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giovedì 16 febbraio 2023

SINISTRE PARALLELE

di DANILO CARUSO
 
Questa mia analisi ha un carattere storiografico e filosofico, non pretende di offrire una ricostruzione esauriente, bensì mediante lavori di sintesi degli eventi cerca di consegnare un risultato il quale mi sembra opportuno premettere ai momenti analitici e di riflessione in itinere. Intendo dimostrare, sotto un profilo vichiano, presa in esame la storia italiana novecentesca, e in particolar modo nei periodi seguenti ai due dopoguerra, come ci siano stati un “corso” e un “ricorso” dinamici. Naturalmente la facciata statica degli eventi possiede le sue esclusività cronologiche, tuttavia nell’operazione analitica che a breve illustrerò ho recuperato le linee profonde che mi consentono quest’azione di sovrapposizione formale fra il secondo e il primo dopoguerra in Italia. Ritengo metodologicamente il caso di parlare prima del secondo dopoguerra e di indicare successivamente la sua sovrapposizione al primo, però mantenendosi in controluce onde vedere per mezzo di questi raggi luminosi (concettuali) i quali attraversano tali due piani storici resi traslucidi (diacronia) le cose in comune (sincronia vichiana). Appunto ho rilevato simile parallelismo, evocato in apertura in maniera teorica, fra le vicende della dialettica nazionale borghesia/sinistra dopo il 1918 e dopo il 1945. A me sono apparsi un “corso” e un “ricorso” dove la grande borghesia italiana ha cercato di allontanare da sé il pericolo marxista. E ho notato che sembra esserci stata la medesima strategia perseguita nelle due fasi storiche prese in esame, tant’è che ho parlato di “sinistre parallele”. L’apparato borghese italiano industriale e latifondista, per due volte, da quanto si mostra a me nella veste di analista scientifico, nel corso del ’900 pare aver perseguito il tentativo di dividere il vario fronte delle sinistre allo scopo di portare alleato nel suo campo lo schieramento avversario più disponibile ai compromessi pragmatici e dunque meno intransigente nella ricerca di concretizzare i propri obiettivi ideologici di partenza. Cosicché è la Storia alla fine a mostrarci un reale cammino di progressiva emarginazione della sinistra radicale dallo scenario politico-istituzionale. E ciò si è svolto in due fasi fotocopia (primo dopoguerra e secondo dopoguerra), nelle quali la più recente ha contemplato la seconda sostanziale scomparsa dei marxisti dalle aule parlamentari italiane. Il mio presente lavoro d’analisi vuol sottolineare alcuni particolari aspetti storici, collegandoli inter se, al fine di raggiungere la nitidezza vichiana, ottenibile in conclusione, ma premessa in questa introduzione per un obiettivo di migliore comprensione di quanto mi sono prefisso di illuminare. Mi sembra che i fatti parlino secondo le direzioni analitiche accennate, e che io non sia andato fuori del seminato ipotizzando un filo vichiano nel sovrapporre due archi cronologici consecutivi, uno sull’altro. Partiamo allora col delineare il primo blocco cronologico. Le elezioni parlamentari italiane del ’48 si erano svolte in un clima di forte ostilità, proveniente dalla Chiesa e dagli USA, verso le sinistre, unificate in un cartello elettorale (comunisti e socialisti). La vittoria elettorale della Democrazia cristiana filoamericana portò quindi poi l’Italia in seno alla NATO (1949) e negli embrionali progetti di formazione dell’UE nell’immediato dopoguerra. Il capitalismo occidentale era riuscito a creare un argine antimarxista saldo in tutta l’area d’influenza nordatlantica. E all’interno di questo spazio l’imprenditoria italiana seppe produrre il famoso boom economico che portò il Paese, in virtù della sua laboriosità e della sua intraprendenza, fra le prime potenze economiche mondiali. Il consolidamento del capitalismo in Italia avvenne non senza criticità. Il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, tre