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sabato 12 novembre 2016

LA BOÉTIE: IPOCRISIA BORGHESE O MARXISMO-LENINISMO?

di DANILO CARUSO

Étienne de La Boétie (Sarlat, 1530 – Germignan, 1563) è stato uno scrittore, di estrazione sociale borghese, della Francia rinascimentale, amico del connazionale filosofo scettico Michel de Montaigne (1533-1592), che conobbe a Bordeaux grazie al fatto di ritrovarsi entrambi consiglieri del parlamento di questa città. La Boétie è noto in virtù di un suo scritto di acuta analisi politica (“Discorso sulla servitù volontaria”), il quale ha avuto polimorfa fortuna nel tempo accreditandosi presso ambienti e pensatori non sempre fra di loro accostabili per affinità ideologica. La ribellione del 1548 nel Meridione francese, dove venne introdotta una tassa sul sale, e il suo violento soffocamento, che coinvolse la regione di provenienza dello scrittore di Sarlat, forse rappresentarono il movente della riflessione da cui scaturì tale opera (il cui terminus ante quem è il 1552; la laurea in materie giuridiche dell’autore risale alla fine del ’53). Il “Discours sur la servitude volontaire” ha un testo ambiguo suscettibile di due iniziali formali letture contraddittorie: una in chiave liberal-borghese e l’altra in chiave radical-popolare. La mia impressione è che questi due abiti mentali siano solo formalmente distinguibili nel pensiero e nel pamphlet laboetiani. Egli, nel modo in cui ricorda il suo amico Montaigne, non era un sovversivo, era invece un uomo di ampie e profonde vedute. Si comprende altresì il giudizio del secondo rinvenente nel testo una sorta di giovanile esercitazione: giudizio volto a moderare e mimetizzare il potenziale de facto anche eversivo del “Discours”, sfruttato subito dagli ugonotti i quali si erano impossessati del manoscritto, inedito mentr’era in vita l’autore. È lampante che tale opera non sia una ragazzata, l’argomento è molto serio. Reputo che Montaigne cercasse di non far passare l’amico nella qualità di rivoluzionario, veste che in effetti pare egli non avere, essendo, almeno in apparenza, un cattolico. Dopo aver perso il padre precocemente, uno zio prete s’era preso cura di lui. Fu allievo, nell’ambito del corso di studi universitari a Orleans, di una dotta figura, Anne du Bourg, passato al Calvinismo e perciò nel ’59 messo a morte. Credo che le condizioni storiche, sociali e culturali dell’epoca di La Boétie, carica di irrequietezza religiosa, non gli potessero consentire tanto in maniera netta di assumere una rotta da tra le due menzionate opzioni di costruzione a monte, le quali restano perciò aperte a una dimensione di possibilità pratica futura successiva alla divulgazione del testo. Non voglio neanche parlare di un La Boétie dal doppio volto rousseauiano. Egli precorre il Ginevrino: nel “Discours” si ritrovano elementi rousseauiani, a testimoniare questa viva tensione tra istanze sociali che possono in un secondo momento, più chiaro e distinto, entrare in aperto conflitto dopo essere maturate sullo stesso terreno. È il caso, sottolineato da La Boétie, della teorica rivendicazione del popolo, antagonista della monarchia assoluta e dei suoi sostenitori clerico-nobiliari, di un sistema di diritti naturali i quali consentano ai suoi membri di uscire dalla condizione d’inferiorità: basterebbe che ogni uomo di condizione servile si astenga dal prendere parte al meccanismo dell’oppressione affinché esso venga meno per cause endogene, «riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore». All’inizio la Boétie si mostra gandhiano, ma contraddirà poi l’esclusività di simile via con altri toni ponenti all’alternativa riformista e pacifica la possibilità di uno scavalcamento da parte di procedure rivoluzionarie violente. C’è un passaggio del “Discours” il quale (assieme ad altri) mi pare nevralgico, e che vale la pena di riportare e analizzare nei suoi precisi dettagli allo scopo di comprendere la forma mentis laboetiana, albergata da vari genuini semi (i quali hanno però prodotto in determinati casi della storia male piante). «La natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se 6) nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia 3) non per questo ha voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e 8) non ha certo creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un 1) affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque 7) questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un’unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse 2) riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande 4) dono della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una 5) comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di 4) stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di 5) averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e 2) a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo». 