di DANILO CARUSO
Il n’y a de délicieux au monde
que les jouissances despotiques;
il faut violenter l’objet que l’on désire.
D. A. F. de Sade, “La nouvelle Justine”
Il “Fermo e Lucia” di Alessandro Manzoni
(1785-1873) è un romanzo che costituisce il primo stadio (1823) da cui si
evolverà la versione ufficiale de “I promessi sposi” (1827), poi di nuovo
rivista sotto il profilo linguistico a beneficio della lingua italiana
toscaneggiante (1840). Il manoscritto del 1821-23 fu integralmente pubblicato
nel 1916 a cura di Giuseppe Lesca dalla Società anonima editrice Francesco
Perrella a Napoli. Da tale edizione provengono i pochi brani citati. A me della
prima originaria opera qua interessano solo gli aspetti concettuali in quanto
la mia analisi predilige i dettagli che più si prestano alla lettura
psicanalitica e ideologica. Nel primo tomo del “Fermo e Lucia” si avverte
subito un’aria misogina giacché l’autore definisce Lucia Zarella «donnicciuola»
e «di una modesta bellezza», lei e la madre «due donnicciuole», definisce
inoltre la donna in generale «persona di quel sesso terribile». Io giudico
riguardo a «modesta bellezza» che il Manzoni abbia voluto dire proprio che Lucia
non fosse molto attraente, e non che fosse dotata di un «ornamento [...]
quotidiano» di bellezza disadorna. Lui la sta descrivendo mentre ella indossa
l’abito nuziale, e mi pare che abbia affermato che senza di quello (e tutto il
correlato matrimoniale) non fosse gran che sotto il profilo estetico. Nelle
maniere retoriche della lingua italiana l’aggettivo preposto al sostantivo
assolve a un compito assoluto di descrizione (la bellezza di Lucia è modesta),
quello posposto circoscrive, differenzia crea un’opposizione di unità (sarebbe
stata “la bellezza modesta di Lucia” antitetica alla “bellezza immodesta”:
Lucia sarebbe stata bella, ma semplice). L’aggettivo preposto si comporta come
un moltiplicatore: rende positivo o negativo in assoluto, in astratto, il moltiplicando
senza andare a fare paragoni, confronti. Nel merito strettamente semantico
dell’aggettivo usato dal Manzoni va ricordato che questo deriva dal latino
“modestus”, a sua volta proveniente dalla radice di “modus” (misura,
moderazione, maniera). In italiano “modesto” allorché non funge da predicato di
persone, bensì di qualità, possiede il comune significato di “mediocre”. Il
Manzoni avrebbe detto di Lucia parafrasando: di una mediocre bellezza. Rimane
ovvio che non si può escludere una predicazione aggettivale sopra qualità
astratte o fisiche espresse in un sostantivo cui si voglia attribuire
“l’esercizio della modestia (traslata coscienza della personale limitata
altezza)”. Però se volessimo parlare di un’intelligenza che fa professione di
modestia pare meglio dire: un’intelligenza modesta. E non dire: una modesta
intelligenza. Perché nell’ultimo caso l’impressione, con l’aggettivo preposto
sembra tutta concentrata sulla “mediocrità assoluta in sé”, senza procedere a
distinzioni puntuali. Est modus in rebus, ma nel caso di Lucia non est modus in
beauty. Costei si mostra una ragazza molto legata alla religione cattolica, ha
assorbito il nevrotizzante indottrinamento di base. Agisce e parla consapevole,
rassegnata, contenta (?) di stare in serie B nel mondo cristianizzato. Il
Manzoni apprezza simile modestia (virtù) e proclama: «Noi amiamo Lucia come
cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie». Il che si rivela una
rinnovata perla di antifemminismo. Ci ha detto che non sembra attraente, ha definito
le donne terribili, l’ha chiamata (assieme alla madre) donnicciuola.
