di DANILO CARUSO
Materialism is in fact no protection.
Those who seek
it in that hope
(they are not a negligible class)
will be disappointed.
Clive Staples Lewis, “That hideous strength”
“That
hideous strength (1945)” è il testo che conclude la cosmic trilogy di Clive Staples Lewis. Le istanze e i temi svolti
nei precedenti due vi trovano una prosecuzione. Questo libro, ambientato in
Inghilterra, ha una trama che ricalca, a eccezione del finale, un iter
distopico. Protagonisti principali sono due giovani sposi, una coppia in cui il
marito è professore universitario: Jane e Mark Studdock. Costui viene attirato
a far parte del N.I.C.E. (National Institute of Co-ordinated Experiments) allo
scopo di poter così avvicinarne la moglie e di convincerla a mettersi al
servizio di un segreto cacoutopico progetto di riorganizzazione dell’umanità
che tale ente, all’insaputa dell’opinione pubblica, sta cercando di portare
avanti. Il NICE è infatti la copertura ufficiale mediante cui una
ristrettissima e deviata élite intellettuale vorrebbe realizzare un nuovo modo
di esistenza umana1. Detto piccolo gruppo sostiene di fronte a Mark delle
idee le quali in alcuni brani del romanzo intrecciano un modello composto di
diversi aspetti distopici2: l’eugenetica, il condizionamento
formativo sulla falsa riga del “Brave New World” (Dick Devine alias Lord
Feverstone nel cap. II); la manipolazione, a opera di una coesa oligarchia filototalitaria,
dell’informazione pubblica alla maniera – ventura – di “1984” (cui Mark è
indotto nel cap. V da Miss Hardcastle); un non precisato procedimento di
correzione dei criminali in mano alla giustizia che pare un nebuloso preludio
del sistema di “A clockwork orange” (Miss Hardcastle nel cap. III); un
panlogismo più esagerato di quello della distopia zamjatiniana in “Noi”. Quest’ultimo
tratto è quello saliente nel racconto di Lewis. Nel cap. IV è il Reverendo Straik
a esporre al giovane Studdock la visione distopica animante il NICE. Nella sua veste
di religioso, gli parla dell’avvento di una nuova razionalità a guida dell’umanità.
Egli la identifica nella figura di Gesù Cristo, e chiama «Kingdom of God [Regno
di Dio]» questo futuro prossimo assetto. Dal pensiero di Straik possiamo
comprendere la meccanica psicologica della grande nevrosi sottostante alla
convinzione di tutti quelli prodigatisi a promuovere con ogni mezzo il primato
di un deleterio Logos. Ci rendiamo conto qui che il personaggio letterario di
Gesù, il Verbo incarnato di Dio, non è altro che un simbolo junghiano di una
deviazione nevrotica che ha fatto degenerare la funzione della razionalità,
nella sua relazione con l’essere umano, in una condizione di squilibrio, di
quasi completo isolamento nei riguardi di tutto l’arco costitutivo psichico
individuale. Se si persegue simile cammino, il logos (la ragione), in qualsiasi
orizzonte venga a collocarsi il tragitto (da quello più religioso a quello più
anticlericale: dal Cristianesimo al comunismo), diventerà lo strumento
operativo di qualcosa sfuggito a un sano controllo mentale alla volta della più
compiuta irrazionalità. Il Reverendo Straik è l’espressione di questo
smarrimento. Ovunque si perde l’equilibrio psichico sorgono problemi di
adattamento a una migliore superiore “normalità”. Egli si perde appunto dentro
la nebbia di un folle ideale che coglie la presenza e la volontà di Dio nelle
manifestazioni più eccellenti della razionalità. Portare il panlogismo alle sue
estreme conseguenze equivale ai suoi occhi ad accelerare la venuta del Regno di
Dio sulla Terra, con conseguenti premi e castighi eterni da distribuire a
tutti. Straik nel cap. VI sostiene una posizione che mostra tangenze col
cosmismo. La tematica junghiana inerente alla dialettica
“razionalità/irrazionalità” si accompagna in “That hideous strength” all’elaborazione
di un maggiore tessuto narrativo dove contenuti nevralgici possono essere
ricondotti a significative categorie interpretative della psicologia analitica
di Jung. Come anticipato sopra, il piano del NICE necessita dell’asservimento
di Jane Studdock. Il motivo sta nel fatto che ella ha il potere della veggenza.