mesi dopo le lezioni del 1948 rimase vittima incolume di un attentato da parte di un soggetto solitario. Questa la versione ufficiale. C’è da pensare che quel gesto avrebbe potuto comportare un’insurrezione rossa e la possibile conseguente messa fuorilegge del Partito comunista. All’epoca del Terzo reich i comunisti furono espulsi dal Parlamento tedesco, e i nazisti diventarono maggioranza assoluta. La strage di Portella delle ginestre, avvenuta il primo maggio 1947, su cui gravano ombre, aveva a suo tempo e a suo modo indicato il cammino dentro il quale l’Italia stava andando a immettersi. La scissione del sindacato unitario nazionale dei lavoratori italiani nel 1950, con la nascita della cattolica CISL e della moderata di sinistra UIL, testimoniano ancora una volta come de facto si andasse svolgendo un processo d’indebolimento della sinistra italiana comunista. D’altro canto la DC al suo interno aveva una sorta di troncone integralistico religioso nel quale furono riciclati soggetti che plaudirono alle antisemite leggi razziali fasciste, una specie di area filo franchista la quale in Parlamento presentò una interrogazione alla Camera dei deputati circa la immoralità nella diffusione del romanzo “Lolita” di Nabokov in un anno in cui la Chiesa non aveva ancora abolito l’Indice dei libri proibiti (1966). Nonostante il boom economico, la società italiana sottostava a un clima di controllo sociale alquanto reazionario. Nel corso dei decenni si andrà affievolendo, e saranno introdotte leggi di “sinistra” come quelle sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978). Leggi che superarono referendum abrogativi sostenuti da MSI e DC. È sui generis la storia del Movimento sociale italiano, eredità del fascismo e della RSI. Soprattutto in relazione a quest’ultima1 sarebbe dovuto essere un partito di sinistra non marxista, però in Parlamento andò a sedere a destra in antitesi ai “fratelli” comunisti e socialisti. Il recupero di posizioni da fascismo di anni ’20 e ’30 lo trasformò, a mio avviso, in direzione involutiva, verso una destra vera e propria di stampo conservatore. Quello che è rimasto di autenticamente fascista è stato definito con un ossimoro “destra sociale”. L’appiattimento sul capitalismo occidentale comportò posizioni critiche interne. L’esperienza socioeconomica fascista, fra le cose positive del regime (ad esempio ricordata da uno scrittore di valore quale Antonio Pennacchi), la quale certamente non cancella altre cose molto negative, non è stata recuperata, ma anzi scartata a vantaggio del sistema liberista. Non dimentichiamo che il perno dell’economia italiana, prima dell’ultima guerra mondiale e dopo (per lungo tempo), fu l’IRI, una creatura fascista (assieme all’IMI: tutt’oggi la Germania ha un istituto pubblico di credito del genere, mentre l’Italia non più). I missini nel ’49 furono contrari all’entrata italiana nella Nato, tuttavia nel ’52, dopo un non facile travaglio, diventarono ufficialmente atlantisti. Se si pensa poi che i monarchici confluiranno nel Movimento sociale (AN aveva al suo interno Azione monarchica), si nota un’evoluzione di posizioni contraddittorie: i repubblichini di Salò cantavano «a morte la casa Savoia». Il fronte filocapitalistico occidentale nel secondo dopoguerra aveva ottenuto quanti più punti d’appoggio nel panorama politico in Italia. La crescita economica del Paese però non era così gradita poiché diminuiva i benefici stranieri dominanti sui mercati. In questo quadro si inserisce l’operato del presidente dell’ENI, il democristiano Enrico Mattei, perito nel 1962 in circostanze rimaste poco chiare. Nel 1963 con Aldo Moro venne formato il primo governo italiano di centrosinistra, dove i socialisti di Nenni accettarono la bontà della NATO. Tale Svolta che apriva ad alleanze organiche fra DC e PSI presenta complesse sfaccettature. La prima, più machiavellica, dà come risultato