1) L’«affetto fraterno» del primo tratto, questo spirito di collaborazione sociale, mi fanno pensare a posteriori al giustizialismo peronista e all’escudo simbolo del partido dove due mani si stringono, a rappresentare la solidarietà tra gli uomini, davanti a un berretto frigio (tipico della Rivoluzione francese). 2) In questo brano La Boétie respinge l’idea di una liceità dialettica hegeliana servo-padrone. Però egli considera un’uguaglianza astratta, gli direbbe Hegel, la quale non fa i conti con la concretezza. E non è casuale che a predicare bene, e a razzolare male, i liberali francesi si siano meritati un’accusa di astrattezza: meritata, non nel senso dei critici, timorosi della reale forza razionale dei principi del diritto, ma perché questi rimanevano volentieri parziali (e detti critici patrocinavano siffatta prassi a prescindere dal riferimento teorico). La forza della ragione, dell’istruzione è molto pericolosa nei riguardi della tenuta di un sistema di potere discriminatorio e sperequativo. Il pensatore di Sarlat afferma questo nel “Discours”, e inoltre, 3) in disaccordo venturo con Hobbes, 4) ricorda lo Stato aristotelico imperniato sulla funzione del logos (pensiero-parola) che lega gli esseri viventi in una comunità logica, la quale comunque non si ferma lì: la vita è varia, non è astratta uguaglianza. Non sempre uguaglianza e giustizia coincidono, dietro il velo di un simile ideale si possono compiere le peggiori nefandezze. 5) La Boétie precorre anche il concetto rousseauiano di “volontà generale” e apre la sua rivendicazione della libertà a modelli totalitari: capitalismo pseudodemocratico e socialismo marxista. Il “Discours” ribadisce la razionalità del diritto alla libertà: «è impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. […] Se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?». Non è molto visibile l’orizzonte alla cui volta rema questa richiesta di libertà (si può vedere una monarchia costituzionale parlamentare, però niente impedisce di guardare oltre). La Boétie respinge l’illiberalità dello Stato ebraico veterotestamentario a causa dello status di sottomissione dove esso colloca l’essere umano (fa un’osservazione obiettiva, ma la condisce con non condivisibili toni antisemiti). In generale l’asservimento popolare produce le condizioni del suo mantenimento mediante un primo effetto collaterale. Conseguenza della servitù è la sua naturalizzazione. L’abitudine è più forte dell’indole libertaria agli occhi di coloro i quali ritengono «naturale la condizione in cui sono nati». Se La Boétie non concepisce una dialettica signore-servo sulla falsariga hegeliana, tuttavia prospetta una dicotomia aristotelica di sprone ai volenterosi: cittadini (esseri umani), sudditi (animali). Egli apprezza quel contesto sociale dove gli individui siano «allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare ognuno miglior prova dell’altro nel conservare gelosamente la libertà». E poi si chiede: «chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore trovandovi un popolo nato per servire […], riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di uomini per entrare in un parco di animali?». Nel “Discours” si invita alla comprensione nei confronti dei servi di un potere assoluto, giustificabili dalla loro non coscienza dello stato servile. La psicologia comportamentista sembra fatta per costoro, la cui essenza non è il logos bensì la fisiologia animale: «per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l’educazione. […] Tutto ciò cui l’uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale». Però subito dopo recupera il primato rousseauiano della «natura semplice e schietta». Al pari di Rousseau bisogna rimediare alla corruzione dell’indole naturale, tuttavia in maniera più razionale che sentimentale. Lo scrittore di Sarlat, seguendo ovvie motivazioni propagandistiche, usa una comunicazione calda la quale dà risalto al sentimento di libertà anziché al suo concetto, il quale pone scontato e acquisito. A proposito della coscienza della servitù il protoilluminismo laboetiano è canonico: «si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui […] non riesce a dimenticare i suoi naturali diritti. […] Sono proprio persone di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell’avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi». La degenerazione della massa (animale) porta con sé un altro effetto collaterale della servitù: «con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio. […] La gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, […] possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande. I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa direzione così da renderli ancor più