Questo è un lato che attira l’attenzione sulle qualità della “femminilità” cui
Lewis ha dato spazio di riflessione in “Perelandra”. Nell’ultimo libro della
trilogia la materia indagata nel precedente viene ulteriormente chiarita. Qua
centrale si rivela il “processo di individuazione” illustrato da Jung, al punto
che è possibile definire “That hideous strength” un romanzo alchemico. Jane e Mark, sebbene siano dei letterari
soggetti umani, rappresentano “anima” e “animus” junghiani, i quali alla fine
del racconto chiuderanno il percorso narrativo con una sizigia. È indubbio che
costoro siano, nel contesto dell’opera lewisiana, oltre che simboli alchemici altresì delle persone
dotate di un “complesso dell’Io”: pertanto le loro vicende evolutive personali
attraversano delle dinamiche junghiane contemplanti quelle dialettiche tra l’Io
e l’“anima” o l’“animus” a seconda del sesso del soggetto. Che l’argomento del
“femminile” sia ancora, come in “Perelandra”, uno tra quelli portanti lo
testimonia il paragone che si può instaurare tra Miss Hardcastle,
soprannominata «Fairy [Fata, Maga]», e Jane. Nella prima la “femminilità” è
stata prosciugata da una maschile razionalità malata, e della donna non resta
che una rude corteccia esteriore. L’azione di un logos chiuso in sé ha
disgregato l’equilibrio dell’essere femminile in direzione di un soggetto che
non è “donna”. Un sottile monito attraversa “That hideous strength”. In più
parti l’autore rievoca un’idea che a primo impatto potrebbe apparire
maschilista e disorientare un lettore non propenso ad accogliere un cliché regressista.
Lewis parla, in qualche modo, di una subordinazione del “femminile”, di Jane,
da auspicarsi nei confronti del “maschile”, di Mark. In effetti, nei brani
pertinenti, una interpretazione superficiale potrebbe arenarsi su quella che apparirebbe
un’ingannevole forma mentis maschilista di stampo paolino. Credo che il valore
concettuale di quelle parole lewisiane sia posto in un livello più profondo di
quella ambigua facciata. A mio avviso, lo scrittore, nell’ambito di una
architettura narrativa e simbolica junghiana, non ha voluto esprimere un ordine
gerarchico di genere biologico, ma nel contesto del campo delle funzioni
razionali dell’individuo ha indicato, in maniera figurata, ciò che dovrebbe
essere il rimedio alla nevrosi maschilista al centro della promozione di un
Verbo il quale esclude una essenziale e complementare componente. Se su un
piano di simbolici concetti astratti il “maschile” è la “razionalità”, ritengo
che Lewis stia sostenendo che essa non può andare in subordine del “sentimento”,
ossia del “femminile”. D’altro canto appare altrettanto chiaro che le due
funzioni dell’asse psichico della razionalità, non potendo funzionare bene
isolandosi, debbano mettersi in collaborazione. In tal senso il “lume della
ragione” ha un primato, il quale non si può generalizzare sulla base dell’identità
sessuale giacché, come sosteneva Platone, tutti (uomini e donne) partecipano
del logos. Anzi si può dire che siano soprattutto gli uomini a rinunziare a
questa partecipazione. Lewis nel romanzo non sostiene un pensiero antiquato e
maschilista. Laddove si esprime in una guisa che sembra apparire equivoca
sostiene in realtà una sana idea. Egli non sta negando alle donne la
possibilità di uguaglianza di diritti con gli uomini: è lecito che queste
possano esercitare tutte le professioni. Tuttavia, sta sottolineando
sottilmente qualcosa che se colto nel verso, che a me pare giusto, rivela una
riflessione di grande saggezza. Le donne possono assumere tutti i ruoli svolti
nella società dagli uomini, ma sarebbe un errore pensare un bene che la “donna”
si metta a fare l’“uomo”: allora si ha l’aberrazione della violenta Miss
Hardcastle3. Un soggetto femminile ha la precipua potenzialità della
maternità che lo differenzia in maniera inequivocabile da uno di genere
maschile. In virtù di ciò, quantunque sia lecito e doveroso assicurare la
parità di diritti, non si può ragionare di una perfetta specularità ontologica.