l’allontanamento dei socialisti dai comunisti, e ricaccia indietro lo spauracchio di governi PCI-PSI. Rappresenta ciò il dettaglio più vistoso e più radicale nei presumibili auspici del capitalismo occidentale. Non tutti gli industriali italiani capirono e valutarono bene la cosa subito. Infatti, d’altro canto, bisognava oramai fare qualcosa di “sinistra” al governo, e i socialisti, tra l’altro, chiesero l’erogazione dell’energia elettrica posta sotto tutela di un servizio pubblico. La nazionalizzazione prodottasi con l’ENEL (1962) è oggigiorno andata in fumo assieme ai suoi vantaggi per le masse. Durante il centrosinistra di governo fu varato lo Statuto dei lavoratori (1970), poi ammorbidito dal Job act del Governo Renzi che ha reso più flessibili, e quindi meno difficili, i licenziamenti. La paura borghese in Italia che il Partito comunista si potesse avvicinare al governo grazie all’idealistica visione cristiana della sinistra interna della DC, promosse due falliti colpi di Stato (nel ’64 e nel ’70). Il fatto che praticamente non fossero andati in porto indicherebbe iniziative “all’italiana” senza ipotizzabili speciali benedizioni dall’esterno, dove la divisione della sinistra (divide PCI et PSI, et impera) sarebbe potuta essere stata la soluzione gradita meglio. Dall’attentato di Piazza Fontana a Milano (1969) a quello di Bologna (1980) pare essersi attuata una strategia della tensione volta a costruire le condizioni emotive propizie all’accettazione di un regime governativo “forte” di sicurezza nazionale. Altrove, come in Cile, Argentina e Grecia, negli anni Sessanta e Settanta, golpes militari abbatterono governi democratici socialpopolari. Durante la seconda metà degli anni ’70, naufragato il centrosinistra governativo italiano sotto il peso delle sue contraddizioni, il Partito comunista ebbe in Italia una fiammata elettorale che sembrava proiettarlo al primato politico e dunque a una possibile prospettiva di guida del Paese. Con il segretario Enrico Berlinguer il PCI assumeva in quegli anni una posizione di distacco del nostro Paese dall’URSS, e parimenti abbandonava il proprio precedente rifiuto dell’inserimento italiano nell’Organizzazione del trattato nordatlantico e nelle strutture comunitarie europee. Simile svolta sui generis dei comunisti italiani – l’eurocomunismo – ottenne varie non indifferenti adesioni di dirigenze comuniste in Europa. Le pesanti ingerenze sovietiche dei vicini decenni precedenti in Ungheria e Cecoslovacchia avevano lasciato i loro strascichi. Da tale idea di autonomia da Mosca, sulla falsariga jugoslava, venne fuori la proposta di Berlinguer di un “compromesso storico” in Italia, ossia la coalizione tra schieramenti socialprogressisti la quale recuperasse a beneficio del progetto l’appoggio di cattolici non conservatori e del PSI in direzione di una grande stagione innovatrice. L’intenzione non sortì unanimi entusiasmi né ebbe grande successo in termini di consenso elettorale. Dopo le elezioni politiche italiane del ’76 un governo monocolore della DC guidava il Paese grazie all’appoggio esterno di altri partiti, fra cui il PCI. Nel ’77 i comunisti di Berlinguer chiesero di partecipare direttamente al governo, ma la dirigenza democristiana e gli Usa si opposero. In mezzo alle difficoltà politiche di allora emerse un nuovo monocolore (di nuovo guidato da Giulio Andreotti) con esplicita maggioranza parlamentare costituita da democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti e comunisti. La marcia verso un più pieno ingresso comunista nel governo aveva un qualificato sostenitore in Aldo Moro, la cui tragica morte nel 1978 rappresenta una vicenda rimasta non molto chiara nella storia della Repubblica. Frutto di quegli anni Settanta carichi di spinte anelanti a una migliore giustizia sociale, in aggiunta al divorzio, all’aborto e allo Statuto dei lavoratori, fu nel 1978 il gratuito e universale servizio