EROS
E LA LIBIDO JUNGHIANA NEL “SIMPOSIO”
di
DANILO CARUSO
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Il busto dedicato a Diotima presso la University of Western Australia con sede a Perth (ivi se ne trova anche uno a Socrate). |
Sono
rimasto perplesso e contrariato dopo la lettura del saggio dell’ottimo
professor Giovanni Reale dedicato al “Simposio” platonico (“Eros demone
mediatore”, pubblicato nel ’97). Esporrò perciò le mie considerazioni di
distacco dal punto di vista analitico di uno dei massimi studiosi italiani del
pensiero filosofico antico. Comincerò categorizzando i motivi di dissenso che
saranno approfonditi. Ho notato nella trattazione del Reale una mira a
cristianizzare Platone. Il dubbio avanzatosi nella mia mente mi fa sospettare
che, smussando le opere platoniche, egli voglia creare una sorta di weiliano
insieme di intuizioni precristiane della Grecità. Il Cristianesimo nella sua
gestazione e nella sua edificazione teologica ha preso in prestito mattoni
concettuali nevralgici dal filosofo greco. La verità dei fatti mostra che
l’Ebraismo alessandrino ha assorbito la filosofia stoica e platonica producendo
una mediazione culturale alla base e nel DNA del Cristianesimo, e fatale per le
sorti dell’Impero romano. Quindi l’ermeneutica del “Convito” condotta
dall’eminente studioso da una rocca ideologica cattolica rivela, secondo me, i
suoi difetti a chi viaggia su binari diversi. Il mio esame della suddetta
monografia ha rilevato sfumature di pregiudizi: uno omofobico, uno misogino,
uno sessuofobico. I quali rientrano alla perfezione tra le storiche
inclinazioni negative della Chiesa. Il professor Reale ha sostenuto che Platone
condannasse l’omosessualità in alcuni passi di vari dialoghi di lui. La mia
impressione non è conforme a questo giudizio, il quale mi pare avvalersi di una
superficiale generalizzazione dell’argomento a beneficio dell’omofobia
giudeocristiana. Procederò ora parlando di questi brani platonici tirati in
ballo. Oltre al “Simposio” si tratta del “Fedro” e delle “Leggi”, e da questi
due partirò. In Fedro 250e-251a Platone afferma che la sessualità vissuta in
modo animalesco, mettendosi a ingravidare le donne come effetto di una pratica
edonistica, è una cosa non idonea all’altezza della natura umana, tant’è che ciò
si palesa «παρὰ φύσιν». La traduzione di questa espressione con “contro natura”
svia il lettore dal cogliere il suo preciso significato nel quadro platonico.
Innanzitutto nel testo essa si riferisce a quanto la precede, e non a un
ulteriore concetto di qualcosa che sarebbe “contro natura”: è facile per una
mentalità post-cristiana cadere in un errore interpretativo costruitosi ad arte1.
Vedremo ancor meglio la faccenda nel momento in cui affronterò i brani dalle
“Leggi”. Per ora, e per quanto riguarda il Fedro, debbo temporaneamente
concludere con il riferimento a 252a-b, dove Platone non condanna l’approccio
omoerotico maschile. Qua egli ribadisce la sostanza del discorso di Pausania
nel “Convito”. Esistono due generali manifestazioni erotiche: una uranica e una volgare. Platone, un’eccellenza del pensiero universale, ha colto
la differenza fra la libido junghiana e quella freudiana. Mi ha stupito non
poco osservare che nel testo del Reale non viene colta la dimensione di Eros
quale libido junghiana (di cui la freudiana è momento parziale). Platone
precorre nel “Simposio” aspetti della psicologia analitica di Jung: la
dialettica dell’Io con una sua controparte psichica nel “processo di
individuazione”. Il brano del “Fedro” testé citato indica una fase esteriore,
estetica, fisiologico-sessuale, la quale rappresenta una tappa individuante presso
cui il soggetto non deve arenarsi. Il motivo del rifiuto di Socrate, menzionato
nel “Convito”, delle avances di Alcibiade trova una sua spiegazione nel fatto
che quest’ultimo non era un compagno adeguato alla prosecuzione di quel
cammino, in primis, ma non esclusivamente, spirituale; un cammino di cui
Platone parla a proposito di unioni sotto il patrocinio di Eros. A mio
modestissimo avviso il professor Reale ha mutilato la gamma erotica del
“Simposio” a ermetico vantaggio della parte alta (la spirituale), sganciandosi
da quella bassa (la fisiologica) dietro possibili, più o meno consci, motivi
religiosi. Infatti egli a conclusione della sua trattazione presenta più un
ideale sessuofobico cristiano piuttosto che la sostanza profonda dell’Eros
platonico. Non vedo santi a quel banchetto descritto, ma uomini, e una donna,