E questo non vuol costituire negativo motivo pregiudiziale o discriminante,
tutt’altro. Compito delle donne è generare (in concorso) altri esseri viventi,
la più alta e più nobile missione naturale del “sentimento”. Obiettivi di una
“razionalità maschile” convertitasi in irrazionalità diventano quelli di
imprigionarli in un sistema totalitario e di ucciderli. La storia umana
testimonia largamente la diffusione di queste vocazioni nevrotiche laddove il
corretto esercizio della ragione ha ceduto il passo a quella che Jung ha chiamato
“ombra”. I peggiori comportamenti dell’umanità si rivestono dell’abito
“maschile”: se le donne sono madri, gli uomini sono uccisori. È innegabile che
la quasi totalità di coloro che abbiano torturato o ucciso un essere umano
siano maschi. Ciò fa capire che la razionalità non è un fattore di genere. In
“That hideous strength” riemerge lo spirito dell’antropologia greca antica
allorché Jane, al suo primo contatto con l’ambiente del filologo Elwin Ransom,
si ritiene trattata alla stregua di una bambina. Siffatto errore di valutazione
della Grecità antica viene superato da Lewis attraverso una riformulazione
junghiana superante gli squilibri di genere promossi nella pratica da un
distorto schema più o meno in auge. Nel cap. VII, quando Jane Studdock dialoga
con Elwin Ransom nella di lui stanza («Blue Room», dominata dal blu alchemico4) alla villa di
St. Anne’s on the Hill) il ragionamento sopra esposto è la materia del loro
confronto. Il filologo rivolge simili parole a una perplessa e disorientata
Jane: « Bambina […] non è una questione di come tu o io consideriamo il
matrimonio ma di come i miei Elohiym [Masters] lo giudicano. […] Loro non sono retrogradi:
ma sono di gran lunga all’antica. […] Loro direbbero […] che tu non vieni meno
all’obbedienza a causa della mancanza d’amore, ma che hai perso l’amore perché
non cercavi mai l’obbedienza. […] Nessuno ti ha mai detto che l’obbedienza – l’umiltà
– è una necessità erotica [erotic necessity]. Tu stai mettendo l’uguaglianza
proprio dove non sarebbe necessario che sia». La personalità di Jane nel
romanzo rispecchia in maniera esemplare connotati tipici del “femminile”. Ella,
oltre a rappresentare la funzione del “sentimento”, è una donna “intuitiva”
nell’accezione più profonda del termine poiché grazie ai suoi sogni può
accedere alla visione di eventi lontani da lei. L’oligarchia del NICE vorrebbe
trascinarla dalla sua parte. Alcuni suoi membri sono in contatto con delle
intelligenze extraterrestri superiori, le quali Lewis denomina «macrobes [macrobi;
vocabolo opposto di microbi]». Ne parla, in maniera esplicita, a Mark, la prima
volta, Augustus Frost nel cap. XII, però già nel precedente cap. VIII l’altro
professore, l’Italiano Filostrato («the great physiologist»), aveva anticipato
al protagonista maschile del racconto lewisiano la distopia di un’esistenza
umana svincolata dalla forma organica. Il disegno della suddetta cerchia mira a
unificare il potere espresso dai macrobi con quello di un risvegliando dalla
tomba Mago Merlino: Jane sarebbe servita allo scopo di rintracciare con le sue
indicazioni paranormali il mitico Merlinus Ambrosius. Da parte sua, invece, il
gruppo capeggiato da Ransom si prefigge di impedire il compimento di questo
progetto e di portare Merlino invece nello schieramento antidistopico. La
struttura del romanzo lewisiano mostra in questi ulteriori simboli lo
svolgimento di precise dinamiche da intendersi alla luce della psicologia
analitica di Jung. La dicotomia “razionale/irrazionale”, della quale si è fatto
cenno su, è quella che presiede alla dialettica tra le fazioni menzionate. I
macrobi, nelle parole di Frost enti non dotati di un corpo, cui l’umanità nuova
dovrebbe tendere, al di fuori del loro significato letterario e simbolico
rinviano a dei modelli di comportamento che sono delle nevrosi (le quali in relazione all’“ombra” definisco archetipi negativi). L’«orrenda energia»
che dà il titolo al libro è quella dell’“ombra” junghiana, da cui Mark Studdock
(rappresentante della “ragione” tentata) nel corso degli eventi narrativi si
allontanerà liberandosi grazie a un sempre più maturo esercizio della libertà
personale. Nel momento in cui la razionalità cade sotto l’influenza dell’area
oscura della psiche, essa opera attraverso le più varie tipologie di violenza.