Quest’ultimo termine è spregiativo: indica in senso lato soggetti volti al
pettegolezzo e/o imbelli. Ecco cosa sono le donne agli occhi dell’autore de “I
promessi sposi”. Il secondo tomo del “Fermo e Lucia si apre con un ragionamento
manzoniano preciso. L’autore disapprova le descrizioni vive e particolareggiate
degli amori nelle narrazioni giacché potrebbero stimolare la fantasia e
l’interesse non appropriati di uomini di Chiesa. Le disapprova in generale
ritenendole fuori luogo nel contesto di una morale comune la quale in queste
passaggi letterari vuole attenta alla censura di contenuti apertamente
sentimentali ed erotici. Fin qui niente di strano nelle postulazioni di uno
scrittore cattolico (di qualsiasi epoca). La stranezza emerge quando incomincia
a parlare della Monaca di Monza presso il cui monastero è andata a finire la
povera Lucia. Abbiamo già capito che il non essere attraente di costei si
addica alle pie donne cattoliche. Mostrarsi donne attraenti costituisce un
problema davanti alla dottrina cristiana, in aggiunta alla già più semplice
questione di rappresentare porte dell’inferno. Un cappuccino ha accompagnato
Lucia e la madre dalla Monaca di Monza e gli ha chiesto di stare nel tragitto a
distanza di sicurezza da lui, preoccupato che «si vedesse il padre guardiano
con una bella giovane [subito correggendosi;...] con donne per la via». Lucia
non si è convertita in bella di colpo, è diventata porta del Diavolo tosto
associata alla madre nel «sesso terribile». Nella mente di questo cappuccino
l’aggettivo «bella» rimanda al piano semantico di “pericolosa”, non possiede
una valenza estetica bensì etica. Simile meccanismo di significanza viene
avvalorato dalla condotta narrativa manzoniana che si spende meglio a fondo
nella descrizione dell’aspetto della Monaca di Monza. Cito, tralasciando il
resto un piccolissimo brano il quale trasuda misoginia: «L’aspetto della
Signora, d’una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po’
conturbata, ma singolare, poteva mostrare venticinque anni». Il Manzoni ci
racconta il cammino di monacazione della Signora costretta dal padre, un
Marchese (una eco sadiana?), a seguire un destino religioso. Nella narrazione
della giovinezza di lei, contravvenendo in maniera plateale al principio della
censura enunciato poco prima, addirittura ci presenta, in guisa che
sinceramente disorienta, una Lolita: «A misura ch’ella si avanzava nella
puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non
comune agli anni della giovanezza». C’è anche alla vigilia della presa
definitiva dei voti il tentativo da parte di costei, dipinta orgogliosa e
passionale dal Manzoni, di un approccio amoroso verso un paggio di casa. Meno
male che lo scrittore milanese si prefiggeva di non suscitare pensieri
inopportuni. Nella dicotomia esistente tra Lucia e la Monaca di Monza l’autore
del “Fermo e Lucia” riprende quella sadiana fra Justine e Juliette. Tuttavia
inverte alla luce della sua gabbia mentale religiosa l’esito in rapporto al
successo. La storia della monacazione di Geltrude costituisce una vicenda di
violenza psichica perpetrata dal padre a scapito della figlia: uno scenario
sadico celato dietro gli interessi patrimoniali familiari. L’andare-dentro-una-struttura-religiosa
accomuna Lucia, Geltrude, Justine. Con la seconda che, facendo da contraltare
alla prima, rammenta Juliette. Geltrude è entrata in monastero malvolentieri,
forzata, violentata nell’animo. Chi è vittima di abusi porta seco un trauma che
può trasformare questa in un soggetto abusatore. Così è accaduto alla Monaca di
Monza, di cui il Manzoni ci informa che fosse cosciente di una sua superiore
avvenenza rispetto alle altre che la circondavano. Il cruccio di tale
privilegio estetico inutile in un luogo di isolamento religioso femminile ha
contribuito a inasprirne lo spirito. Perciò, divenuta docente delle fanciulle
ospitate per ricevere una formazione educativa, si accanisce sulla loro
naturale spontanea giovialità, volendo (a sua volta) praticare una sadica
azione. Ma questo tiaso di Geltrude non viene unicamente a vivere
nell’oppressione psicologica, e può rovesciarsi, in un meccanismo governato dal
bipolarismo, in uno spazio di discussione salottiero dove lei s’immerge e nuota
nei discorsi riversati. Simile oscillazione di comportamento di Geltrude appare
di evidente natura patologica, e derivante da un mancato equilibrio interiore
pregiudicato abbondantemente prima durante la sua vita familiare, la quale
contribuì a imprimere in lei la potenza di una psiche tirannica che avrebbe
sotterrato quella dell’indifesa e debole fanciulla sconfitta dalle circostanze.
