato d’azione
imprenditoriale liberista. La guerra partigiana del 1943-45 fu la nemesi
marxista sopra l’epoca dello squadrismo degli anni Venti. Penso che la suddetta
consapevolezza di poter attuare in Italia politiche socioeconomiche di vera
sinistra sia alla base dell’attivismo comunista post-bellico. Altrove non
avevano la diretta percezione di una apprezzabile fattibilità avvenuta.
Comunque sia la mia personale idea sul tema centrale della dialettica
liberalborghesi/socialcomunisti è la seguente, e ragiono da simpatizzante del
giustizialismo peronista4. La proprietà privata se priva una parte
dell’umanità e della società del diritto alla partecipazione a condizioni di
benessere di base, di cui garante la comunità statale, si mostra
indubitabilmente nella veste di nocumento a degli esseri umani. Pare proprio
che sostenere in astratto un diritto universale senza tener conto degli effetti
collaterali concreti non sia saggio: saggezza sta nel dare a seconda dei casi
in base a bisogni e meriti. L’esclusivo, altresì pratico, primato di questi
ultimi entra in conflitto con il sistema costitutivo statale, un consorzio
della razionalità: si rivela irrazionale ammettere che l’insieme dei cittadini
sia vincolato in previsione positiva di notevoli sperequazioni, anche a livello
internazionale. Infatti, chi reclama una minore presenza dello Stato, proclama
il desiderio di giocare la partita senz’arbitro. L’eccesso di accumulazione
della ricchezza in poche mani, non pubbliche, rappresenta qualcosa da evitare
affinché non ci siano in assoluto sacche di povertà nel mondo. Se è ragionevole
prevedere dei tetti all’arricchimento individuale, è compito dell’apparato
statale, super partes, tradurre nella realtà concreta tale principio di
giustizia sociale, non meno importante di quello della libertà. Qualsiasi
abilità imprenditoriale non può vantare il diritto a tramutarsi in vampiro a
scapito di tutti. Nel momento in cui la proprietà privata sottrae indebitamente
spazi di benessere a una più equilibrata distribuzione sembra doveroso
intervenire: liberté, ma anche égalité e fraternité. Il principio di
solidarietà sociale, alla radice della fondazione dello Stato, merita dal canto
suo una più efficace applicazione legislativa.
Questo scritto fa parte del
mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
1 Per un iniziale approfondimento
sulla Repubblica sociale italiana indico un mio studio: L’utopia della RSI contenuto nella mia monografia La morte delle ideologie (2011).
2 Sia pur brevemente, è doveroso dare
un mio accenno di spiegazione a simile affermazione. Una considerevole parte
delle mie indagini scientifiche si è concentrata sulla storia e sulla
letteratura cristiano-cattoliche. Ho raccolto svariati elementi che mi inducono
a giudicare largamente negativi l’azione e il pensiero della Chiesa nella
società. Indico qui appresso alcuni miei lavori, che mi sembrano significativi
in funzione di eventuale approfondimento, dove argomento con chiarezza e
profondità obiettive: Parricidio dantesco
(2021), Teologia analitica (2020), L’apologia
dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017), Il Medioevo
futuro di George Orwell (2015). Dentro all’altra mia opera intitolata Letture critiche (2019), Il machiavellico disegno della “follia”
erasmiana.
3 In
aggiunta a quello già menzionato nella nota precedente: La democrazia
corporativa, sempre contenuto nella pubblicazione là ricordata; Mussolini,
il fascismo e la borghesia, quest’altro invece presente nel mio saggio Note
di critica (2017).
4 Per approfondire il peronismo
suggerisco dei miei studi al’interno della mia monografia indicata nella nota
1: Il giustizialismo peronista e La
Fondazione “Eva
Perón”.