sanitario assistenziale statale (SSN) che correggeva la parzialità della “cassa mutua” prevista con la Legge Mariotti del 1968 e basata su un criterio assicurativo a pagamento. Nel ’79 i comunisti interruppero la loro organica collaborazione governativa ritornando all’opposizione. Iniziò allora, fra delusioni, una lenta agonia del PCI, culminata con la caduta del Muro di Berlino (1989), cui fece subito seguito la svolta della Bolognina proclamata dal segretario Achille Occhetto che annunziò il cammino di trasformazione del PCI nel venturo sostitutivo Partito democratico della sinistra. L’aggettivo/sostantivo “comunista” parve essere caduto in disgrazia, e il crollo dell’URSS accelerò il processo di metamorfosi. Il Partito comunista fu dunque sciolto nel 1991. Da tale operazione politica sorse il già detto PDS e, per dissenso e in contrasto, il Partito della rifondazione comunista. Prima che tramontasse la stagione della cosiddetta Prima repubblica, e si passasse alla legge elettorale maggioritaria (con quota di un quarto di proporzionale), il governo tecnico di Azeglio Ciampi insediatosi nel 1993 aveva contemplato al suo interno tre ministri del PDS (Visco, Barbera e Luigi Berlinguer). La loro partecipazione piena al governo terminò subito con impreviste dimissioni in segno di disapprovazione perché la Camera dei deputati aveva respinto quattro autorizzazioni a procedere su sei richieste dalla magistratura a carico di Bettino Craxi. Il primo vero tentativo di esperire il “compromesso storico” auspicato da Enrico Berlinguer durò quasi niente. Nel 1998-2000 il post-comunista dei DS (Democratici di sinistra, ulteriore evoluzione del PDS) Massimo D’Alema fu Presidente del consiglio dei ministri (vicepresidente Sergio Mattarella), governi sostenuti dal Partito dei comunisti italiani creato dopo una scissione dal PRC passato all’opposizione durante il primo governo Prodi. Nel secondo di quei governi D’Alema era stato incaricato quale sottosegretario alla difesa l’ex missino e fuoruscito da Alleanza nazionale Romano Misserville, il quale fu costretto a dimettersi subito per via di polemiche generate dalle sue simpatia fasciste e per aver paragonato D’Alema ad Almirante. La storia dei due ricordati governi Andreotti ebbe una sorta di vichiano ricorso ravvicinato con i due governi di Romano Prodi appoggiati dal PRC (1996-98 e 2006-8). Nel 2007 i DS si fusero con la centrista formazione politica della Margherita al fine di costituire il Partito democratico. Alle elezioni politiche italiane del 2008 la scelta del segretario del PD Walter Veltroni di non allearsi per le elezioni coi comunisti di Fausto Bertinotti (presidente uscente della Camera dei deputati) causò, in virtù del meccanismo elettorale l’uscita, perdurante, di un considerevole schieramento di esplicito e tradizionale richiamo marxista dal Parlamento italiano. Da quel momento a sinistra del PD soltanto alcuni piccoli partiti, non paragonabili al vecchio PCI, ai suoi consensi elettorali, e soprattutto alla sua impronta ideologica. L’era dei prodiani avvenuti, in un modo o nell’altro, determinanti “compromessi storici” (finché durarono) è scomparsa per l’assenza di un partito comunista di peso alle elezioni politiche. Prima della svolta di Occhetto uno su tre votava nel dopoguerra il PCI al Parlamento. Ai nostri giorni il consenso elettorale marxista si è enormemente ridotto. L’estromissione dei comunisti post-sovietici dalle aule di Camera e Senato è stata pressoché totale. Terminata questa prima sintesi possiamo passare alla seconda cui la suddetta è da sovrapporre al fine di ritrovare le analogie che ho indicato in partenza d’analisi. La Rivoluzione russa e la nascita dell’Unione sovietica nel 1917-18 rappresentano degli eventi chiave per la comprensione del primo dopoguerra italiano. L’avvento del fascismo al potere in forme via via graduali e sempre più esclusive all’inizio degli anni Venti, a mio