di DANILO CARUSO
Karl Marx ha il grande merito di aver
analizzato il sistema capitalistico di produzione e la società che lo esprime,
nel modo più consono all’oggetto d’analisi. Egli ha sondato il campo con un occhio omogeneo alla
materia, poiché ha
applicato la medesima forma mentis operante nel capitalismo. La cosa è
complicata a proposito della testa del pensatore di Treviri. Non posso
sbilanciarmi sulle sue misure di consapevolezza. La certezza, secondo il mio
modo di vedere, è che la formula sociale capitalista e il marxismo analitico
hanno una comune radice nel lontano Ebraismo antico. L’attivismo-volontarismo
giudaico attraverso il Cristianesimo (soprattutto protestante) giunse a gettare
le basi da un lato (Calvinismo inglese) del capitalismo odierno, e dall’altro
(Luteranesimo tedesco) di una tradizione volontaristica germanica, entrambe di
connotazione irrazionale. Si tratta di due canali sorti da identica sorgente,
entrati in conflitto a causa del più intenso tentativo di sopraffazione del
secondo a partire dall’Ottocento. Marx è un Tedesco di origine ebraica: ecco il
problema su citato della comprensione delle parti di influenze tradite dal
pensiero marxiano e della loro coscienza da parte dell’autore. Costui si
contrappone al liberal-capitalismo inglese in nome della superiorità di una scienza tedesca. A prescindere da cosa
si riferisse, ciò di per sé inserisce Marx a titolo pieno nell’irrazionalismo
volontaristico germanico che da Lutero, passando da lui, tocca Nietzsche e
Heidegger. Tale corrente contiene nel suo intimo l’attivismo giudaico, cui
Lutero ha dato abito tedesco. Adesso, dire quanto l’origine familiare ebraica
di Marx incida nella giovanile fermentazione delle sue idee non è facile.
Giudico detti due aspetti testé indicati imprescindibili, e a ognuno darei un
salomonico 50% di presa. Il primo campione del liberalismo inglese, John Locke, condivide con Karl Marx la
centralità conferita al lavoro umano, inserita in un contesto di esso il quale
definirei di res extensa (empirismo lockiano e materialismo marxiano). L’autore
de “Il capitale” nella sua celeberrima opera, in virtù della sua sintonia
analitica col tema che discute, è scientifico. Il filosofo di Treviri,
nell’ottica d’esame da me assunta, rielabora l’ontologia veterotestamentaria.
Quando Marx parla dell’attività lavorativa dà l’impressione di avere in mente
l’agire produttivo del Dio del Tanak. Quest’ultimo non crea ex nihilo (come
molti credono in disaccordo col testo biblico originale), trasforma, plasma la
materia che si trova davanti uscita dal caos (apertura dell’acqua, imago di
Grande madre, da Lui indipendente). L’uomo nella concezione marxiana, il
lavoratore, è un trasformatore di una realtà atomica. Nella visione del
filosofo di Treviri esiste un lavoro astratto, una prassi scevra di
connotazione specialistica (la quale però può determinare d’altro canto
l’essere strumento di benessere del prodotto). Il Dio del Tanak nella
produzione (non creazione) dell’universo svolge un’azione lavorativa in un arco
temporale definito. Nell’Antico Testamento tutto cammina a ridosso di una
linea cronologica progressiva; non esiste una prospettiva metafisica, né
immortalità di alcunché. Un’attività particolare di Dio è quella dove modella
una tselem (immagine, nella fattispecie statua di terra) di Adamo a cui soffia
la ruach (spirito) a conclusione del processo artigianale di determinazione di
una materia. Adamo, al cui riguardo non mi dilungo a chiarire altre erronee
traduzioni che lo riguardano perché non pertinenti1, incorpora nel
suo interiore la forza vitale (nel sangue),
la nefesh, la forma (l’anima in
senso fisiologico aristotelico: anima sensitiva) della vis (o se vogliamo
avvicinarci a Marx, di valore). Qua
osserviamo un vago e ancestrale quadro della futura reificazione umana nelle
varie tipologie di schiavitù. Le cose che ora risaltano meglio sono l’opera
lavorativa (propria di un Dio) e il suo svolgersi in una cornice di tempo la
quale lo misura. Coincidente con esse è il lavoro astratto in Marx: esso
