Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.
Hermann
Hesse (1877-1962) è stato uno scrittore molto profondo. I suoi elaborati recano
l’impronta di un duro travaglio spirituale, il quale lo condusse a essere un
paziente di Carl Gustav Jung (e in precedenza di un seguace di costui).
L’irrequietezza fu per lo scrittore una fonte da cui trarre ispirazione nella
redazione di romanzi divenuti celeberrimi. “Siddhartha” (uscito nel ’22) è uno
dei suoi capolavori letterari che possiede una forte struttura logico-narrativa
junghiana1. L’omonimo protagonista vi compie un iter ascrivibile a
un sistema concettuale legato alla psicologia analitica oltre che a schemi
filosofico-religiosi informanti parallelamente, ma con tono sostanziale
subordinato, l’esposizione. In partenza Siddhartha, figlio di un bramino, è una
persona dotata di un’indole caratteriale, in termini junghiani, logico-percettiva.
Nel testo egli è animato da un desiderio di ricerca razionale rivolto
all’Universo, e nell’ambito della cultura indiana che fa da omogenea cornice allo
schema junghiano, il giovane vuol raggiungere l’“atman”. Si può paragonare
questo all’Io penso kantiano, poiché costituisce il fondamento della coscienza
individuale, quel “sé” termine del riferimento della percezione personale.
Perciò sta alla base di una rappresentazione del mondo. L’atman sarebbe un
elemento posto a subire una trasmigrazione nel ciclo vitale di nascita e morte,
una catena di reincarnazioni in relazione alla quale i mistici indiani hanno
cercato di trovare una via di fuga. Mosso dal desiderio di raggiungere la
liberazione dalle passioni e dalla brama prospettata dal “nirvana”, Siddhartha
e il suo fraterno amico Govinda si aggregano a un gruppo di asceti mendicanti
nella speranza che le pratiche di rigore da costoro praticate possano insegnare
il percorso mirante a sfuggire al principio che regola le rinascite dell’atman
(samsara). Il logico-percettivo Siddhartha si rende conto che nonostante tutte
le mortificazione del “sé” personale, questo rimane sempre là. A livello di
psicanalisi esso è infatti paragonabile al complesso dell’Io. Il protagonista
del romanzo, che è un alter ego di Hesse (il quale nel 1911 si recò in India,
parimenti al filosofo Pirrone di Elide all’epoca di Alessandro Magno, e assorbì
la cultura religiosa indiana), si propone, rimasto deluso dall’esperienza con i
samana, di trovare altrimenti la meta della propria ricerca, la quale in parole
junghiane è possibile indicare nell’“individuazione”: l’assunzione di un
armonico stato dell’Io col mondo, visto come negativo schermo ingannatore dalla
religiosità indiana, scenario dell’esistenza (potenzialmente positivo) nella
psicologia analitica. Dall’incontro col Buddha, Siddhartha e Govinda traggono
lo spunto volto a operare la modificazione della propria personalità.
Quest’ultimo personaggio, da logico-percettivo che era come il primo, diventa
logico-intuitivo; l’altro si volge invece, nella sua insoddisfazione in sentimentale-percettivo,
aprendosi a future esperienze svincolate da preliminari e astratti perimetri di
sicurezza dettati perlopiù a priori sui fedeli di una tradizione antimondana. Siddhartha
scopre il mondo-della-vita, dove è innestata la sua esistenza, e rileva, in
maniera esistenzialistica, una nuova ricchezza, un rapporto positivo, nel
legame tra l’Io e il resto dell’esistente, la Natura, l’Universo. Il problema
inerente al giudizio della mondanità da etico-ontologico, piuttosto che partire
da premesse formali negative, lascia il passo alla concreta esperienza,
cosicché in guisa pratica possa maturare una coscienza della realtà fondata
sopra la diretta esperienza di essa. Hesse ha privato il suo personaggio
principale di una visione pessimistica in stile schopenhaueriano. Siddhartha
quindi si dispone con animo meravigliato, con ingenuità, di fronte alla libido
(junghiana), la quale alimenta il mondo. Il protagonista hessiano è
paragonabile a un Socrate inquadrato dentro un profilo di riflessione esistenzialistica.