ragionanti sulla base della loro antropologia, che era quella di Platone, il
quale ha cercato di porre la libido in funzione dei più nobili obiettivi (il
politico e il morale). L’omosessualità praticata in ambiti intellettuali
elevati per Platone non è un “peccato” (criterio a lui estraneo, come quello
odierno di “contro natura” in tal caso). Egli predica la continenza (σωφροσύνη: saggezza
che è moderazione), ossia l’ordine
proveniente dal logos, cui si accompagna (in maniera conflittuale o meno)
l’eros; il quale non va soppresso, ma integrato (individuazione junghiana). L’iniziale
reazione socratica davanti all’adolescente Carmide (nell’omonimo dialogo
platonico; si veda in dettaglio 155c-e) non è molto “spirituale”: il Reale
trascura quest’episodio di erotico turbamento, non solo inerente alla normalità
antropologica platonica, da parte di Socrate di fronte al “corpo” di un bel
ragazzo. La prospettiva del “Convito” è omoerotica maschile, tutta particolare
allo sguardo di un osservatore disomogeneo, e non rientrante in un puro canone
junghiano. Tuttavia Platone non ha chiuso le finestre a Jung, anzi nella sua
genialità ha prospettato tre modelli psicosomatici grazie al discorso di
Aristofane: uno eterosessuale (che è quello androginico junghiano, nella coppia
“apollineo/afrodisio”) e due omosessuali, sempre provenuti dai primordiali
esseri umani poi da Zeus divisi, costituenti delle coppie omoerotiche
(“apollineo/dionisiaco”, “ateneo/afrodisio”). L’antropologia del contesto
sociale in cui visse Platone gli consentiva soltanto di celebrare nel
“Simposio” il secondo modello. Però il grande filosofo non ha negato gli altri
due: anzi ha apprezzato Saffo, e d’altro canto il contributo che le donne
possono dare alla società (pur con tutti i condizionamenti di una mentalità
maschilista dominante, la quale tuttavia non era assurda ed estrema come quella
ebraica). Considerato che la linea elaborativa del pensiero platonico nel “Convito”
si muove nel solco dell’accoppiata “apollineo/dionisiaco”, non ritengo che si
possa spiritualizzare in senso cristiano il laboratorio di idee ivi dipinto.
Platone non condanna il piacere sessuale in sé in nessuna circostanza omoerotica,
condanna il suo esercizio fra soggetti prossimi alla realtà animale e non
vicini all’essere umano vero e proprio, il quale è il filosofo, vale a dire
colui che indirizza la libido (l’eros) alle cose più elevate e nobili (la
morale, la politica, la conoscenza, l’arte). Quanto ho detto sin adesso emerge
con nitidezza da un brano delle “Leggi”, 636c. In esso Platone afferma che le
coppie omosessuali (maschile e femminile) sono «παρὰ φύσιν» e che il piacere
del congresso carnale eterosessuale, finalizzato alla procreazione, è «κατὰ φύσιν».
Che cosa vuol indicare, esprimendosi nei diversi casi, con «παρὰ φύσιν» e «κατὰ φύσιν»? Innanzitutto non esiste
opposizione concettuale repulsiva (“contro natura / secondo natura”). Il senso
corretto, a mio modo di vedere, è altro rispetto a quest’ipotesi appena
respinta. Una conformità biologica viene denotata da «κατὰ
φύσιν», l’adeguamento verso un ordine o una legge di
Natura: appunto la coppia uomo/donna possiede quella funzione biologica
procreativa «φύσει [per natura]». La φύσις non contiene questa
possibilità per gli omosessuali. Il legame di questi si configura «παρὰ φύσιν»
nel senso di essere metabiologico, cioè il suo valore va al di là della sfera biologica procreativa. Ed è quanto Platone
sostiene nel “Simposio”. L’isolata libido dell’actus copulandi procreativo agli
occhi del filosofo greco rimane perlopiù a un grado dispersivo e impantanante
freudiano (si veda Fedro 250e-251a). Un bestiale edonismo eterosessuale «παρὰ
φύσιν», andato oltre il suo fine generativo «κατὰ
φύσιν» banalizzando (e si badi a non confondere Eros con
la ἡδονή), e l’eros volgare (freudiano, chiarito da
Pausania), hanno prodotto di conseguenza l’apologia dell’omoerotismo
intellettuale mirante a un piacere metasessuale: tuttavia non è da dimenticare
che si parte comunque da un gradino in cui il coinvolgimento sensuale mette in
moto l’elevazione (la vicenda di Fedro 252a). La scala erotica platonica del “Convito”
parte dal sensibile di connotazione maschile, non si svolge un cristiano itinerarium mentis in Deum, come mi
sembra il professor Reale voglia far apparire. La mia sensazione è che tutti i
personaggi di questo dialogo platonico siano gradini, e credo che, quando si è
arrivati in cima alla scala, non si possa demolire il tratto più basso perché