risulta una sorta di cumulazione spinoziana di atti di singoli attori, i quali
si riducono alla fine ad accidenti di trasmissione della suddetta forza. Il
tempo quantifica il lavoro nell’opera di Dio, produttore di valore d’uso ma
altresì di scambio (pretesa di sacrifici, pure umani). Lo studio marxiano consente
di dire che IL TEMPO È DENARO. Il monismo attivistico di Marx si ricollega, nel
modo visto, al pensiero di Baruch Spinoza, Ebreo apostata, che pesò sulle
riflessioni di Hegel, il quale ultimo a sua volta contribuì in maniera, ritengo
più di facciata, all’edificazione del sistema marxiano. L’umanità marxiana è
una gelatinosa portatrice di prassi,
è una quidditas (la quale sostituisce il Dio del Tanak) da cui, mediante cui
gli esseri umani nella loro singolare esistenza fisiologica (haecceitas)
traggono origine. Ne “Il capitale” è scritto che quando «vien meno insieme al
carattere di utilità dei prodotti del lavoro anche il carattere di utilità dei
lavori in essi rappresentati, vengono meno quindi anche le svariate forme
concrete di tale lavori, le quali non si distinguono più, bensì sono tutte
ricondotte al medesimo lavoro umano, al lavoro umano astratto. Consideriamo ora
il residuo dei prodotti del lavoro. Nulla resta di essi tranne una eguale
fantastica oggettività, una pura gelatina di lavoro umano indistinto, cioè di
dispendio di forza lavorativa umana senza badare alla forma del suo dispendio.
Queste cose non stanno ormai che a rappresentare il fatto che nella produzione
è stata spesa forza di lavoro umano, vi è accumulato lavoro umano. E in quanto
sono cristalli di questa sostanza sociale a loro comune, esse sono valori,
valori di merci. […] Forza lavorativa umana allo stato fluido, cioè lavoro
umano, produce valore, ma non è il valore. Diviene valore allo stato gelatinoso
nella forma oggettiva. […] Il valore di una merce […] è […] gelatina di lavoro
umano indifferenziato». Lo schema antropogonico veterotestamentario ritorna.
Non è un’isolata tangenza in direzione del Tanak, tra quelle che è possibile
evidenziare nei riguardi di Marx e del capitalismo. Se per l’autore de “Il
capitale” l’umanità rimpiazza il Dio veterotestamentario, l’apparato
capitalista mantiene tale ruolo distaccato da una relazione di omogeneità con
la haecceitas. Nella lezione weberiana i borghesi liberal-capitalisti
protestanti calvinisti cercano attraverso il loro attivismo nevrotico il segno
esperibile nel successo imprenditoriale di una predilezione divina anticamera
di salvezza. Da ciò si sviluppa l’epifania capitalistica esaminata da Marx. Al
di sotto della lettura cristiana a 360°, weberiana e protestante, soggiacciono
suggestioni circoscrivibili al solo Tanak. L’attivismo-volontarismo ebraico
fornisce un modello originario nelle vicende di Giacobbe, il quale cerca di
imporsi (con successo) su tutti (uomini e Dio). Il risiedere della felicità, in
concezioni del genere, nella proprietà di beni tangibili, non lo dimostra
soltanto l’esempio di Giacobbe, ma inoltre quello di Giobbe: il Dio
giudaicocristiano premia i suoi prediletti gratificandoli grazie alla ricchezza
materiale. Nel sistema capitalistico i capitani d’impresa prendono il posto, a
seconda di come si voglia vedere la faccenda, o di Dio o di una casta di
sacerdoti. Resta assodato che ad avvalorare le merci è il lavoro astratto in
qualità di attore universale, accade però che sia nel capitalismo che nel
marxismo il lavoratore concreto viene squalificato nella sua umanità. Marx è
materialista; il lavoro astratto, la prassi è il vero soggetto della sua
filosofia, manca una visione spiritualista: l’esistenza individuale non è un
momento di una dialettica dove c’è una parte egemonica sopra una parte passiva
della realtà (tale criterio è diffuso nella mentalità semitica: pensiamo allo
stoicismo di Zenone di Cizio). Stessa impostazione d’approccio al tema sostiene
l’orientamento liberal-capitalistico. Gli imprenditori sono paragonabili a
degli Elohiym (pluralità di dei veterotestamentari) o ai loro sacerdoti, in
conflitto. Al fine di cogliere l’idea ricordiamo il confronto del profeta Elia