Hesse nel suo raccontare riprende un motivo filosofico, quello della voce
interiore, del dáimon socratico, che è stato tanto caro al pensiero dello
junghiano Hillman (fondatore della psicologia archetipica). L’autore del testo
sottolinea un significativo aspetto: l’auto-nomia del dáimon. Nel telaio
narrativo, costruito con elementi progettuali provenienti dalla psicologia
analitica, trova spazio inoltre il richiamo al concetto del Grande Madre,
concetto nel quale la Natura, vita sensibile in atto, assume un valore
adeguatamente rapportato al vivere umano. Siddhartha, che ha esperito l’eros
con Kamala, e i frutti dell’arricchimento grazie all’intraprendenza (dopo
essere entrato in contatto col benestante mercante Kamaswami, mediante
l’interessamento della prima), giunge nel proprio cammino a un punto di
saturazione, dove a causa dell’eccesso nella sua psiche emerge prorompente
l’esigenza di una revisione generale. In Siddhartha termina, muore la “fase
naturale” della libido (in seguito alla quale ogni vivente che vi perviene
riceve la possibilità di condurre un riesame della personale esistenza,
rimodulando ed emendando tutti quei modelli mentali che a una rinnovata luce
apparissero ormai inopportuni e inefficaci, se non addirittura dannosi). Siddhartha
lasciata la sua precedente vita alle spalle, come Dante si smarrisce in una
situazione mortale per lo spirito. Purtroppo la vicenda del tentato suicidio
del personaggio hessiano rappresenta una eco di quello reale tentato dal
creatore del romanzo: Hermann Hesse nel corso della sua giovinezza attraversò
momenti di disagio provocati dal suo ambiente familiare originario imbevuto di
rigorismo religioso pietista. Siddhartha cerca di suicidarsi gettandosi in un
fiume, ma da esso, pentitosi riemerge: è un’immagine molto allegorica, molto
diffusa questa del rinascere dall’acqua. La rinascita spirituale proietta il
protagonista dell’opera nella junghiana “fase culturale” (seguente quella
“naturale”), e altresì lo porta più in avanti nel personale “processo di
individuazione”. In questo momento egli muta ulteriormente il suo assetto
psichico-caratteriale, il quale da sentimentale-percettivo muta in
sentimentale-intuitivo. Siddhartha prende a stare, nella fase conclusiva della
sua parabola, in compagnia di un barcaiolo imitandone il mestiere. Vasudeva
costituisce al pari del Virgilio dantesco un simbolo della razionalità logica (contigua
alla razionalità sentimentale, Beatrice). Quello rappresenta una figura che
compare allo scopo di compensare il segmento psichico junghiano “sentimentale”
del personaggio hessiano. In aggiunta a Vasudeva, l’immagine del fiume si
riqualifica quale metafora della vita universale. In questi tratti del testo il vincitore
del Premio Nobel (nel 1946) attua
una serie di recuperi concettuali filosofici a proposito delle convinzioni che
il suo protagonista assume. La visione del mondo assunta da Siddhartha si
colora non solo di connotazioni religiose orientali indiane ma anche di toni
eleatici, pirroniani. Nella ricerca della felicità (della liberazione: nirvana)
l’Universo in sé non giocherebbe né pro né contro; la totalità dell’Essere
sarebbe in modo concettuale inconoscibile e ineffabile, non esisterebbero in
generale affermazioni vere che scarterebbero le contrarie false. Agli occhi di
Siddhartha esiste possibile solo un mistico cogliere l’autentica atemporalità retrostante
al fenomenismo, un’intuizione dell’unità dell’Universo: il linguaggio umano
sarebbe figlio di un vuoto nominalismo. Nell’ultima parte del romanzo il
protagonista rivede Kamala e si ricongiunge col figlio da lei avuto a sua
insaputa. Il processo junghiano di individuazione di Siddhartha perviene al
culmine col raggiungimento da parte di lui dell’archetipo del “vecchio saggio”.
Questa porzione del prodotto letterario rievoca inoltre uno dei temi classici
della psicologia, il quale riguardò da vicino Hesse: lo scontro generazionale. Alla
fine dell’opera il suo autore ribadisce e puntualizza varie cose. Il fiume
rappresenta la libido junghiana, la vita universale, in cui Siddhartha, aiutato
da Vasudeva, che raffigura un virgiliano supporto (simbolo della razionalità,
promotore della ricerca dell’ordine interiore), si rispecchia raggiungendo una
“noluntas hessiana”. Al contrario di Schopenhauer, Hesse, con Jung, intravede
nella libido (=voluntas) una radice positiva dell’esistenza. Trovare il proprio
posto in quel meccanismo ridà una consapevolezza interiore psichica che produce
la junghiana individuazione: sentirsi armonica parte di un tutto, dentro e
fuori di sé. Il creatore del romanzo ribalta idealmente il pensiero
schopenhaueriano e i principi religiosi indiani: il mondo non è un illusorio,
malevolo contenitore della vita. È il teatro dove ciascuno si trova
gettato-a-vivere, e nel quale usufruisce della possibilità di costruire un
percorso positivo. Usando in modo adeguato ed equilibrato le facoltà umane,
inquadrarsi in un’armonia universale non rimane una chimera. Siddhartha
all’ultimo rivede pure Govinda, cui ribadisce che la Verità è l’Essere, e che
Tutto è Vita. Nella chiusura del testo il suo autore affronta anche l’argomento
del ruolo che l’“ombra” junghiana abbia nell’esistenza. Questo è quello di una
catarsi, nell’auspicio migliore di un attraversamento potenziale dell’eccesso e
di quanto sia male. Nel quadro junghiano del personaggio creato da Hesse
l’ordine portato dalla funzione logica psichica consente uno schietto recupero di
quella sentimentale, la quale a questo punto non si sofferma più in maniera pro
tempore esclusiva su singole cose ma coglie l’Essere nella sua trasversale
dimensione di sottofondo rispetto al fenomenico: l’Essere compenetra tutto il
reale, illusorio o sostanziale che sia, e lo rende “amabile” e lo scioglie
nella sua unità di base.
Nel
2016 è uscito un romanzo di Nieves Herrero intitolato “Los que escondian sus
ojos [Le cose che nascondevano i suoi occhi]” incentrato sulla vicenda amorosa
che nella Spagna franchista legò Sonsoles de Icaza e Ramón Serrano Súñer, una
relazione dalla quale nacque Carmen Díez de Rivera. Tale opera letteraria ha
ricevuto una trasposizione televisiva in una serie a puntate trasmessa anche in
Italia (col titolo “Quello che nascondono i tuoi occhi”). Sonsoles de Icaza
(1914-1996), marchesa di Llanzol, era figlia di un ambasciatore messicano
(Francisco de Icaza, che fu pure un affermato poeta) e di una nobile spagnola.
Ai suoi tempi fu nota come un'icona di eleganza: ispirò un creatore di moda a
disegnare abiti per lei, e allorché ella morì la sua omonima figlia donò a un
museo tutti i suoi abiti. Quando nel ’25 era scomparso il padre la famiglia di
Sonsoles era andata di fronte a difficoltà economiche. La poliglotta sorella
Carmen (1899-1979) a motivo di ciò intraprese una carriera di scrittrice che la
condusse al successo economico e al conseguimento della fama; fu anche attiva
in opere di solidarietà sociale per anni, e in tal ambito ebbe al principio del
regime franchista un ruolo di risalto.
Sonsoles de Icaza
Sonsoles
si unì in matrimonio nel ’36 col marchese di Llanzol, il quale in quel momento
aveva 45 anni. La coppia ebbe tre figli prima che lei tenesse a partire dal ’40
il fedifrago legame con Ramón Serrano Súñer. Costui (1901-2003) era un avvocato
cattolico conservatore anticomunista, che durante il periodo repubblicano spagnolo
(iniziato nel ’31) fu eletto deputato (nel ’33 e nel ’36) quale rappresentante
della destra. Era cognato di Francisco Franco (in mezzo alla gente sarà poi
noto come il “cuñadisimo”): aveva sposato nel ’32 Ramona Polo, sorella della
moglie di quello. A causa della sua azione politica iniziata alla nascita della
Repubblica (con una fallita elezione parlamentare) venne tratto in arresto dopo
l’inizio della guerra civile scatenata nel ’36 dal fronte conservatore (composto
da militari, monarchici e cattolici turbati dalla svolta laica e progressista
dello Stato). Dopo l’assalto del carcere in cui era detenuto, da parte di
un’orda di facinorosi, grazie a un trasferimento in clinica da dove fuggì,
riuscì a riparare alla fine in zona franchista. Divenuto intimo consigliere del
Generalísimo, e di fatto secondo solo a costui, quando nel ’38 la dittatura
franchista si costituì in forma governativa, ebbe importanti incarichi
ministeriali (gli affari interni nel ’38-’40, quelli esteri nel ’40-’42) e nel
periodo ’39-’42 responsabilità dirigenziale di primo piano nel partito unico
conservatore cattolico, un’organizzazione politica nata dalla fusione di gruppi
di destra e della Falange (fondata da José Antonio de Rivera, di cui Serrano Súñer
fu amico). Allo scoppio del secondo conflitto mondiale promosse una politica di
forte vicinanza coi nazisti. Non ottenne che la Spagna entrasse in guerra a
fianco dell’Asse, tuttavia quando i Tedeschi invasero la Russia fece sì che,
senza una formale dichiarazione di guerra, una formazione bellica spagnola di
volontari falangisti, la Divisíon azul, partecipasse all’aggressione dell’URSS (accusata da Serrano Súñer di essere la ragione della lotta intestina spagnola
allora appena conclusasi).
