di
DANILO CARUSO
E
quindi uscimmo a riveder le stelle.
Inferno
XXXIV, 139
Dante
Alighieri, “Divina Commedia”
“Il
Maestro e Margherita [Master i Margarita]” di Michail Bulgakov (1891-1940) è una
celeberrima opera della letteratura di tutti i tempi. La sua gestazione occupò
l’ultimo quarto di vita dello scrittore russo; il testo venne reso pubblico
postumo, alla fine degli anni ’60, grazie alla vedova Elena Sergheevna
Shilovskaya (1893-1970). È un romanzo la cui comprensione si può rendere più
profonda se accostato alla “Divina Commedia”, e se la vicenda esistenziale
bulgakoviana a sua volta viene paragonata a quella dantesca. Entrambi gli
scrittori sono stati vittime dell’oppressione di sistemi totalitari: quello
sovietico novecentesco e il precedente medievale cattolico (di cui la Firenze
comunale pagava il prezzo degli aspetti negativi). L’URSS sta a Bulgakov come
la città di Dante nell’Alto Medioevo sta al suo celeberrimo figlio. Tutti e due
hanno imbevuto le succitate opere di un sentimento di rivalsa (non solo
letteraria). Il testo bulgakoviano analizzato alla stregua di una “Commedia
sovietica” rivela una parte della sua ricchezza in maniera nitida. Simile gamma
di tensione narrativa di spessore costruttivo intersoggettivo, si completa con
una dimensione psicologica osservabile in interiore nei personaggi nevralgici.
La prima parte del “Master i Margarita” (capp. 1-18: vale a dire 3×6; idest, a
scrivere, 666) presenta la sezione “infernale”: dove ipocriti e concupiscenti
vengono scoperti e puniti. Bulgakov proveniva da una famiglia di cristiani
ortodossi osservanti: il padre fu un professore del campo storico-religioso, e
uno zio insegnò in seminario. È evidente che lo scrittore di Kiev si portasse
dentro il peso di una formazione giovanile familiare entrata in contrasto con
l’indirizzo marxista dell’URSS. L’impressione è che Bulgakov elabori e trovi
una via di mezzo tra l’ateismo materialista di Stato e la reazionaria dogmatica
religione cristiana. Il Satana bulgakoviano emerge quale simbolico vertice
archetipico di questo processo. Tale personaggio ricorda moltissimo il richiamo
di Jung a non scorporare dall’immagine del divino l’aspetto dell’“ombra”,
giacché la teorica possibilità del male appare da un lato come garanzia della
libertà dell’azione (umana) in genere, dall’altro come monito a non compierlo de
facto. Questo è il costo ontologico della libertà soggettiva. E tale è il
significato della citazione goethiana in apertura del romanzo. L’orientamento
filosofico di Bulgakov si mostra spiritualista, anche se non più cristiano.
L’autore russo smaschera la tradizionale costruzione evangelica sulla vita di
Gesù, però mantiene la sua riflessione nel romanzo lungo una via di pensiero
difficilmente armonizzabile con l’impianto materialistico su cui poggiava l’URSS.
Se tradizionalmente si vede, e non a torto, nella figura del Master (“magister”
è un appellativo di Faust in Goethe) una trasposizione della persona di
Bulgakov e delle sue esperienze di difficoltà al cospetto di un non benevolo
accoglimento presso la critica letteraria ufficiale sovietica (livello
biografico esteriore), non si sottolinea che, essendo il Maestro a sua volta
riversatosi (nell’ulteriore interno romanzo) nel personaggio di Pilato (colui
che vive con disagio la dicotomia “pragmatismo politico / giustizia
obiettiva”), Bulgakov (a un livello di analisi esistenziale interiore) carichi
pure nel procuratore romano lo strato più profondo della sua psiche per quanto
attiene al tema religioso. Un tema che si scopre quindi familiare e paterno, ed
elaborante ciò che si rivela un complesso di colpa di tradimento nei riguardi
del genitore (scomparso nel 1906). Pilato rappresenta il Bulgakov che ha
accettato il nuovo corso socialista della Russia, che ha rinnegato il Cristianesimo
ortodosso simboleggiato dalla figura di Jeshua Ganozri. Lo scrittore di Kiev,
tuttavia, non sembra consegnarsi al materialismo e salva in maniera junghiana
l’orizzonte spiritualista. Il senso di colpa che perseguiterà il procuratore della
Giudea a causa dell’uccisione di Jeshua indica nella realtà il complesso
bulgakoviano in relazione a un simbolico parricidio. Allorché il Master, alla
fine, libererà Pilato dalla sua condizione di angosciante rimorso, è Bulgakov
che abbandona quel suo stato di pensiero colpevolizzante. Nella prima parte de
“Il Maestro e Margherita” si concentra il “negativo”: dalle punizioni ai vari
ipocriti e opportunisti che rovinano la società (nel dettaglio moscovita) alla
morte di Gesù. Un Messia demistificato, molto filosofico e molto filantropico,
si è contrapposto a un Pilato dalla profonda coscienza umana (alla base della
sua sofferenza psicologica): una situazione che lo indurrà, quasi fosse un
Conte di Montecristo sui generis, a disporre giustizia obiettiva facendo
uccidere in un secondo momento il traditore Giuda. In quest’ultimo, più che in
Voland, è da intravedersi Stalin; e se Stalin è Giuda, Ieshua, con le sue
anarchiche idee, appare, in una lettura politica, trotzkijsta. La seconda parte
del testo bulgakoviano in esame accantona la dimensione punitiva di Satana e
dei suoi accompagnatori a Mosca, una nigredo alchemico-junghiana, per lasciare
posto alle successive fasi (albedo, citrinitas, rubedo).