con i profeti di Baal. Un imprenditore nella circostanza in cui fosse esaltato
si sente un Dio/Elia: c’è un Elohiym (termine al singolare) il quale deve
trionfare. Qui l’esame si riallaccia alla dimensione della temporalità messa in
evidenza da Marx circa il lavoro astratto. Nella maniera esposta sopra il cosmo
ebraico è una realtà spaziotemporale, dove non esistono soggetti immortali. In
virtù di ciò la vera ricchezza è un lungo
tempo di benessere. Ritroviamo la radice di un mito capitalistico mediato
dalla nevrosi calvinista (Weber), ma pure il fatto che la misura della
ricchezza, del valore, è il tempo (sotto il profilo formale), e questo dal
canto suo ci restituisce l’idea marxiana sulla forma di valore che riconduce al
lavoro astratto e al tempo. In Marx e nel capitalismo IL TEMPO È DENARO, è la
dimensione fisica di produzione del valore. Siamo ora in grado di comprendere
ribaltando le posizioni soggetto-predicato il meccanismo inconscio del
capitalista: IL DENARO È TEMPO. L’accumulo di ricchezze in termini di denaro ha una sua logica nevrotica: il capitalista
non assomma un monte di soldi, accumula quote di vita per allungare la sua in
quanto Elohiym o da offrire in olocausto in veste di sacerdote (l’attribuzione
di una di simili due maschere dipende dal grado di delirio). Marx ha ben
scoperto un vampiro (la vita, la nefesh,
risiede nel sangue), tuttavia non ha
tematizzato le dinamiche intraviste da un’angolatura psicologica: la sua orbita
materialistica non glielo consentiva. È questo il suo limite strutturale:
analizza, sì, bene le cose però i suoi strumenti sono omologhi al problema e
non gli consentono di uscirne fuori bene. Era necessario un salto di qualità al
lui impossibile nei panni di pensatore materialista presocratico che concepisce
l’universo nel limite fisiologico dei filosofi ionici. La physis di Marx mostra
da un lato l’attività lavorativa astratta la quale si puntualizza in operatori
(accidenti di questa superficie superiore del reale che è l’umanità
indistinta), dall’altro un clinamen atomico inferiore di sottofondo. Siffatta
monade, un po’ spinoziana, alquanto semitica, è il Dio-umanità nevrosi
dell’autore de “Il capitale”, il quale osserva da un punto di vista diverso da
quello liberal-capitalista il medesimo attivismo-volontarismo su una res
extensa (chora e atomi). Il filosofo di Treviri contiene germi freudiani,
giacché se interpretiamo l’impulso attivistico in senso psicologico, secondo un
piano che rimane positivistico, otteniamo la libido teorizzata da Freud.
Peccato Marx non abbia avuto la forza intellettuale di una seconda navigazione, e rimanga prigioniero sotto il cielo della
physis. Egli ha capito tutto del capitalismo, il suo esame obiettivo è però
rimasto sul campo della res extensa, non è generalizzabile nei confronti di ciò
che capitalismo non è. “Il capitale” è una spinoziana ethica capitalis ordine geometrico demonstrata, dove l’ordo rerum assoggetta l’ordo idearum. Nella storia, ad esempio
non esiste lotta di classe in generale come suo asse portante. Nel mondo
capitalistico i capitani d’impresa, nell’accumulazione di denaro, succhiano, a
guisa di vampiri, vita (tempo) dei
loro subalterni dipendenti. Offrono ciò in olocausto al loro Elohiym da cui
sperano benefici (lunga vita e benessere) o a sé stessi, se il delirio
nevrotico è tale da farsi considerare un Dio (come quello del Tanak, il quale
esige sacrifici di valore, ossia
contenenti la nefesh anche umana). La dicotomia “Abele (intraprendenza,
attività non di rendita, impegno con rischio elevato) / Caino (rendita e lavoro
in agricoltura)” rappresenta nella sua allegoria il nocciolo della Guerra
civile americana, vale a dire dell’evento della momentanea vittoria ideologica
in Occidente del capitalismo. Il Dio veterotestamentario premia e predilige i
connotati attivistici di Abele. Marx non era uno psicanalista, sorvolò su una
possibilità di lettura non più vera della sua, ma più autentica (la quale fa
tesoro del suo lavoro). I lavoratori nel capital-marxismo non sono
significativi in sé e per sé, sono sempre ingranaggi della macchina produttiva.