Davanti a questa la razionalità è costretta a opporsi nei panni di “forza dell’ordine”.
Ho l’impressione che in “That hideous strength” l’autore abbia, fra le altre
cose, costruito un confronto fra le scienze psicologiche di Freud e di Jung,
celati dietro i personaggi di Frost e di Ransom (il quale fa un appunto al padre della psicoanalisi nel cap. XIV).
E in effetti i viaggi interplanetari del filologo di Leicester, descritti nei
primi due romanzi della cosmic trilogy,
possono ben figurare quali pagine di un “Liber novus”. Mentre l’orientamento
positivistico di Frost, il quale intravede una base biologica tra i moventi
dell’agire umano, ricorda in qualche modo il pensiero di Freud: l’«obiettività
[objectivity]», ideale distopico di “mente” liberatasi dal sovrastrutturale
organico (a beneficio di un «Technocratic and Objective Man»), non sarebbe
nient’altro che un livello dell’ES scevro dei condizionamenti della materia.
Filostrato (complementare del “parafreudiano” impazzito Frost) afferma nel cap.
VIII: « L’autentico sudiciume è quello che proviene dagli organismi – sudore,
saliva, escrezioni. […] Le idee di impuro e organico sono intercambiabili. […]
Impariamo a far sì che il nostro cervello viva con meno e con un corpo minore.
[…] Apprendiamo la via per riprodurre noi stessi al di fuori del congresso
carnale. […] Non ci saranno mai pace, ordine, disciplina fintanto che c’è il
sesso [There will never be peace and order and discipline so long as there is
sex]. Qualora l’uomo l’ha gettato via, allora egli diverrà finalmente
governabile. […] Il mondo cui io ambisco è un mondo puritano [the world of
perfect purity]. […] Quali sono le cose che offendono la dignità di uomo al
massimo grado? La nascita, il procreare, la morte». In parole povere Filostrato
pronuncia un velato atto d’accusa all’Eva della “Genesi”, responsabile – nel
racconto biblico – di aver privato l’originario androgino Adam di una
condizione divina, trascinandolo – a suo (deprecabile) modo di vedere – nel
degrado descritto5. La sessuofobia è uno dei tratti caratteristici
del pensiero religioso cristiano. Lewis, a tal riguardo, nella sua raccolta di
riflessioni sul Cristianesimo intitolata “Mere Christianity” (1952), i cui
testi risalgono alla prima metà degli anni ’40, si colloca su una posizione
moderata ed equilibrata, mostrando di voler contribuire alla rimozione di
simile ostacolo, pur rimanendo saldo nel pensiero di una sessualità che abbia
scopi procreativi. La tematica si è ripresentato nell’ultimo libro della trilogia cosmica a proposito delle
vicende di Jane Studdock. La sua storia, al pari di quella del marito,
rappresenta un cammino di “individuazione junghiana”. La conclusione di questo
tragitto è illustrata nel romanzo in maniera puntuale. Nei suoi confronti
Ransom funge da terapeuta (Jung). Nell’ultima parte del testo lewisiano compare
un concetto chiave dell’analisi junghiana del processo di individuazione: si
tratta della “personalità mana”. Il primo passo del complesso dell’Io, nell’ambito
della psiche personale, dev’essere quello di allargare il campo della sua
coscienza a quella zona inconscia presidiata dal complesso sessuale
complementare del soggetto (“anima” o “animus” junghiani: denominati in senso
lato dallo studioso svizzero, in opposizione all’Ego, Anima). L’Anima veicola i
contenuti dell’inconscio impersonale in maniera varia, sino al punto di poter
creare forme di turbamento durante queste manifestazioni. Inglobarla nella
coscienza soggettiva equivale a destituirla dallo status di complesso psichico
al rango di un puro canale di interazione con l’inconscio collettivo. Cosicché
essa non apparirà ormai nella veste di altro di spaventoso (di fronte a cui l’Io
poteva soggiacere). Siffatta comunicazione immediata fra l’Ego e l’inconscio
assoluto ribalta i piani precedenti. Ora è l’Io a possedere il potere che era
dell’Anima: esso ha infatti un intuitivo diretto legame con l’inconscio