fiacchi e indolenti. […] I tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé alcun uomo di coraggio. […] Questa è la tendenza naturale della plebaglia […]: sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a tutto verso chi l’inganna». Il “Discours” nonostante non parta da uno schema sociologico interpretativo paragonabile alla figura hegeliana servo-padrone non può far a meno di constatare una paura di perdere la vita da parte del servo nella sua mancanza di coraggio. I servi nella valutazione di La Boétie sono perfetti interdetti, incapaci di intendere e di volere: «è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull’istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, […] e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri». In questi brani compaiono un paio di suggestive immagini poi ricomparse in futuro: Marx e l’oppio del popolo, Kant e la culla degli uomini. Lo scrittore di Sarlat fa pure un esplicito richiamo alla “Repubblica” platonica di cui già in 6). A ciò segue un brano sibillino il quale potrebbe spostare l’autore francese verso un’ipotesi di comunismo: «quegli sciocchi non si accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati». I «propri beni» sono allusivi di una comunione proprietaria generale cui si alluderebbe in 7)? Uno spirito marxista ante litteram lo si può rintracciare nella critica alla religione quale sovrastruttura e supporto del potere assoluto. La Boétie bersaglia coloro che «decisero di mettersi davanti la religione come scudo», una «aura di mistero»: dal canto suo «il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere». Il riferimento religioso è rivolto contro la monarchia assoluta per diritto divino. La strategia di controllo e dominio, degna della psicologia comportamentista, è colta in maniera lucida e precisa dall’analisi laboetiana: «non s’è mai dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all’obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante». Animali codardi vengono inoltre oppressi da chi gode benefici dalla tirannia, benefici da cui viene attratto: «appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, […] tutti coloro che sono posseduti da un’ambizione senza limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande». Consideriamo alcuni esempi: la burocrazia sovietica criticata da Trotzkij (pensiamo al romanzo “We the living” di Ayn Rand); e in genere i raccomandati, sovvertitori del diritto naturale, e i parassiti nel pubblico impiego i quali divorano la ricchezza della nazione con la finzione di lavoro a danno delle imprese private gravate da tassazione eccessiva mirante al clientelare mantenimento dei primi (la ricordata rivolta del ’48 è conseguenza di storture simili). Un poco più avanti nel “nel “Discours” si abbozza una vaga prospettiva di marxiano scontro di classe: «il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri». Questo machiavellico divide et impera tirannico può essere impostato in tale direzione sino a giungere all’esplicita concezione di lotta sociale inter classes elaborata da Marx. Personalmente penso che il filosofo di Treviri abbia generalizzato oltremodo considerazioni simili a questa di La Boétie1. Nel “Discours” abbonda una retorica antitirannica laddove si fanno esempi storici (Giulio Cesare, Nerone, etc.). Non condivido, parimenti allo schema marxiano di interpretazione del cammino storico, la difesa laboetiana della vecchia repubblica senatoria romana (costruita su un’oligarchia latifondista). È comprensibile che nei passi qui interessati del “Discours” sia più saliente l’aspetto retorico. Durante il periodo di formazione di La Boétie, il vescovo della sua diocesi (con sede nella città natale Sarlat) era un umanista promotore della riscoperta dell’antichità classica. Mi pare improbabile vedere un’apologia dell’oligarchia borghese in tale richiamo storico nello scritto laboetiano. La Boétie indica con chiarezza solo i protagonisti negativi del problema: il clero, la nobiltà, la monarchia assoluta. In ciò c’è una junghiana profezia di rivoluzione. Chi sia il reale soggetto della sua rivendicazione libertaria non lo dice altrettanto con chiarezza: la borghesia emergente o il popolo? Appare evidente che la massa abbia necessità di una guida liberatrice, e come sosteneva Lenin questa debba essere un’oligarchia illuminata, un’aristocrazia di stampo platonico. Nell’enigmatico prisma del “Discours” troviamo una faccia marxista-leninista. Credo tuttavia che tutte le potenziali facce prestantesi allo spirito del tempo debbano avere nello spirito del profondo un campo unitario che offra coerenza di senso al pensiero laboetiano. A mio avviso è lo stesso autore di Sarlat a mostrarci qual è la sua chiave di lettura: la ragione, il logos. Questa sua dote, la quale gli consentiva di scegliere la via aristotelica