Il filosofo tedesco rimprovera questo a tanti padroni imprenditori, noi
rimproveriamo ciò a Marx nel caso dello Stato socialista (unico padrone e
persistente dominus alienante). Antonio Gramsci parla del partito comunista
come di un moderno principe machiavellico,
trasformatore della realtà storica: il difetto sta sempre nell’imporre
all’umanità concreta (composta di interrelazioni) una cappa oppressiva e
omologante. Non esisterebbe libertà: una necessità, in fin dei conti
irrazionale, dovrebbe guidare il mondo. Marx non ha la luce della razionalità hegeliana, assume una necessità spinoziana (fato stoico). Egli si traveste da
profeta estremista, contestatore di chi ha tradito il Dio-umanità (una sorta di
Giovanni Battista). Non è affatto disprezzabile la rivendicazione di giustizia
sociale, tuttavia quello che c’è dietro il capital-marxismo è roba da mettere
sul lettino dello psicologo, non alimento di esagitate, innaturali, disumane
riflessioni, proposte, azioni. Non si può distruggere la Civiltà occidentale
allo scopo di risolvere i suoi mali. Una casta teocratico-sacerdotale e una di
profeti (Marx ne è capostipite in un Nuovo Testamento socialistico scientifico)
emergono nella proposta marxista di risoluzione della questione sociale. Anche
qua la cosa non è disprezzabile nella sua forma alfieriana: discriminanti nella
determinazione di bontà di un comportamento sono però le sostanze di cui si
informa. Rimediare a un male con miglioramenti per poi passare a un
peggioramento superiore al male di partenza non è buon acquisto, né un parto di
sana ragione. I lavoratori sono nello Stato socialista e in quello liberale
(senza vincoli adeguati) pezzi di una scacchiera: buttarla in aria e proclamare
“scacco matto” è una proposta insensata. Gli uomini sono legati fra loro da un
logos in maniera singolare immanente, l’ulteriore insieme di collegamento
intersoggettivo ha lì la
sua base. Esiste un inconscio collettivo junghiano, non una ragione universale
autonoma hegeliana, vera realtà di cui il resto è dispiegamento a tappe. Queste
figure o figurazioni sono figlie dell’intersoggettività. In tal senso, Marx ha
preso Hegel e Spinoza riportandoli alla Ionia di Anassimandro ed Eraclito. Il
materialismo atomistico rende degno l’autore de “Il capitale” dello spirito
positivistico ottocentesco, e la filosofia ellenistica epicurea gli consente di
fare un piccolo salto in avanti: di piacere (libido), soddisfazione di bisogni
discuterà Freud. Il valore d’uso guarda alla soddisfazione di un bisogno. Il
lavoratore è una macchina particolare. Un aggregato atomico informato dalla
nefesh fisiologica, equivalente allo schiavo aristotelico giudicato privo di
anima razionale: il capitano d’impresa o il partito comunista pensano in suo
luogo poiché costui non è all’altezza. Il Tanak non condanna la schiavitù. L’essere
servo di un padrone capitalista appare destino di subordinazione a un eletto da
Dio (la storia di Israele è altresì storia di imprese belliche). Lo schiavo
aristotelico collocato nella res extensa capitalistica è un animale che
cartesianamente si tramuta in macchina animata: siffatto è, o ritenuto se ci
fossero casi d’eccezione, il lavoratore al servizio del capitale. Pertanto gli
investimenti di capitale variabile e costante non fanno differenza ontologica: si
comprano macchine moventi altre macchine e materie. Ecco la reificazione del
lavoratore. Se poi vogliamo vedere l’argomento con lo sguardo di Freud possiamo
parlare di sfruttamento della prostituzione. Il capitalista acquisisce libido
deviata mirando alla sua soddisfazione mediante l’affitto di corpi. Quote di
tempo-libido vengono sacrificate da (complemento di origine, non d’agente)
quell’ente che le possiede al fine di produrre idoli (compare il carattere
marxiano della merce come feticcio). La merce è al pari di un’ostia consacrata. Il filosofo di Treviri