impersonale (dapprima mediato da essa). Tale proprietà acquisita dalla
(presunta) soppressione dell’Anima (in quanto complesso della psiche
individuale) è denominata da Jung “mana”. Detto termine indica in generale il potere soprannaturale derivante dall’appropriazione
dello “spirito di un ente”. Chi lo possiede è una “personalità mana”, al
cui servizio sono magici poteri provenienti dal canale di collegamento
immediato con l’inconscio collettivo, poteri che seguono modalità non naturali
e oscure. Rilevando il “mana” l’Ego non si è effettivamente liberato dal
condizionamento dell’inconscio collettivo perché non ha soppresso del tutto l’Anima
(la quale è sopravvissuta in forma funzionale di collegamento). L’Io, inoltre,
si è proiettato sull’inconscio assoluto omologandosi secondo un preciso
archetipo: quello del Mago (nel caso maschile), quello della Grande madre (nell’altro
femminile). Se il processo di individuazione prosegue nel verso migliore il
“mana”, che ha dischiuso un orizzonte più alto alla comprensione e all’azione
dell’Ego, viene rilevato dal Sé, in seguito alla sua cessione da parte dell’Io
che era stato abbagliato da un’erronea convinzione di “somiglianza con Dio”: è
il Sé, dice Jung, “il Dio in noi” scaturente dal superamento e dal cosciente
assorbimento della “personalità mana”. “That hideous strength” mette in scena
questo archetipo nella sua seconda metà. Mago Merlino è la “personalità mana”
che ambiscono portare nel proprio schieramento dell’“ombra” i leader del NICE,
campioni dell’“irrazionalità”. La “razionalità” sana riesce, nel contesto
simbolico del racconto lewisiano, a ottenere l’adesione al proprio campo di
Merlinus Ambrosius. Costui non è l’unico simbolo archetipico del suo genere di
cui possiamo trovare traccia nel romanzo. Se il Mago è l’archetipo con cui si
misurano i personaggi maschili del NICE, a cominciare soprattutto da Mark
Studdock nel suo processo di individuazione, la Grande Madre6 è l’archetipo
con cui si trova a interagire Jane. Nel cap. XIV lei ha quella che potremmo
benissimo definire un’esperienza di “immaginazione attiva” allorquando vede
tale archetipo nei panni di una “pneumatica”7 «donna dei tempi
antichi [Old Woman]», «una sacerdotessa minoica [Minoan
priestess]» a seni scoperti (il suo vestiario «exposed her large breasts»).
Poco dopo Ransom, da perfetto terapeuta junghiano, spiega a lei il significato
di quell’immagine: è un messaggio dell’inconscio collettivo attraverso l’esperienza
della “personalità mana” (tramite la quale ella pretenderebbe di aver
assoggettato il suo “animus”). L’“animus” di Jane rinvia a Mark, come
parallelamente l’“anima” di costui rinvia a ella. Le loro difficoltà a
incontrarsi nel sommo grado della “coniunctio” vengono rimosse lungo un
processo narrativo alchemico-junghiano: alla fine del romanzo si perviene all’immagine
della copula quale simbolica unione di “anima” e “animus”. Questo è un livello,
per così dire, archetipico di ermeneutica del finale lewisiano, tuttavia, come
già ribadito, Mark e Jane figurano pure come soggetti umani. E il richiamo che
Ransom rivolge a lei, nella spiegazione dell’esperienza sopra descritta, mira a
recuperare la dimensione della di lei “femminilità”. Jane vorrebbe sbarazzarsi
del “maschile”, dell’“animus”, e quindi collocare in una posizione marginale
Mark. Però ciò non è possibile: da qui scaturisce il manifestarsi simbolico
della sua “personalità mana”. Ransom nel puntualizzare un primato del
“maschile” non si riferisce a un primato di genere biologico bensì a quello
svolto dalla “forza dell’ordine” della razionalità. L’argomento della
prospettiva della maternità sarà ripreso dal filologo nell’ultimo capitolo. Il
percorso d’individuazione junghiana di Jane si conclude grazie all’uscita dallo
stadio psichico dominato dalla Grande Madre. Lei abbandonerà il “mana” (perderà
il suo potere di veggenza), Ransom le dice: « Va’ in obbedienza e troverai l’amore.