avviso, non può essere classificata come un sintomo consequenziale di una crisi istituzionale del sistema liberale ereditato dal periodo post-unitario. Dal mio punto di vista si può parlare di una evoluzione tattica liberal-borghese mirante all’autoconservazione della classe sociale dominante degli industriali e dei latifondisti. A costoro era chiaro l’obiettivo di evitare una rivoluzione armata marxista pure in Italia. E perciò giocarono la migliore carta del momento, cioè quella di dividere lo sfaccettato schieramento delle forze politiche di sinistra allo scopo di contrapporre il segmento più propenso a compromessi coi borghesi ai rivoluzionari filocomunisti russi, i quali, con un’esperienza di avvenuto socialismo reale, costituivano davvero un terrificante per loro problema di tenuta sociale e politica. Non è stato il fascismo a conquistare il potere, è stato il sistema liberal-borghese a compiere l’unica mossa per sé intelligente, e a sacrificare, come direbbe Sun Tzu, assediato dal “pericolo rosso”, una parte del proprio potere a vantaggio di una sinistra non marxista, la quale era disposta alla collaborazione col vecchio apparato liberale, che i marxisti, rimasti coerenti, avrebbero invece voluto abbattere sulla falsariga russa rivoluzionaria. Non ci voleva gran che a sbarazzarsi dei fascisti. Il punto della questione era impedire che questi facessero fronte unito e unico coi marxisti. La borghesia italiana giocò il più classico dei machiavellismi: divide et impera. Certamente perse una fetta non indifferente di potere, ma restò in vita, tutelata entro quei nuovi strategici limiti. Le politiche sociali del fascismo furono dei realizzati progetti di “sinistra”. Se da un lato poterono rappresentare delle conquiste proletarie superiori al passato prefascista, dall’altro non lesero più di tanto i borghesi, i quali invece si ritrovarono una massa più acquietata e non sensibile ai richiami rivoluzionari marxisti. Il fascismo italiano fu un’esperienza politica governativa sui generis e irripetibile. Da un canto costituì un freno reazionario borghese alle “spinte rosse”, tuttavia da un altro – sempre in termini di politica sociale ed economica – rappresentò un progresso apprezzabile. Il fascismo è stato polimorfo. Ha messo in atto anche cose molto deprecabili quali le leggi razziali antisemite, l’entrata in guerra accanto alla Germania (con le sue nefaste conseguenze), l’invasione dell’Abissinia, lo squadrismo e – io aggiungerei tra l’altro – i Patti lateranensi. Avere resuscitato il Cattolicesimo a una riconosciuta e rinnovata dimensione politica statale, per me, è stato un grave errore mondiale2. Il fascismo perseguendo una linea anticomunista (in funzione della quale fu celebrato in Occidente a suo tempo) sbagliò pressoché tutta la politica estera. Se c’era una cosa che si doveva conservare del sistema liberal-borghese era la marcata separazione fra religione e politica. Aver riconsegnato alla Chiesa la dignità di Stato costituisce un errore sotto tutti i profili i cui effetti perdurano tutt’oggi. Non dimentichiamo che il Vaticano non intralciò le leggi razziali contro gli Ebrei in Italia, e quando il governo Badoglio le abolì ne chiese addirittura un mantenimento di alcune parti. A causa della misoginia cattolica Mussolini evitò di allargare il suffragio politico nazionale alle donne. Il fascismo, in quanto coagulo anticomunista, conteneva diverse anime: quella di destra evidente dei nazionalisti confluiti, quella dannunziana fiumana progressista, quella monarchica liberale massonica, quella dei post-marxisti (come Mussolini, Bombacci, e altri), e infine quella tardiva cattolica. In parole povere era come un dado. Ma la costruzione del “dado fascista” aveva una storia ordinata cronologicamente, ed ebbe la sua ultima faccia nella RSI. Alle elezioni politiche svoltesi nel ’19 un terzo dei deputati era andato al Partito socialista e un quinto al