Una psiche tirannica venuta fuori in monastero e legittimata dalle sue
prerogative di classe sociale alta. Il Manzoni ha affermato di non voler
turbare nessuno, però con la Signora ha aperto un romanzo psicologico molto
profondo, molto lontano dalle sue declamate direttive. Il convento, il
monastero, quali luoghi di trasgressione sono topoi sadiani: la Geltrude
manzoniana non vi risulta estranea. Diviene ella infatti l’amante di Egidio,
farabutto donnaiolo, abitante attiguo al monastero della Signora. Costei ha
accanto a sé due suore al suo servizio, le quali saranno inglobate nel sistema
della tresca. Una di loro prima di aderire a suddetto circuito aveva esternato
suoi sospetti in merito a carico della Monaca di Monza all’orecchio di una
compagna, la quale, sebbene poi rassicurata con la scusa di un presunto errore
di valutazione da parte della servitrice, ebbe l’ardire di mal reagire
all’incostante tirannica Geltrude minacciando di rivelare quei sospetti
all’autorità religiosa. La serva della Signora, secondo il piano convenuto dai
quattro con a guida Egidio, uccide la suora che rappresentava un pericolo per
loro, e il cadavere dal monastero viene trasportato e seppellito nella
confinante proprietà di e da Egidio. La storia di questi scellerati
organizzatori di un assassinio, con occultamento del corpo, tinge di tinte
oscure e forti questa sezione del romanzo, il quale predilige il dilungarsi in
ricche descrizioni dei caratteri negativi. La caccia a Lucia e il suo
rapimento, prima fallito dai bravi del nobile spagnolo, poi riuscito sotto
l’egida del Conte del Sagrato, cui l’altro si è rivolto ad hoc, a me ricorda un
po’ quegli inseguimenti di sadico svago messi in atto in “The sound of his
horn” di Sarban1. La povera Lucia in simili momenti del romanzo pare
proprio una di quelle vittime travestite da animali alle quali viene data la
caccia quasi fossero volpi. Il sadismo velato e soft del “Fermo e Lucia”
convive con la misoginia. È lampante la guisa in cui Lucia e Geltrude (Justine
e Juliette) vengano indicate quali cause di mali. Le donne sia che si sposino,
sia che si facciano monache, sono, in tale quadro manzoniano, possibile origine
di sviamento per gli uomini. Fermo vuol unirsi in matrimonio a Lucia, però
costei muove l’interesse di Don Rodrigo. Qualcosa di analogo accade col
personaggio di Geltrude. Se la Signora non avesse avuto un amante, Lucia
sarebbe rimasta nel di lei monastero poiché Egidio, amico del Conte del
Sagrato, da questo messo in azione alla volta del rapimento della ragazza, non
avrebbe potuto persuadere la Monaca di Monza a farla uscire dalla struttura con
l’obiettivo di catturarla. Come si vede le donne sono ianua Diaboli. Le uniche
buone sul serio devono navigare nel medesimo canale della Zarella. Il Manzoni
ci dice che Lucia mena sempre seco il rosario, e che, prigioniera, calandosi
nei panni di una martire cristiana la quale non ha voluto cedere al suo pagano
amoroso pretendente, ha rivolto voto alla Madonna di castità purché questa la
faccia uscire salva da quella circostanza. Tale si rivela la donna comune
ideale del Cattolicesimo manzoniano: colei che rinunzia alla contaminazione
sessuale. E, al pari di una rivestita di santità, Lucia riuscirà a mettere in
crisi l’animo del suo carceriere, il quale attraverso di ella prenderà
miracolosa coscienza delle sue scelleratezze: percorso surreale, acrobatico,
alquanto fantastico. Vedo nella giovane promessa sposa il simbolo dell’“anima
junghiana” dello scrittore milanese. Il trattamento riservato alla nubenda nei
frangenti del rapimento, della prigionia e della liberazione, sotto un profilo
psicanalitico dinamico mi ha rievocato l’eutanasia di Mabel Brand in “Lord of
the world”. Là, ho spiegato, nel mio pertinente saggio bensoniano2,
essere costei il simbolo dell’“anima junghiana” di Monsignor Robert Hugh
Benson. Questa in punto di morte riceve la grazia dell’illuminazione divina, e
di una conseguente conversione in extremis vitae. Io ho meglio chiarito che si
maschera invece il complesso nevrotico il quale assediava l’Io dell’autore
inglese. Parallelamente qua col Manzoni notiamo un imbrigliamento psichico
della parte di contraltare sessuale, ma senza che si persegua un cammino
estremo e irrimediabile. Al Manzoni le donne interessavano, a Benson no: il
primo ha potuto frequentarle e sposarsi due volte, il secondo era congelato
dentro un voto di castità. Pertanto a differenza di Mabel, Lucia sopravvive.