Non avrai più sogni. Che tu abbia invece dei bambini». Jane ha di fronte dunque
il completamento dell’individuazione, il cui archetipo è la Natura madre. Il suo Io e l’inconscio
personale, così, coabiteranno in una unità non conflittuale. Parallelo è il
cammino del marito Mark: anche lui, dal momento in cui è entrato nel NICE,
affronta l’esperienza di confronto con la “personalità mana” simboleggiata da
Mago Merlino. La «Camera per l’Educazione-mentale-all’obiettività [Objective
Room]», oltre a essere “madre” della “stanza 101” di “1984” (per quanto
concerne la procedura di distorsione della retta ragione), dove Frost conduce Mark
al fine di (ri)educarlo e di attuare la sua (de)formazione, rappresenta il
luogo dell’iniziazione mirante all’acquisizione del “mana” sotto l’egida dell’“ombra”
junghiana. Il vilipendio del Crocifisso proposto a Mark da Frost rappresenta un’allegoria
della sorte della razionalità allorché questa è stata isolata dal resto dell’impianto
psichico con la conseguenza di cadere nell’“ombra”. Agli occhi di tutti gli
“inquisitori” nevrotici, nella cui testa domina un Verbo da imporre a qualsiasi
costo, sino a far ricorso alla violenza (pensiamo a O’Brien o alla caccia alle
streghe), non esiste un nemico che abbia requisiti di dignità umana da
rispettare: il nemico che non si omologa deve essere vittima di violenza e di
annientamento. Mark si rende conto che una prospettiva del “mana” siffatta non
è benefica a nessuno (neanche allo stesso “inquisitore” colpito da nevrosi). E
Merlinus Ambrosius, nel dies irae che a conclusione del romanzo contempla la
morte di tutti gli esponenti del NICE (a guisa dei proci di Penelope),
incontrando Mark, lo rimanderà da Jane, dopo che costui, dal canto suo, avrà
conseguito la prospettiva di conseguimento del Sé, nel suo caso connesso all’archetipo
del vecchio saggio. La coppia di
protagonisti di “That hideous strength” costituisce exempla di individuazione
junghiana dove gli oscuri poteri del “mana” sono portati alla sfera della
coscienza: ciò vuol rappresentare il caso di Mago Merlino investito di
ulteriori facoltà da parte di altre simboliche divinità. Queste raffigurano
contenuti dell’inconscio collettivo che il superare la “personalità mana”
consegna al campo della coscienza allargata al Sé. Nel contesto della lettura
junghiana del libro di Lewis va infine osservato che il meccanismo della
giustizia è quello arcaico: ha toni veterotestamentari. D’altra parte è
riflesso del coevo sistema giudiziario inglese, distante da una sensibilità
illuministica: una distanza la quale impedì nel Regno Unito la totale abolizione
della pena di morte sino al 1998 (dal ’65 non riguardava più il reato di
omicidio). Comunque, nell’ottica di una ripresa di motivi dell’antropologia
greca antica sopra accennata, possiamo inquadrare sotto un diverso profilo tale
aspetto e averne una spiegazione più ampia. In seguito a questo spunto si può
comprendere il perché di un finale un po’ “manzoniano”. Si tratta di un
ripristino del “nomos” e del “logos” attuato dalla “forza dell’ordine” in
maniera simbolica e anacronistica
allo stesso modo di Ulisse al suo ritorno a Itaca: l’evoluzione legale razionale assume senso soltanto
nel tempo empirico.
NOTE
Questo
scritto è un estratto del mio saggio “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples
Lewis (2017)”
1 Non ho elementi
certi, ma un’impressione, nell’ipotizzare che dietro all’ideazione letteraria
dell’INCE ci sia l’I.N.A.C. (Istituto nazionale per le applicazioni del
calcolo). Fondato a Napoli dal matematico italiano Mauro Picone (1885-1977) con
altro nome nel ’27, nel ’32 fu trasferito a Roma assumendo la nuova denominazione.
Gli studi di quello che fu poi INAC avevano infatti procurato ammirazione, la
quale proseguì pure all’estero: nel ’41 nella Germania nazista fu dato vita al Luftwaffen-Institut für Mathematik. La
nazionalità del personaggio di Filostrato («Italian eunuch») potrebbe avere
questo movente.
2 Ad alcuni
classici della distopia ho dedicato delle monografie: “Il Medioevo futuro di
George Orwell (2015)”, “L’antipanlogismo di Evgenij Zamjatin (2015)”, “Il
capitalismo impazzito di Aldous Huxley (2015)”. Nel mio saggio “Critica
letteraria (2017) ho esaminato “La terribile distopia di H. G. Wells” (“The
time machine”).