Partito popolare: il campanello d’allarme era suonato molto forte per l’apparato borghese, pressato a sinistra dai marxisti e a destra dai cattolici. Il problema principale però proveniva da sinistra, dove una magmatica area contemplava uno spazio rivoluzionario filosovietico di cui facevano parte Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, poi fra i fondatori, assieme a Nicola Bombacci, del PCI nel 1921. Gramsci in quegli anni dirigeva un suo periodico, l’“Ordine nuovo”, su cui promuoveva l’avvento di uno Stato comunista in Italia sul modello russo. Sosteneva ante litteram una sorta di “compromesso storico” antiliberale. Contestualmente a simili aspirazioni nello schieramento di sinistra marxista, fu dalla piccola borghesia che emerse una proposta diversa, sì non di richiamo fortemente proletario ma neanche di evidente derivazione altoborghese. I “Fasci di combattimento” costituitisi nel ’19 e guidati dall’ex socialista Benito Mussolini si prefiggevano in origine dei precisi punti programmatici in direzione di un migliore equilibrio sociale: colpire i redditi provenienti dal grande capitale e le proprietà religiose, tutelare i lavoratori attraverso un limite orario alle prestazioni d’opera e all’introduzione di salari minimi, garantire l’inserimento operaio negli organi di gestione industriale (quest’ultimo aspetto – la socializzazione delle imprese –  connotò la sansepolcrista Repubblica di Salò). I liberali provarono a formare nel 1919-21 dei governi assieme ai socialisti, una specie di “grande coalizione”, cosa cui il PSI rimase sordo altresì in occasione dell’arrivo mussoliniano. A tal riguardo è da rammentare l’indeterminatezza in quell’epoca di Pietro Nenni, più in là vicepresidente del primo governo di centrosinistra repubblicano presieduto dal democristiano Aldo Moro. Nenni fu in origine repubblicano, e, al pari del socialista Mussolini, interventista. Nel ’19 aderì brevemente al fascismo divenendo pure lui antimassimalista. Quando il 15 aprile 1919 la sede dell’“Avanti” fu assaltata e devastata da estremisti nazionalfascisti, Nenni espresse un plauso. Nel corso delle divergenze tra socialisti e comunisti, Nenni divenuto socialista sarà successivamente definito con astio un Mussolini in miniatura. Togliatti non mostrò in era fascista simpatie per Nenni, il quale in effetti nel dopoguerra assieme a Moro diede una grande spallata all’ideale di sinistra unitaria. Che fosse giunto a fare il Ministro degli esteri nel primo governo di Mariano Rumor la dice lunga sulla sua collocazione ideologica nazionale e internazionale. L’azione politica gramsciana nel primo dopoguerra in virtù, tra l’altro, dei destabilizzanti effetti ricercati, spinse la grande borghesia, delusa dall’azione di contenimento liberale governativo, a ripiegare sui fascisti. Industriali e latifondisti sostennero pertanto le famose “squadre” contro i marxisti e i loro seguaci proletari. Il progetto di usare un pezzo di sinistra non marxista da anteporre ai filorivoluzionari era entrato all’opera con lo stesso uso della violenza previsto da un contesto di sovvertimento non pacifico quale quello avuto luogo in Russia poco prima. L’uccisione della famiglia dello Zar era un fattaccio vivo nella memoria monarchco-borghese, assieme agli altri fenomeni di violenza rivoluzionaria. Lo “squadrismo fascista” agì, in maniera ingiustificabile e ovviamente da condannare, in modo omogeneo e in funzione preventiva filoborghese. Lo squadrismo pregovernativo diffuse terrore e violenza antimarxista su ampia scala, fatti nella loro qualità (non estensione) riallacciabili in linea concettuale poi a eventi quali la strage di Portella delle ginestre e l’attentato a Togliatti. Nel primo dopoguerra l’ordine istituzionale monarchico-borghese lasciò il “lavoro sporco” all’“opportunismo fascista”. Il PNF nato nel ’21 abbandonò la esplicita precedente vocazione ideologica di sinistra: era sorto il