Però lo fa imprigionata nel binario nevrotico manzoniano. Quel voto di castità
della sposa promessa sta per un tentativo di “suicidio bensoniano” (mi
riferisco alla vicenda della moglie di Oliver Brand, non sto parlando di azione
dell’autore inglese). Lucia, anima junghiana manzoniana, si pone sotto scacco
(nevrotico) in attesa che un agente nevrotico eviti il matto in maniera
inequivocabile: Manzoni non vuol perdere la donna a fine sessuale, Benson non
poteva e dunque ha eliminato Mabel. Il voto di castità di Lucia, sentitasi in
pericolo, si mostra il frutto di una mente masochista oppressa da un dominante
sadico. Fermo, che il Manzoni ha definito «minchione», ritrova in conclusione
colei, la sua promessa sposa, la quale io ho ritenuto masochista. Ella oppone
alla rinnovata prospettiva nuziale di lui il proprio voto di castità rivolto
alla Madonna, di cui sopra. Sarà Padre Cristoforo a scioglierlo e a restituire
ai due sposi promessi la strada del matrimonio. Uno sguardo ingenuo direbbe:
tutto a posto. Per me, no. Il frate ha compiuto un atto gravemente
dissacratorio nel cancellare un impegno (positivo) di peso superiore nei
confronti della Vergine, un impegno seguito il quale aveva rimosso quello nei
riguardi di Fermo. Il voto di castità di Lucia correlato a ottenimento di
miracolo non può essere sciolto senza sacrilegio. V’è più di un motivo
teologico per dire che Padre Cristoforo abbia compiuto un atto sacrilego
paragonabile alla celebrazione eucaristica tenuta da Padre Jérôme sopra ἡ πυγή di Justine. Posso aggiungere, a proposito della maniera in cui il cappuccino ha
liberato la masochista Lucia dal suo voto di castità, che così operando l’ha
riconsegnata alla sua dimensione di porta del Diavolo. Voglio riportare la
chiusura del manoscritto del “Fermo e Lucia”, dove la masochista protagonista
ci spiega “le sventure della sua virtù” (culminante, schiacciante analogia
Justine/Lucia): «Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e
aggiungeva sempre: “d’allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che
gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra”. Lucia
però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che
qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di
pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: “Ed io, che debbo io
avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a
cercarmi. Quando tu non volessi dire”, aggiunse ella soavemente sorridendo,
“che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te”.
Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse
che le scappate attirano bensì ordinariamente de’ guai: ma che la condotta la
più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono,
o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende
utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una
donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come
il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di
terminare con essa la nostra storia». Notiamo che sino alla conclusione la
bassa opinione patristica sulle donne non abbandoni il Manzoni. Ma poi
guardando il destino della sua Lucia (anima junghiana) non posso in extremis
sottolineare altra analogia sadiana: le donne servono soprattutto per scopi
sessuali, ecco perché Lucia non è finita col farsi suora (o restare nubile).
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio
intitolato “Sadismo e oscurantismo
religioso in Alessandro Manzoni”
1 Una mia analisi di questo romanzo, Il nazisadismo di Sarban fra spirito del tempo e spirito del profondo, nella mia pubblicazione Studi illuministi (2024).
https://danilocaruso.blogspot.com/2024/07/il-nazisadismo-di-sarban-fra-spirito.html
2 L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson, uscito nel 2017.
https://www.academia.edu/33666516/L_apologia_dell_irragionevole_di_Robert_Hugh_Benson