Il diavolo di
Bulgakov, Azazello, Korovev, Beghemot, Ghella, hanno attuato sin qui “giustizia
compensativa”, hanno risanato uno squilibrio compensandolo con la di esso
moneta, non hanno ricercato un sadico fine: il cattivo umano uso della libertà,
il quale è stato un male, ha provocato una reazione opposta e contraria volta a
rimediare sullo stesso piano (in misura omogenea, come se si trattasse del
ritorno di un rimbalzo). Nello sregolato agire i concupiscenti e ipocriti
personaggi bulgakoviani della prima frazione del romanzo hanno trovato la
radice di un contrappasso. La seconda frazione (capp. 19-32 e epilogo) offre
finalmente la protagonista centrale, Margherita, la quale fu creata e inserita
nel progetto narrativo (assieme al Maestro) dall’autore russo solo dopo che
egli conobbe la sua ultima compagna. La sua assenza nelle fasi redazionali
precedenti e il suo successivo ingresso convalidano la linea analitica qui
portata avanti in parte imperniata su motivi biografici e psicologici
bulgakoviani (più sopra accennati). Nella seconda parte del “Master i Margarita”
i due protagonisti che danno il titolo al romanzo, rappresentano, in termini
analitici junghiani, il maschile-ratio (animus) e il femminile-libido (anima).
Demistificare la religione e ricondurla ai suoi aspetti simbolici e archetipici
è infatti l’operazione intellettuale che il Maestro bulgakoviano compie, il
quale va altresì nella direzione di incontro con Margherita, ossia
dell’individuazione junghiana. Speculare la vicenda di Margarita che andando
verso il Master si avvicina all’animus. Ma il di lei caso è ricco di vari
significativi aspetti, sia letterari che psicologici. Sotto il profilo letterario-alchemico
gli episodi connessi alla “crema di Azazello” segnano il passaggio dalla
nigredo al blu alchemico, e quelle legate alla “gran ballo di Satana” alla
citrinitas. Margherita dice di sì all’invito di Voland, il che tradotto in
termini psicoanalitici significa che ella vivrà l’esperienza della personalità
“mana”: infatti diverrà una “strega” con poteri sovrannaturali. Nella sua
psiche l’animus si è convertito in canale di invasamento dell’inconscio
collettivo (Satana). Margarita sperimenta l’ebbrezza del “mana” (si ricordi la
distruzione dell’appartamento di Latunskij, critico ostile al Maestro amato
dalla protagonista) sino a quella singolare festa che è riproposizione della
magmatica elaborazione dell’inconscio assoluto. Tutta la feccia dell’umanità là
presentatasi a ossequiarla raffigura l’insieme dei contenuti non positivi
dell’inconscio impersonale che ribollono alla volta di una mediatrice cagliata
archetipica. I passaggi inerenti all’infanticida Frida (la quale chiede aiuto a
Margherita al fine di non essere più eternamente tormentata dal suo contrappasso)
sono indicativi di alcuni concetti della psicologia analitica. Jung ha chiarito
che in ambito di “personalità mana” fondamentale è la rinunzia al potere
concesso dall’inconscio collettivo affinché si pervenga all’individuazione
nella psiche personale. Pertanto quando, terminata la festa, Voland chiede a
Margarita quale ricompensa ella voglia essendosi prestata nel ruolo di regina
del ballo, la donna non sfrutta il “mana” subito allo scopo di soddisfare il di
lei desiderio di ricongiungersi col Master, bensì pretende sia esaudita la sua
richiesta in favore di Frida. Soltanto dopo ciò (la rinunzia al “mana”) il
processo alchemico sopra evocato raggiunge la citrinitas con l’arrivo del Maestro,
magicamente prelevato dalla clinica dove era ricoverato a causa del suo disagio
mentale. Nel romanzo su Pilato che il Master aveva scritto, di cui Bulgakov
torna di nuovo a esporre passaggi nella seconda sezione generale del suo testo
a partire dal cap. 25, l’uccisione di Giuda rappresenta, sopra il piano
esegetico politico, il simbolico omicidio di Stalin, il traditore della Rivoluzione,
la causa del male nell’URSS.