partito fascista dalle diverse contraddittorie anime. Pure la Chiesa, oltre a tutto l’Occidente russofobo, finì per benedire il “fascismo monarchico”. La frantumazione del PSI in tre tronconi autonomi (comunisti di Gramsci e Togliatti, vecchi socialisti tradizionalisti di Nenni, socialisti riformisti di Matteotti) completò un quadro in parte spontaneo e in parte ricercato di globale “divide et impera” esercitato sulla sinistra dai liberal-borghesi. Alle elezioni politiche italiane del ’21 liberali, nazionalisti e fascisti si presentarono alleati e uniti nel “Blocco nazionale”. Le tensioni e lo scontro sociale provenienti dalla dicotomia borghesia/proletariato continuarono nel frattempo a crescere, il che promosse il boom fascista dei consensi antimarxisti. Alla fine del ’22 i fascisti consapevoli della loro reale forza politica idearono quella che in effetti risultò una messa in scena: la Marcia su Roma. Il re Vittorio Emanuele III non firmò il decreto proclamante lo stato d’assedio emanato dal governo del liberale Luigi Facta (il quale Facta voterà di lì a breve la fiducia parlamentare al governo Mussolini). Il re quindi, nella cui persona, a norma statutaria, risiedeva il potere esecutivo e di nomina del Capo del governo, diede l’incarico di Presidente del consiglio dei ministri a Benito Mussolini. Avrebbe potuto legittimamente potuto revocargli la nomina in qualsiasi momento prima del luglio del ’43, quando per giunta un Mussolini appena dimessosi fu arrestato e in seguito liberati dai Tedeschi. Giunto a questo punto dell’analisi in merito al secondo segmento storico esaminato eviterò di essere ripetitivo ricalcando cose che ho detto altrove parlando del fascismo. Rinvio perciò il lettore ad altri miei scritti riguardanti la dimensione di sinistra del fascismo3. Essendo ormai arrivati al tratto conclusivo del percorso argomentativo tengo qui a evidenziare altri contenuti. Il ’900 italiano rappresenta un pezzo di storia europea e mondiale in cui il faro ideologico dominante è stato costituito dagli USA. Il capitalismo americano in seguito alle due guerre mondiali (le quali io considero una unica “peloponnesiaca” contesa intestina capitalistica) che hanno visto uno scontro di fondo tra Americani e Tedeschi (la cui rilevanza Jack London aveva intuito in principio del secolo XIX) ha indicato la via a tutto l’Occidente. E tale via è sempre stata di rifiuto e di chiusura nei confronti del marxismo. L’Italia ha fatto parte di simile schema. Dal punto di vista statunitense lo sbaglio epocale del fascismo fu quello di allearsi coi Tedeschi, desiderosi di rivalsa dopo la sconfitta nella Grande guerra. Come non dimenticare le grandiosi celebrazioni negli USA degli aviatori fascisti in occasione della seconda crociera atlantica di Italo Balbo nel 1933? Il fascismo ha sfidato il capitalismo americano dopo Pearl Harbour e ha perso la guerra. È finita così quella sui generis coabitazione tra borghesi italiani e vocazioni di sinistra del fascismo durata in Italia per un ventennio. Nonostante tutti i danni causati e i tragici errori compiuti è difficile non riconoscere all’azione fascista nel settore socioeconomico una vocazione di sinistra (pensiamo ad esempio ancora alle osservazioni di Antonio Pennacchi). Io credo che al di là di simile specifica e circoscritta esperienza fascista nel campo dell’economia, in virtù dello Stato etico, non ci sia stato nient’altro nella storia italiana così poderosamente, e concretamente, di sinistra (non trascuriamo che Lenin aveva ammirato il socialista Mussolini). L’IMI e l’IRI sopravvissero alla caduta del fascismo lungamente, smantellati da politiche liberiste. Secondo me, non è iperbolico ritenere che il fascismo sociale monarchico e infine quello sansepolcrista repubblicano di Salò abbiano contribuito a creare dei precedenti in favore di una presa di coscienza popolare, i cui germi autenticamente socialisti siano sopravvissuti