lo afferma a chiare lettere argomentando della forma relativa di valore (l’exemplum lega una certa quantità di
tela e un abito): «La forma di abito dunque, nel rapporto di valore in cui
l’abito è equivalente della tela, conta come forma di valore. Il valore della
merce tela è allora espresso nel corpo della merce abito, il valore di una
merce è espresso nel valore d’uso dell’altra merce. Come valore d’uso la tela è
un oggetto sensibile e diverso dall’abito, come valore è “uguale ad abito”,
perciò ha aspetto di abito. In tal maniera assume una forma di valore diversa
dalla sua forma naturale. Il suo essere valore si manifesta nella sua
uguaglianza con l’abito, come la natura pecorina del cristiano nella sua
uguaglianza con l’agnello divino». Egli, nel distinguere tra valore d’uso e
valore di scambio delle merci, rielabora la dottrina della consustanziazione
eucaristica di Lutero («I due fattori della merce»): simile prospettiva ci
ricongiunge alle anteriori radici concettuali giudaiche e pure alla cornice
weberiana protestante. L’idolo-merce ha reale valore nello scambio sennò il
gioco non sarebbe valido, e siamo in linea con Marx. L’imprenditore vende
l’idolo di sé o del Dio in qualità di feticcio (valore di scambio) per ottenere
denaro (sangue, vita, tempo). Se
l’idolo non contenesse il frutto del lavoro astratto non avrebbe quel valore
cui la nevrosi mira. Il lavoro salariato è olocausto che trasferisce la nefesh
al prodotto idolo, cosicché questo diventa magico. I proventi della sua vendita
sono denaro, il quale quel potere magico rileva nell’accumulo di capitale. Il
mercato capitalistico è un grande gioco nevrotico di società: il gioco degli
Elohiym in guerra inter se (personalmente o per mezzo di loro rappresentanti
sacerdotali). Vince il vampiro più
abile. Comunque, non tutti i concorrenti sono ascrivibili a suddetta categoria
di vampirismo, e fra chi vi è incluso
non ciascuno si comporta in modo esagerato. Non mancano filantropi tra gli
imprenditori che considerano l’umanità un fine in sé e non un ingrediente di
magia. La vendita procura piacere dal feticcio (valore di scambio,
soddisfazione libidica dalla prostituzione) all’imprenditore celebrante
un’apoteosi nel ciclo produttivo: olocausto del lavoratore che produce idoli la
cui vendita fa ottenere il tempo-vita-denaro-nevrotico-simbolico. In effetti
chi ha denaro
può disporre di trattamenti migliori i quali possono allungare la vita. Lunga e
prospera esistenza concede il Dio veterotestamentario (anch’Egli non immortale)
ai suoi fedeli. Marx trova ingiuste le sperequazioni, e nessuno può muovergli
appunti a tal riguardo: i vampiri
sono nemici dell’umanità. «Il capitalista è capitale personificato. La sua
anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico impulso vitale, quello
di valorizzarsi, di generare plusvalore, di assorbire con la sua parte
costante, coi mezzi di produzione, la più grande massa di pluslavoro sia
possibile. Il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo
succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia. Il tempo in cui
l’operaio lavora è il tempo in cui il capitalista consuma la forza lavorativa
acquistata. Se l’operaio consumasse per se stesso il proprio tempo a
disposizione, egli commetterebbe un furto verso il capitalista». Tuttavia non è
lecito applicare in risposta al problema gli identici strumenti di esso. Il
gioco di sfruttamento capitalistico non muta se gli Elohiym capitalisti sono
rimpiazzati dall’Elohiym socialista: sempre olocausti si richiedono. Simile
meccanismo mentale, nevrotico, di richiesta-offerta di un sacrificio (umano),
non è esclusivo, in questa forma, del capitalismo: è tipico dell’irrazionalismo
occidentale. Dal dettato veterotestamentario, alla Chiesa cattolica e a tutte
le inquisizioni cristiane (dalla morte di Gesù ai roghi di streghe ed eretici),
passa dal sistema capitalistico, e giunge alla Shoah. Il nazionalsocialismo,