Capire perché “Il Maestro e Margherita” non trovò
spazio nell’epoca staliniana, non è difficile: costituisce una colossale
critica (nell’ermeneutica oggettiva) al sistema comunista precipitato nell’involuzione
sino al punto di giungere alla persecuzione
e all’uccisione di Trotzkij (il fautore della rivoluzione globalizzata):
un Gesù Cristo sovietico condannato dalla camaleontica burocrazia russa (Pilato:
gattopardesco simbolo del vecchio quadro di potere amministrativo, il quale non
vuol perdere i propri privilegi). Il procuratore romano si presta a una duplice
chiave di lettura simbolica: quella dell’ermeneutica soggettiva (legata agli
aspetti biografici bulgakoviani, di cui parlato prima), e l’altra
dell’ermeneutica oggettiva (connessa agli aspetti della storia sovietica, testé
spiegata). La sizigia, il mistico matrimonio tra il Master e Margarita, si
celebra mediante il loro avvelenamento (simbolico) da parte di Azazello:
infatti i due si “risvegliano”, e sarà per sempre rubedo per loro. Finiscono
con l’essere posti in una sorta di limbo cristiano (il dogma cattolico è stato abolito
da Benedetto XVI); un limbo che appare altresì somigliare a un paradiso pagano;
i protagonisti sembrano essere collocati nei Campi elisi. Non si prospetta
davanti a loro una condizione di dannati; perciò, sebbene la struttura
fantastica narrativa offra spunti di aggancio a una visione spiritualista, quella
si discosta parecchio dal canonico impianto fideistico cristiano. Tenendo
presente che Margherita è un’originale creatura goethiana prima inesistente
nella tradizione faustiana, più che in Goethe è nel “Faust” di Gounod, di cui
Bulgakov era amante, che è possibile rintracciare una vena di ispirazione nella
progettazione del “Master i Margarita”. Nell’opera teatrale goethiana (dove ci
sono gatti parlanti), Margherita, la quale non apprezza i gioielli, è la figlia
quattordicenne di una vedova usuraia. Nella versione lirica compare Mefistofele
che predice il futuro (si veda il caso di Berlioz nel romanzo). La bulgakoviana
Margherita trae ascendenza gounodiana: quella di Gounod, amata da Siebel, con i
gioielli fattile avere da Faust (a lui forniti dal diavolo), dice di sentirsi
come una regina (si ricordino le circostanze legate alla “crema di Azazello” e
al “gran ballo di Satana”). Valentino, fratello di Margherita, mette al collo
un talismano regalatole da costei: pensiamo alla collana indossata da Margarita
alla festa di Voland. La Margherita gounodiana, d’altro canto, nel dramma porta
una collana di Faust, la quale toglierà dopo l’uccisione del di lei fratello da
parte di quest’ultimo. Il sabba nella notte di santa Valpurga a inizio del
conclusivo atto di questo “Faust” mostra influenze confluite nel finale
dell’opera di Bulgakov; in particolare, la festa di Mefistofele nel suo
dominio, dove risalta la figura di Cleopatra, offre suggestioni a beneficio
dell’ideazione bulgakoviana del “gran ballo di Satana”. L’infanticida Margherita
della chiusura del dramma dà lo spunto per il personaggio di Frida. Il Mefistofele
di Gounod, infine, s’impegna allo scopo di agevolare Faust nella conquista di
Margherita, ma lei pentitasi della propria condotta muore e va in paradiso. Nel
“Master i Margarita”, i due protagonisti seguono in relazione a ciò un percorso
che presenta delle tangenze (per analogia e contrasto). Al di là dei dettagli
esteriori, il “Faust” goethiano, con le sue connotazioni superomistiche e tecnocapitalistiche,
non si presta a un congeniale accostamento con l’opera dello scrittore russo.