e trasmigrati idealmente nella base del più grande partito comunista dell’Occidente, che è stato il PCI. Il regime fascista non pose in subalternità ideologica la massa del popolo nei riguardi di un primato d’azione imprenditoriale liberista. La guerra partigiana del 1943-45 fu la nemesi marxista sopra l’epoca dello squadrismo degli anni Venti. Penso che la suddetta consapevolezza di poter attuare in Italia politiche socioeconomiche di vera sinistra sia alla base dell’attivismo comunista post-bellico. Altrove non avevano la diretta percezione di una apprezzabile fattibilità avvenuta. Comunque sia la mia personale idea sul tema centrale della dialettica liberalborghesi/socialcomunisti è la seguente, e ragiono da simpatizzante del giustizialismo peronista4. La proprietà privata se priva una parte dell’umanità e della società del diritto alla partecipazione a condizioni di benessere di base, di cui garante la comunità statale, si mostra indubitabilmente nella veste di nocumento a degli esseri umani. Pare proprio che sostenere in astratto un diritto universale senza tener conto degli effetti collaterali concreti non sia saggio: saggezza sta nel dare a seconda dei casi in base a bisogni e meriti. L’esclusivo, altresì pratico, primato di questi ultimi entra in conflitto con il sistema costitutivo statale, un consorzio della razionalità: si rivela irrazionale ammettere che l’insieme dei cittadini sia vincolato in previsione positiva di notevoli sperequazioni, anche a livello internazionale. Infatti, chi reclama una minore presenza dello Stato, proclama il desiderio di giocare la partita senz’arbitro. L’eccesso di accumulazione della ricchezza in poche mani, non pubbliche, rappresenta qualcosa da evitare affinché non ci siano in assoluto sacche di povertà nel mondo. Se è ragionevole prevedere dei tetti all’arricchimento individuale, è compito dell’apparato statale, super partes, tradurre nella realtà concreta tale principio di giustizia sociale, non meno importante di quello della libertà. Qualsiasi abilità imprenditoriale non può vantare il diritto a tramutarsi in vampiro a scapito di tutti. Nel momento in cui la proprietà privata sottrae indebitamente spazi di benessere a una più equilibrata distribuzione sembra doveroso intervenire: liberté, ma anche égalité e fraternité. Il principio di solidarietà sociale, alla radice della fondazione dello Stato, merita dal canto suo una più efficace applicazione legislativa.




NOTE
 
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Storia e pensiero”
 
1 Per un iniziale approfondimento sulla Repubblica sociale italiana indico un mio studio: L’utopia della RSI contenuto nella mia monografia La morte delle ideologie (2011).
 
2 Sia pur brevemente, è doveroso dare un mio accenno di spiegazione a simile affermazione. Una considerevole parte delle mie indagini scientifiche si è concentrata sulla storia e sulla letteratura cristiano-cattoliche. Ho raccolto svariati elementi che mi inducono a giudicare largamente negativi l’azione e il pensiero della Chiesa nella società. Indico qui appresso alcuni miei lavori, che mi sembrano significativi in funzione di eventuale approfondimento, dove argomento con chiarezza e profondità obiettive: Parricidio dantesco (2021), Teologia analitica (2020), L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017), Il Medioevo futuro di George Orwell (2015). Dentro all’altra mia opera intitolata Letture critiche (2019), Il machiavellico disegno della “follia” erasmiana.




 
3 In aggiunta a quello già menzionato nella nota precedente: La democrazia corporativa, sempre contenuto nella pubblicazione là ricordata; Mussolini, il fascismo e la borghesia, quest’altro invece presente nel mio saggio Note di critica (2017).

 
4 Per approfondire il peronismo suggerisco dei miei studi al’interno della mia monografia indicata nella nota 1: Il giustizialismo peronista e La Fondazione “Eva Perón”.