una fabbrica del male, la cui ideologia e azione condanno fermamente, ha
operato secondo la logica (malata) ricordata. Un’irrazionale forza oscura ha
preteso sacrifici umani di milioni di Ebrei, un crimine contro l’umanità e la
civiltà universale che nessuno potrà mai rendere ammissibile o tollerabile. La
tradizione irrazionalistica e volontaristica tedesca, fondata dall’antisemita
Lutero, si contrappone in modalità nazionalistica al liberal-capitalismo
internazionalista. Il rapporto tra nazisti e comunisti fu ambiguo, come
dimostra la loro collaborazione durante il periodo intercorso tra il Patto
Ribbentrop-Molotov e l’inizio dell’Operazione Barbarossa. Sovietici e Tedeschi
avevano in comune l’ostilità all’asse capitalistico angloamericano, e
un’affinità attivistico-volontaristica alla base di questa avversione verso il
capitalismo filoinglese: tutto ciò li rese alleati seppur per breve tempo
(l’URSS non fu esente da antisemitismo interno). I concetti cardine del
pensiero marxiano (uomo e tempo) si sono reincarnati nel pensiero dell’antisemita
Martin Heidegger, prosecutore dell’irrazionalismo tedesco. Il di lui
inquadramento nichilistico dell’uomo (esserci) in un contorno di temporalità
(essere-nel-tempo) è conseguenza della filosofia marxiana. Heidegger è erede di
Marx. Ognuno di loro naturalmente elaborò un personale sistema, però entrambi
hanno un legame dialettico prossimo nel gran fiume irrazionalistico del
volontarismo germanico (Heidegger era il propugnatore dell’opzione esistenziale
della “scelta”). Se Marx è figlio spirituale di Locke, Heidegger lo è di Marx.
Nel secondo caso padre e figlio hanno avuto l’occasione di andare d’accordo un
po’ meglio che non nello schema della prima circostanza. La filosofia
heideggeriana critica il progresso della tecnica quale barriera a un senso
pieno della vita umana. Marx e Heidegger sono nemici della capitalistica
distopia alienante/velante. Tuttavia ad avviso dell’ultimo il rimedio al
problema spettava alla razza tedesca eletta all’uopo (a proposito di questo non
possiamo accettare né principi, né mezzi, né tanto meno azioni); ad avviso
dell’altro a una diversa razza eletta, quella dei lavoratori (organizzati dopo
la rivoluzione nello Stato socialista). Sebbene viviamo «nel tempo de li dei
falsi e bugiardi» a cui una mandria di pecore viene sacrificata, di Karl Marx
possiamo solo apprezzare la bontà della parte critica del suo sistema. Quanto
di lui diventa proposta di aperta sovversione, di azione violenta al di fuori
di legittima difesa dell’ordine e della giustizia, non può essere accolto nella
dialettica sociale e politica. Questione cruciale è comprendere e stabilire il
margine di razionalità. A ciò serve lo studio della storia, la quale i più non
conoscono. L’archetipo junghiano del capitalismo è negativo, come quello
dell’antisemitismo: essi gravitano in un’area psichica estroverso-irrazionale.
Il denaro è un simbolo correlato al primo. Compare nelle posizioni iniziale e
finale del ciclo capitalistico nella espressione marxiana D-M-D': il denaro
(valore di scambio) è l’obiettivo, la merce si appiattisce agli occhi del
capitalista al grado generico di idolo e di mezzo in relazione al suo scopo.
Questo è un modello produttivo malato, giacché il valore d’uso mostra la sua
facciata soltanto al consumatore, il quale cerca strumenti di benessere (non
trascuriamo che alcuni potrebbero essere finti e indotti nell’uso da strategie
manipolatorie: Epicuro muove tale appunto ai piaceri in modo chiaro). La
sequenza marxiana M-D-M indica un’economia di sussistenza, che è quella sana:
dove de facto conta il valore d’uso.
NOTE
I brani di Marx sono tratti da
un’edizione de “Il capitale” pubblicata da Newton nel 1996.
Per approfondimenti
http://danilocaruso.blogspot.it/2016/09/il-parricidio-marxiano-di-locke-figlio_29.html
Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica
dell’irrazionalismo occidentale”