La Margherita di Bulgakov è molto considerevole sotto il profilo dell’essenza letteraria, somma una gamma ampia di tipologie: a paragone possiamo citare dall’universo distopico la personalità “mana” della lewisiana Jane Studdock1, il suicidio (omicidio) di Mabel Brand2, e al di fuori la dantesca Beatrice. La prima gestisce un potere “magico” che le consente di conoscere cose lontane o future (di avere quindi una superiorità sulla realtà fenomenica), la seconda muore perché insofferente delle cose turbolente del mondo, e la terza è l’ultima guida nella rinascita (spirituale) di Dante. La ricchezza che l’autore di Kiev ha saputo conferire a Margherita eleva costei al ruolo di sui generis Beatrice in tale “Divina Commedia sovietica” esaminata. Bulgakov, nell’elaborazione de “Il Maestro e Margherita”, ha incrociato due distinte intenzioni redazionali, come il Sommo Poeta fece con la “Vita nuova” nell’inserire testi poetici creati a parte. Quest’ultima opera racconta una storia che comincia con un incontro (ripetuto nel tempo), e similmente da un incontro si sviluppa la vicenda narrativa bulgakoviana tra il Master e Margarita. A proposito della vexata quaestio su cosa voglia intendere lo scrittore russo quando dice che i suoi due protagonisti principali hanno meritato la “pace” e non la “luce”, immagino che non volesse fare una distinzione gerarchica sulla condizione ultraterrena, bensì distinguere due esistenziali generali modi di possibili umani itinera letterari: mentre il percorso dantesco è un cammino che ambisce alla “luce” e con essa (Dio) culmina passando attraverso un ripensamento mistico, il Maestro demistifica la realtà, razionalizza e al termine ottiene la “pace” (Elisio). Il fatto che Dante abbia bisogno nella “Commedia” di Virgilio (la ragione) all’inizio rispecchia gli orizzonti della sua partenza (da solo) e del suo arrivo (poi con Beatrice e san Bernardo). Il Master agisce lungo il sentiero non mistico della “pace”, ed essa alfine consegue ma non come premio minore.
La Margherita di Bulgakov è molto considerevole sotto il profilo dell’essenza letteraria, somma una gamma ampia di tipologie: a paragone possiamo citare dall’universo distopico la personalità “mana” della lewisiana Jane Studdock1, il suicidio (omicidio) di Mabel Brand2, e al di fuori la dantesca Beatrice. La prima gestisce un potere “magico” che le consente di conoscere cose lontane o future (di avere quindi una superiorità sulla realtà fenomenica), la seconda muore perché insofferente delle cose turbolente del mondo, e la terza è l’ultima guida nella rinascita (spirituale) di Dante. La ricchezza che l’autore di Kiev ha saputo conferire a Margherita eleva costei al ruolo di sui generis Beatrice in tale “Divina Commedia sovietica” esaminata. Bulgakov, nell’elaborazione de “Il Maestro e Margherita”, ha incrociato due distinte intenzioni redazionali, come il Sommo Poeta fece con la “Vita nuova” nell’inserire testi poetici creati a parte. Quest’ultima opera racconta una storia che comincia con un incontro (ripetuto nel tempo), e similmente da un incontro si sviluppa la vicenda narrativa bulgakoviana tra il Master e Margarita. A proposito della vexata quaestio su cosa voglia intendere lo scrittore russo quando dice che i suoi due protagonisti principali hanno meritato la “pace” e non la “luce”, immagino che non volesse fare una distinzione gerarchica sulla condizione ultraterrena, bensì distinguere due esistenziali generali modi di possibili umani itinera letterari: mentre il percorso dantesco è un cammino che ambisce alla “luce” e con essa (Dio) culmina passando attraverso un ripensamento mistico, il Maestro demistifica la realtà, razionalizza e al termine ottiene la “pace” (Elisio). Il fatto che Dante abbia bisogno nella “Commedia” di Virgilio (la ragione) all’inizio rispecchia gli orizzonti della sua partenza (da solo) e del suo arrivo (poi con Beatrice e san Bernardo). Il Master agisce lungo il sentiero non mistico della “pace”, ed essa alfine consegue ma non come premio minore.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Letture
critiche (2019)”
1 Per
approfondimenti suggerisco il secondo capitolo (“Un romanzo alchemico”) del mio
saggio intitolato “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”, di cui
qui l’estrazione:
2 Al fine
di approfondire consiglio la mia monografia “L’apologia dell’irragionevole di
Robert Hugh Benson (2017)”, di cui qui una riduzione: