di DANILO CARUSO
“Squid game” è stata una distopica serie TV
distribuita in tre stagioni tra il 2021 e il ’25. Il suo contenuto è apparso
interessante alle mie riflessioni critiche sulle utopie negative, alle quali ho
dedicato diversi miei lavori. In particolar modo il connotato sadico messo in
scena ha trovato tangenze con miei pregressi studi pubblicati. La serie,
ambientata in Corea del Sud, descrive lo svolgimento di una periodica sorta di
olimpiade (o campionato, che dir si voglia) cruenta, i cui partecipanti presi
fra la gente comune molto indebitata vengono di gioco in gioco (sono sei in un
ciclo) se perdenti eliminati fisicamente. In virtù di queste uccisioni degli
eliminati il montepremi in denaro cresce. La cosa ne sprona molti a continuare
nelle competizioni, pur potendo chiedere una votazione collegiale dei
partecipanti in vita al fine di deliberare una fine anticipata, con divisione
del montepremi maturato in maniera equa fra tutti loro (in ciò v’è allusione al
meccanismo rousseauiano della “volontà generale”). Simile sadica organizzazione
è stata messa in piedi da un miliardario annoiato, desideroso di novità
emozionanti, in collaborazione con altri suoi pari (nella serie sono chiamati i
VIP). Elementi che nutrono la cornice sadica sono: la scelta di numerose
persone in difficoltà economica (propense, grazie alla prospettiva di un ricco
premio, a inserirsi nel meccanismo competitivo letale), e i giochi di confronto
(i quali sono presi da quelli più noti e diffusi fra i bambini coreani). Tutto
questo insieme mi è parso alimentare nei VIP un sadismo puro. Perciò ho voluto
costruire una analisi pertinente che mettesse in evidenza migliore gli
inquietanti e disturbanti aspetti sadici di “Squid game”. Voglio iniziare dagli
spettatori sadici, i VIP, i quali riflettono bene, seppur non agendo
direttamente sugli abusati concorrenti, l’ideale negativo sadiano. Sono uomini,
ma compare nel secondo campionato pure una donna. La serie offre un esempio di
“tirannia privata” attuata dai sadici VIP. In aggiunta, i giochi competitivi sadici
rivolti ai concorrenti assumono il ruolo di tecniche di abuso, e gli
allestimenti scenici di svolgimento e i sistemi meccanici prendono il luogo di
spazi, tecniche e macchine sadiane di tortura e violenza. Tali gare di “Squid
game” rivelano un connotato molto sadico. Questi abusati in competizione per un
premio in denaro presentano analogie con casi letterari sadiani dove le vittime
in mano ai sadici mirano alla sopravvivenza e a sfuggire a una punizione
superiore: così accade nella serie televisiva dove al di là del sadico sprone
di una vincita pecuniaria, ciascun concorrente ha il basilare obiettivo di
evitare l’eliminazione fisica applicata ai perdenti. Simile dinamica
orizzontale fra gli abusati innesca un aspro confronto inter se, una sadica
generale gara darwiniana, la quale restituisce molto di psicologia sadista, a
livello di dinamica verticale, in direzione dei VIP fruitori dello spectaculum
(v’è una dimensione di scopofilia). I concorrenti in “Squid game” sono di
genere misto, uomini e donne, il che vivacizza lo svolgimento non solo delle
prove. All’interno di un siffatto contesto nella serie TV, e nella diversa
varia pluralistica casistica sadiana, viene meno il principio di solidarietà.
In “Squid game” possiamo notare l’esempio femminile di concorrente che usa la
propria sessualità in funzione manipolatrice verso un altro partecipante
maschio, in maniera alla lunga infruttuosa. Questo, da parte di una donna,
costituisce un dettaglio molto sadiano e si riaggancia ad aspetti emancipativi
sadici e femminili. Alla fine sarà proprio costei a causare durante un gioco le
morti di lei e di questo suo partner inaffidabile poiché più preso
dall’impellenza dell’autoconservazione. Comunque la serie televisiva testimonia
una migliore resistenza dello spirito di solidarietà in alcuni concorrenti
rispetto alla disgregazione in de Sade, dove la possibilità di azione
dell’abusatore non lascia margine alcuno. La scopofilia dei VIP, non invasiva
al 100%, lascia un piccolo spazio dove si inserisce, in modo più o meno fruttuoso,
il protagonista Seong Gi-hun. “Squid game” ha riproposto lo hobbesiano “bellum
omnium contra omnes”, ossia una condizione oggetto di apologia sadiana. De Sade
sostiene che quello stadio di partenza sia il più autentico dell’essere umano,
e che perciò non vada smarrito a causa di una sovrastruttura sociale di
contenimento e di limitazione (lo Stato, il Leviatano): chiunque dev’essere
lasciato libero nella propria area di “tirannia privata”. Lo scrittore
francese, che nella critica sovrastrutturale ricalca Rousseau (però in guisa
più che altro formale), ritrova i suoi auspicati principi sadisti in azione in
“Squid game”: i concorrenti sono liberi di uccidersi sia nei giochi che fuori
di essi. Ciò rappresenta un trionfo del sadismo: la competizione sadica ha
comportato la perdita dell’“umanità” nei partecipanti abusati, essi sono
regrediti al “cattivo selvaggio”, allo “homo homini lupus”. In tale dinamica la
scopofilia dei VIP può tramutarsi in invasiva se consideriamo la forma in cui
l’abusato competitore nella sua lotta possa fungere da surrogato di abusatore.
Una simile cosa alimenta tutte le dinamiche di coinvolgimento orizzontale e
verticale. I VIP sadici hanno letteralmente isolato le vittime dacché queste
cruente competizioni si svolgono su un’isola, la quale appunto assurge a
metafora dello stato psicologico verso cui l’abusatore classico di de Sade
imprigiona le proprie vittime. La fattispecie competitiva di queste, a causa
dell’attore sadico primordiale e principale, fa sì che loro subiscano una
reificazione trasformandosi in pezzi di scacchiera davanti a costui: pezzi
isolati in conflitto, i quali hanno abbandonato in modo disumanizzante la
prospettiva della solidarietà, e che se sconfitti possono essere messi fuori.
Vediamo infatti nella serie TV come la reificazione dei concorrenti sia
simboleggiata da un pezzo mosso sopra un modello in scala di un dato gioco,
pezzo che viene estromesso con significativo sgraziato e brutale gesto se il
partecipante risulta eliminato. L’allegoria traspone un fondo sadico centrale
permeante l’intera narrazione della serie, modellata sui più puri canoni del
pensiero di de Sade. Abbiamo potuto vedere i due casi, del miliardario
fondatore del campionato sadico Oh Il-nam e del Front Man, i quali si sono
finti amici, sodali delle proprie vittime in maniera ipocrita e dissimulatrice
inserendosi fra di questi e partecipando alle sadiche competizioni. Nel corpus
letterario sadiano vi sono sadici che si approssimano ad altri soggetti a scopo
manipolatorio. Ciò accade con i due poco fa menzionati personaggi di “Squid
game “ a scapito della sincera indole di Gi-hun, il quale tiene la parte di una
sadiana Justine, e il quale alla fine morirà al pari di costei. Gi-hun nella
logica della sadica olimpiade si suicida per salvare una neonata venuta alla
luce durante una serie di giochi (la madre era morta e il Front Man aveva a
quella assegnato il posto di partecipazione rimasto vuoto). Non si sa se nello
spin-off Gi-hun possa resuscitare: alla fine della serie madre viene dato per
morto. Comunque, quanto possiamo rilevare è che il premio della virtù in
entrambe le circostanze comparate risulti essere un esito distruttivo.
Nonostante tutto il protagonista della serie testimonia con un gesto estremo la
sua fede kantiana: l’umanità come fine in sé, e non come strumento della
violenza. Gi-hun proclama ai VIP che i concorrenti abusati non sono animali: in
tali parole Kant sfida de Sade. La mia analisi comparata mette in evidenza la
struttura sadista di “Squid game”. Simile sadico campionato si rivela in
generale in sé mezzo di tortura psicologica volta a creare disagio e tensione
nei singoli concorrenti. La “gara sadica” tra vittime, aperta e organizzata,
mirante alla sopravvivenza appare un tema innovativo proposto dalla serie
rispetto al corpus letterario sadiano. Fra l’universo di de Sade e quello di
“Squid game” c’è l’apparente differenza che qualcuno nel secondo disponga di
una concreta possibilità di uscita dal circolo sadico: però a un enorme costo
mentale. Il trauma provocato dalla prima olimpiade sadica cui ha partecipato
Gi-hun lo ha segnato in modo indelebile, al punto di radicarlo nella volontà di
voler annientare quel sistema. Il che lo ha riportato dentro in un’altra
olimpiade a conclusione della quale perirà: o il trauma mantiene il suo peso
nella persona che non ha dismesso dignità e umanità, o l’esperienza traumatica
viene rimossa in maniera disumanizzante. Gi-hun (Justine) ha respinto la
seconda, però ha finito col provocare, in guisa involontaria e indiretta la
propria distruzione. Il Front Man è stato un vincitore pregresso il quale ha
messo da parte quel sadico vissuto, ma nella sua circostanza è passato da
vittima ad abusatore. In parole povere non c’è differenza profonda fra il cosmo
sadiano e “Squid game”. Nel sadico campionato della serie televisiva lo spirito
sportivo olimpico è stato sovvertito: non è più importante il partecipare,
bensì il vincere a qualsiasi prezzo. La sostanziale analogia di fondo tra
l’olimpiade distopica di “Squid game” e il sadismo vissuto dalle vittime nei
romanzi di de Sade è un ridursi dell’abuso a una “gara personale di
sopravvivenza” procrastinante la sofferenza nell’ambito di una simbolica
dialettica Justine/Juliette. V’è un inciso nella narrazione della serie
televisiva il quale potrebbe sembrare in dissonanza con la linea ideale
sadista: l’episodio della rivolta contro i carcerieri e i VIP capeggiata da
Gi-hun. Essa fallisce repressa nella violenza; già ciò la fa rientrare nei
ranghi. Tuttavia questa è allegoria di qualcosa di sadiano evidente: la
resistenza espressa dal personaggio di Justine rappresenta una forma di
ribellione alla forma sadista. I personaggi di Gi-hun e Justine mostrano
diverse tangenze, come già notato. Delle altre cose di “Squid game”
manifestanti conformità col cosmo letterario di de Sade voglio dare aggiuntiva
segnalazione. Cominciamo col confronto avvenuto fra il malato moribondo
miliardario Oh Il-nam, creatore dell’olimpiade sadica, e il disorientato Gi-hun
durante l’intermezzo tra i due campionati cui questo ha preso parte: esso ci
richiama alla memoria la sadiana opera teatrale “Dialogue entre un prêtre et un
moribond”. Proseguiamo. Il sadico prelievo di organi, a scopo di trapianto, dai
concorrenti eliminati, morti o quasi morti (l’organo risulta in questa circostanza
più fresco), curato da alcuni carcerieri guardie, rammenta con enorme
disturbante efficacia la reductio ad rem dell’abusato, ma d’altro canto
letterario ci ricorda altresì episodi di asportazione dalle vittime di sadici
nei testi di de Sade. In tale parallelismo presenza e assenza di una finalità
medica risultano dettagli irrilevanti; qua la cosa da sottolineare rimane la
reificazione del corpo umano, il che appare connotato sadista cardine. Una
nuova indicazione riguarda la vicenda di Kim Jun-hee, la giocatrice n. 222
della seconda olimpiade sadica cui partecipa Gi-hun. Ella è una donna incinta,
di cui ho già dato un cenno più sopra, la quale partorisce nel corso delle
competizioni. La macchina sadista in “Squid game” non si è minimamente presa
cura di lei lasciandola nell’agone. Lei verrà estromessa, e della neonata
(sostitutiva concorrente n. 222) si occuperà Gi-hun (come già detto). Vediamo
tangenze sadiste che ci conducono a “Les 120 journées de Sodome”. In questo
testo sadiano compare la storia di una donna incinta. I sadici abusatori qui,
al fine di acquisire il nascituro al parco delle proprie vittime, non nuocciono
al percorso di gravidanza. Nel confronto con “Squid game” si nota un iter
invertito. Qua parrebbe che il Front Man alla fine del campionato interessato