Ramón Serrano Súñer
Il
declino delle fortune militari dell’Asse provocò la sua caduta politica nel
’42, la quale era già stata avviata nel ’41 attraverso delle purghe
dirigenziali antiserraniste. Franco temeva che i nazisti favorissero un golpe
contro di lui (che non era voluto entrare in guerra accanto alla Germania) a
beneficio dello schieramento interno spagnolo filotedesco (capeggiato da
Serrano Súñer). Nel ’42 lo scontro tra falangisti filoserranisti e monarchici
cattolici era stato molto aspro e combattuto: non mancarono scontri in pubblico
e due attentati (uno a scapito di ciascuna parte). Il secondo, quello del 15
agosto, contro il generale Varela, ministro delle forze armate, rimasto vivo,
preoccupò i militari, i quali pretesero la testa del Cognatissimo. Messo
all’angolo da Franco, Serrano Súñer mantenne alcune formali cariche nel regime
franchista, curandosi invece soprattutto della sua attività di consulente
legale. Approssimandosi la fine della dittatura del Caudillo, marcò sempre più
le sue distanze emerse nel dopoguerra. Nonostante ciò nel 2008 fu ritenuto imputabile
da parte del giudice Baltasar Garzón di crimini contro l’umanità, assieme ad
altri 34 franchisti, per vicende legate al franchismo.
Nel
’42 dalla relazione adulterina tra Serrano Súñer e la marchesa di Llanzol era
nata, come anticipato all’inizio, una figlia: Carmen Díez de Rivera. Il
marchese consorte (morto nel ’72) la accolse come fosse una figlia naturale (il
padre biologico non si curò mai di costei). Però, quando ella crebbe, il
segreto fu in modo imprevisto e necessario portato alla luce, giacché ella a 17
anni manifestò ai suoi il personale interesse sentimentale nei confronti di un
figlio di Serrano Súñer (quello omonimo, con cui intendeva sposarsi), in
pratica a insaputa di lei un fratellastro. La sorella di Sonsoles, la
scrittrice, zia omonima e madrina della ragazza, si fece carico, assistita al
momento da un sacerdote, di rivelare alla giovane la verità e quindi gli
impedimenti in quel love affair. In seguito al turbamento provocato dalla
notizia, Carmen si ritirò in convento per quattro mesi, successivamente andò a
fare per tre anni la missionaria in Africa (in aree a rischio di contagio, più
che altro con una vocazione suicida derivata dalla delusione amorosa). Di
indole ribelle, delusa dai familiari che le avevano taciuto la realtà della sua
nascita, per contrasto a una madre difficile, si diede alla moda hippie. Avendo
alle spalle studi politici e umanistici, tornata in Patria poi divenne
collaboratrice di Adolfo Suárez, il politico che traghetterà la Spagna verso la
democrazia dopo la morte di Franco nel ’75. Suárez, ricevuto dal re Juan Carlos
di Borbone (subentrato al defunto Caudillo nella qualità di Capo dello Stato)
l’incarico di Primo ministro, designò Carmen Díez de Rivera quale Capo di
gabinetto del Presidente del consiglio. Ella, donna di particolare fascino
(intellettuale, estetico, e politico, essendo figlia di Serrano Súñer), e di
orientamento ideologico socialdemocratico, sostenne la riapertura delle istituzioni
alla partecipazione democratica di tutti i partiti politici, a partire da
quello comunista. Fu accusata dunque dai settori di destra reazionaria di
essere una comunista, una traditrice, e addirittura una spia. È rimasta nelle cronache
storiche spagnole con l’appellativo di “musa della transizione”: un romanzo del
2013, “El azar de la mujer rubia [Il caso della donna bionda]” di Manuel
Vicente, la rappresenta determinante nel conferimento dell’incarico governativo
a Suárez da parte del re. A causa delle forti tensioni politiche, Carmen lasciò
il suo incarico di Capo di gabinetto, occupato fra luglio ’76 e maggio ’77, ed entrò
nel Partito socialista popolare. Nel 1987 venne eletta europarlamentare con uno
schieramento di Suárez, ma nel 1988 lasciò quel partito per via della sua
collocazione nella destra liberale. L’anno successivo entrò nell’attuale
partito socialista spagnolo. Fu rieletta nel ’94 al Parlamento europeo (dove fu
brillante e ammirata protagonista). Rimasta nubile, mancò prematuramente alla
fine del ’99.
Carmen Díez de Rivera
Negli ultimi mesi di vita si ritirò dall’attività politica
dimettendosi da europarlamentare; alla propria badante si presentò così: «Hola,
buenos días, soy Carmen Díez de Rivera. Tengo cáncer, me voy a morir». Nella
sua esistenza restò amareggiata dal costante atteggiamento del padre biologico il
quale mantenne il più completo disinteresse nei riguardi della figlia naturale:
Ramón Serrano Súñer non riconobbe mai la paternità. Un ulteriore romanzo, di
Luis Herrero, “Dejé de pronunciar tu nombre [Smisi di pronunciare il tuo nome]”
del 2017, narra della vita di lei. Mentre di Ana Romero sono altre due opere di
carattere storico-biografico: “Historia de Carmen” del 2002, “El triángulo de
la Transición: Carmen, Suárez y el rey” del 2013.