3 Ne “La razón de
mi vida (1951)” di Eva Perón (“Tercera parte – Las mujeres y mi mision”) il
tema viene affrontato con identico apprezzabile tono lewisiano: «Le femministe
del mondo diranno che incominciare così un movimento femminile è poco
femminile... incominciare riconoscendo in un certo modo la superiorità di un
uomo! […] Non condotto da donne bensì da “quello” che aspirando a essere uomo,
smetteva di essere donna – e non era niente! –, il femminismo aveva compiuto il
passo che va dal sublime al ridicolo. […] Il primo obiettivo di un movimento
femminile che voglia fare bene alla donna... che non aspiri a cambiarle in
uomini, deve essere la famiglia. Nascemmo allo scopo di costituire famiglie.
Non per la strada. La soluzione ce la sta indicando il buonsenso. Dobbiamo
cogliere nella famiglia quello che andiamo a cercare fuori in strada: la nostra
piccola indipendenza economica... che ci liberi dall’essere povere donne senza
nessun orizzonte, senza nessun diritto e senza nessuna speranza! […] Io credo
nei valori spirituali. […] Reputo che è urgente conciliare nella donna la sua
necessità di essere moglie e madre con quell’altra necessità di diritti che,
come persona umana degna, tiene anche nel più intimo del suo cuore. […] Penso
che bisognerebbe incominciare proponendo in favore di ogni donna che si sposa
un’indennità mensile dal giorno del suo matrimonio. Uno stipendio che tutta la
nazione paghi alle madri e che provenga dalle entrate di tutti quelli che
lavorano nel Paese, incluse le donne. Nessuno dirà che non è giusto che
paghiamo un lavoro che, benché non si veda, richiede ogni giorno lo sforzo di
milioni e milioni di donne il cui tempo, la cui vita si spende in quel monotono
ma pesante compito di pulire la casa, curare i vestiti, preparare a tavola,
crescere i figli..., etc. […] Io lancio solo l’idea. Sarà necessario darle
forma e convertirla, se conviene, in realtà. […] La soluzione che io propongo
mira a non far sentire inferiore la donna che fonda una famiglia rispetto alla
donna che conquista la sua vita in una fabbrica o in un ufficio. Però non è la
soluzione integrale del vecchio problema. C’è da aggiungere a suo vantaggio un
migliore utilizzo del progresso e della tecnica al servizio della famiglia. Ed
è necessario elevare la cultura generale della donna al fine di tutto ciò:
sappia usare l’indipendenza economica e il progresso tecnico a beneficio dei
suoi diritti e della sua libertà senza che perda di vista la sua meravigliosa
condizione di donna; l’unica cosa che non può e che non deve perdere mai se non
vuol perder tutto. […] Io credo fermamente che la donna – al contrario di
quanto è opinione comune tra gli uomini – vive meglio nell’azione che
nell’inattività».
4 Tonalità
intermedia tra nigredo e albedo, fasi alchemiche precedenti citrinitas e rubedo.
5 L’argomento
tirato in ballo è piuttosto complesso per essere affrontato qui senza che la
locomotiva critica deragli. Perciò rinvio a un mio studio dettagliato posto in
altra sede: “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi” all’interno
del saggio “Danilo Caruso, Considerazioni letterarie (2014)”.
6 I miei due
lavori critici sopra la personalità e la poetica della musa di Boston – “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere (2016)”,
“Sulla poesia di Sylvia Plath (2016)” – fanno pure riferimento al concetto di
Grande Madre. Nel cap. XIII di “That hideous strength” si parla della Luna: la
quale è uno dei simboli plathiani e immagine archetipica della Grande Madre. La
paronomasia tra il nome del satellite terrestre là adottato da Merlinus
Ambrosius (Sulva) e il nome della poetessa bostoniana è suggestiva, se non
trascuriamo che Ransom fa altresì un discorso che riflette la dicotomia
“positivo/negativo” della Grande Madre (di cui ho trattato nelle mie due opere
testé ricordate). In aggiunta: sia Lewis che la Plath si sposarono nel ’56 e
morirono nel ’63; entrambi ebbero a che fare, più o meno nello stesso periodo,
con la città inglese di Cambridge per motivi scolastici.
7 Per comprendere
quest’uso dell’aggettivo “pneumatico” suggerisco la lettura di una mia analisi
intitolata «La Madonna “pneumatica” e Lenina Crowne» contenuta nel saggio
“Danilo Caruso, Note di studio (2016)”.