del giusto mezzo, gli aveva guadagnato nel ’60 la molto delicata incombenza di farsi portavoce, per conto della monarchia francese, presso cattolici e calvinisti interni, di diverse azioni volte a ricercare una pacificazione. Il suo capace operato contribuì a far trovare un momentaneo accordo. Editto di Saint Germain del ’62: niente più persecuzione dei protestanti, però limitazioni alle manifestazioni di culto. L’umanista Nicolò Gaddi, vescovo di Sarlat, era imparentato con la Regina madre, la reggente di Francia Caterina de’ Medici: fu così che la moderata condotta laboetiana nella sua esperienza amministrativa a Bordeaux, dentro un’istituzione in mano ai cattolici persecutori, emerse all’attenzione della corte quale requisito idoneo per l’attribuzione di quel compito di mediazione. Nell’equilibrio ritroviamo il significato del messaggio di La Boétie. Perciò nel “Discours” il suo redattore non colloca percorsi futuri con eccessi liberisti o socialisti. L’anarchico tedesco Gustav Landauer (1870-1919) si è spinto addirittura a identificare il tiranno laboetiano con l’entità statale. Dal mio punto di vista di studioso razionalista La Boétie è a favore di una terza via, una tercera posición. Liberté égalité fraternité: libertà sin quando non ci sia offesa dell’umanità; uguaglianza di base di fronte allo Stato; solidarietà a difesa delle categorie svantaggiate. Il passaggio 8) del primo brano riportato è eloquente. Occorre dare alle bestie vigliacche l’opportunità di scegliere liberamente il proprio destino: se vogliono rimanere serve nonostante ci si sforzi di educarle e istruirle, non è bene nei confronti dell’umanità e della civiltà introdurre queste all’esercizio dei diritti politici come riteneva Aristotele (per inciso: il liberale John Stuart Mill riteneva opportuno dare potere individuale di esprimere un numero di voti differenziato a seconda delle capacità intellettuali). La Boétie lo afferma in modo nitido: il popolo ignorante viene tiranneggiato assieme ai boni viri. Non per niente egli parla di repubblica platonica (dove ognuno sta al suo posto senza nuocere al prossimo). La libertà è esercizio di una volontà non addomesticata. Alla grottesca ignoranza dei più e alla mediocrità dei presuntuosi non interessa poiché non è cosa che si mangia. Giustizia sociale significa dare a ciascuno secondo i propri meriti, dare a ognuno secondo le proprie necessità; rimuovere i disagi nella speranza che nessuno voglia rimanere servo idiota del più furbo di turno. Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere». Benché sappiano di filosofie ciceroniana e lockiana, La Boétie alla fine del “Discours” sostiene altre cose molto giuste: «il tiranno non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori ma con l’onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. […] Penso […] che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici». Le idee laboetiane di tolerantia e di liberalismo non hanno l’ipocrisia e la parzialità di Locke1. La Boétie auspicava una pacifica coesistenza fra cattolici e protestanti. La sua precoce morte, a causa di una malattia, privò la Francia, e l’intero contesto europeo, di una seria e matura voce la quale continuasse a richiamare gli spiriti impazziti alla voce della ragione (poi illuministica). Il “Discorso sulla servitù volontaria” fu tradotto e pubblicato in Italia nella Napoli repubblicana del 1799. L’esperienza della Repubblica napoletana costituisce uno dei più grandi esempi di quanto sostenuto da La Boétie nel “Discours”: il popolo preferisce la servitù volontaria allo sforzo intellettuale e all’azione eroica. Forse è un problema pedagogico. Il pensiero laboetiano è ricco di molti spunti, che guardano in tante direzioni perché il suo autore guardava il mondo con occhio profondo. La posterità non sempre ha colto la lezione del “Discours” nella sua integrità, ne ha mangiata una fetta alla volta. Gustare questa riflessione a 360° può ritornare utile allo scopo di valutare che cos’è la libertà dell’essere umano, a cosa serve, quali sono i suoi limiti. La Boétie capiva che le vere bestie non sono libere giacché sono schiave di un istinto naturale, e che chi non è libero da condizionamenti mentali e comportamentali è come un animale, servo di una natura estranea. “Il discorso sulla servitù volontaria” è un testo affluente di quel fiume che porta alla “Critica della ragion pratica” di Kant, il quale va compreso mantenendosi dentro questo bacino e bevendo quest’acqua.


NOTE

1 Per approfondimenti consiglio la lettura del mio saggio “Critica dell’irrazionalismo occidentale”

I brani del “Discorso sulla servitù volontaria” sono tratti da un’edizione pubblicata da Jaca Book nel 1979.


Questo scritto fa parte del mio saggio intitolato “Critica letteraria”
https://www.academia.edu/31561182/Critica_letteraria