abbia una iniziativa compassionevole nei confronti della neonata (la vincitrice
concorrente n. 222) giacché la prende e la lascia in buone mani con in dote il
ricco premio. Simile gesto a me non sembra un ritorno d’umanità del Front Man:
è stato lui a decidere la sostituzione della deceduta madre con la figlia, è
stato sempre lui a non muovere un dito durante la gestazione a rischio in
quell’ambiente. L’inversione dei percorsi sadisti che ho testé sottolineato non
ci restituisce in questo caso un valore differente rispetto al parallelo tratto
da “Les 120 journées de Sodome”. Il Front Man ha operato d’ufficio con la
neonata, così come non compassionevole bensì animata da altro pensiero, era
stata la forma tutelare concessa alla gestazione della vittima di “Les 120
journées de Sodome”. Notiamo infatti che entrambi i neonati entrano nella
macchina sadista con identica procedura. La bambina di “Squid game” ha perso la
madre nell’olimpiade sadica, e ciò rappresenta alla lunga un trauma del cui genere
di effetti ho parlato. Il Front Man ha inteso mettere in salvo una Justine o
una Juliette, nulla di più. Il circuito sadista si rivela coerente, a dispetto
di un parallelismo invertito il quale non muta un ordine di valori, bensì
registra soltanto differenti fasi cronologiche. Un’altra cosa che posso dire a
proposito di “Squid game” è che le vittime messe in competizione inter se
maturano una dimensione di conflitto psicologico. Nella serie TV ciò appare
visibilissimo: la partita fra di loro non si gioca unicamente nei confini di
confronto prescritto, ma coinvolge una sfera più ampia dove il sadico esercita
la sua “tirannia privata” grazie alla diminuzione dell’empatia. Costui ha
frantumato il legame umano in singoli oggetti in attrito. Di fronte a simile
fenomeno la solidarietà in “Squid game” si mostra quasi sempre occasionale e
strumentale, non più un fondante valore umano. Nella serie televisiva c’è un
concorrente che custodisce un contenitore a forma di Crocifisso contenente
pasticche di droga. L’immagine tradotta sembra dire: la religione è l’oppio del
popolo (Marx). Un’affermazione la quale condivido. Salvo solo le religioni che
possiedono un carattere speculativo filosofico (come ad esempio l’Induismo), e
considero tutte le altre favole per adulti (in effetti, secondo me, il QI di
questi se misurato mostrerebbe che molti tanto maturi non sono e che mantengono
tratti di ingenuità, parallela alla semplicità dei bambini, ingenuità la quale
può tramutarsi in nevrosi). Non solo marxiana può essere l’interpretazione di
questo dettaglio della serie televisiva, la quale tira in ballo l’argomento
religioso. In quelle pasticche di droga conservate all'interno di quel
significativo contenitore possiamo vedere il “soma” huxleyano così come io l’ho
interpretato nella mia monografia dedicata a “Brave New World”1.
Ovviamente in “Squid game” il tono distopico è di aperta impronta tragica.
Vorrei infine presentare un segmento di riflessione junghiana.
L’interpretazione dell’olimpiade sadica di questa serie televisiva attraverso
il simbolo/allegoria del labirinto (di prove) ci richiama alla memoria il noto
mito del Minotauro, di Arianna e Teseo. “Squid game” sovverte il canonico
mitologico esito liberatorio. Teseo/Gi-hun non uccide il Minotauro (Leviatano
sadista), ne rimane vittima nel distopico salvataggio di Arianna, la neonata di
cui inizia a prendersi cura dal gioco della fune nella serie TV (la corda qui
simboleggia l’inversione del valore del “filo di Arianna” nei confronti di
Teseo: non più un mezzo di salvazione, bensì sadico strumento di abuso). Il
mito filtrato dall’Ombra junghiana, la quale domina il sadismo, si converte
nella labirintica distopia di “Squid game”: il “filo di Arianna” condurrà
Gi-hun alla sua autodistruzione, al martirio celebrante il valore della dignità
umana. Oltre a paragonare il campionato sadico di “Squid game” con una
struttura labirintica articolantesi in settori che presentano a chi viene
costretto ad attraversarla prove molto pericolose, occorre ricordare che il
labirinto inteso come occasione più ristretta e singola costituisce l’ostacolo
da superare nei confronti dei concorrenti abusati durante una delle fasi di
gioco sadico.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio
intitolato “De Sade et quid ‘Squid game’
docet”
1 Il capitalismo impazzito di Aldous Huxley
(2015), pag. 9: il “soma” quale surrogato dell’“ostia consacrata”.