dà “evangelico scandalo”. Alla fine del brano su citato 636c si afferma che
l’omosessualità ha avuto causa e origine in un piacere mancante di
autocontrollo: ora, per Platone il problema non è la ἡδονή
(la quale è in comune con gli eterosessuali), bensì l’incontinenza, e a tutti i
livelli: quello eterosessuale con eccesso di prolificità biologica; e quello
omosessuale, allorquando, alla stregua dello sgradito Alcibiade, non si
prosegue nel percorso dell’individuazione alla volta del guadagno interiore
dell’ordine, ma si rimane attaccati a un consumo di energia libidica di
estrazione freudiana. Platone vorrebbe che tutti cogliessero la valenza
junghiana del suo Eros, il quale porta lontano, e non demolisce i ponti alle
sue spalle. Ricordiamoci, per inciso, che Jung ebbe delle amanti tra le sue
pazienti: ciò non è casuale, è qualcosa di socratico-platonico seguente la
coppia erotica “apollineo/afrodisio”. Platone sottolinea le cose appena dette,
all’inizio di 636e, dove, qui davvero, adotta un concetto equivalente al
post-cristiano “contro natura” nell’espressione «ἐκτὸς
τῶν καιρῶν»:
al di là delle (fuori delle, lontano dalle) giuste misure (opportunità). Chi
«senza conoscenza [ἀνεπιστημόνως: privo di
sapere, ignorante]» e senza καιρός gode della ἡδονή non sceglie de facto una condizione di vita
piacevole: la tirannia del lato umano animale non è garanzia di felicità. La
smodatezza e l’eccesso oltre il confine del καιρός
rappresentano per Platone il vero sostanziale problema (Jeremy Bentham aveva
colto questo nocciolo nel paragrafo nono della sua postuma pubblicazione
“Offences against one’s self”). In tal modo possiamo comprendere ciò che il
filosofo greco afferma, ancora nelle “Leggi”, in 836a-c. Sorge una questione
legata all’omosessualità nella misura in cui la smodatezza turba il regolare
andamento della vita sociale e l’ordine costituito, non in quanto problema
morale in assoluto. Platone condanna l’Eros volgare della dicotomia di
Pausania, non quello uranico. Infatti puntualizza che il possibile ricordare la
conformità sessuale biologica («τὴν τῶν θηρίων φύσιν») rappresenta un aspetto
meramente formale nei confronti dell’omosessualità; la quale è «μὴ φύσει»,
idest un quid non appartenente all’ordine biologico, bensì a quello spirituale
dell’individuo. I tre possibili accoppiamenti del discorso aristofanesco del
“Simposio” lo dimostrano, poiché assumono un valore psichico in prospettiva
junghiana. A proposito di tale ottica è utile aggiungere che Platone nel
“Fedro”, in 252d-253c, parli di adeguamento archetipico: chi è mosso da Eros,
segue un modello simbolico prenatale. Platone argomenta di Dei, al cui seguito
le anime, in attesa del loro ritorno nel mondo fenomenico, starebbero. Il
soggetto su cui l’amante riversa la sua attenzione erotica perfeziona
quell’inclinazione archetipica e la sprona verso l’eccellenza e alla scoperta
della sua radice metafisica. Tutti avrebbero in tal guisa un archetipo, fra i
differenti, da seguire: Platone ha altresì anticipato James Hillman e la sua
psicologia, di matrice junghiana, archetipica. Hillman ha rintracciato nel
solco della tradizione neoplatonica nozioni in nuce della riflessione di Jung
(inconscio collettivo, archetipi, anima, complesso dell’Io, immaginazione
attiva, sincronicità), e ha indicato tre precorritori: Plotino, Marsilio
Ficino, Giambatista Vico. Gli smodati che preoccupano Platone costituiscono un
problema psicologico e pure politico nel momento in cui la dimensione si
accresce. L’archetipo da seguire e l’accoppiata aristofanesca cui adeguarsi
sarebbero nella visione platonica stabiliti a priori: i mali per la società,
cui Platone accenna, sorgono dal discostarsi da tale preordinamento e/o dalla
smodatezza, non da una moralizzazione cristiana delle problematiche. È come se
Platone stesse dicendo: «Va’ con ordine (logos) dove ti conduce il cuore
(eros)». Questo è il significato dell’allegoria della biga del “Fedro”: si
tratta di un junghiano processo di individuazione visto dalla parte maschile.
La ragione (l’apollineo) deve trovare il suo equilibrio con la sfera libidica
(composta di sentimenti, emozioni e passioni). In “Leggi” 837c-d Platone
tramite il concetto di ἁγνός chiarisce e ribadisce il nucleo del suo pensiero. Non usa simile
aggettivo direttamente, ma altri termini con la sua radice semantica (lo
adopera invece in Fedro 254b): usare l’aggettivo nella spiegazione offre
l’opportunità di afferrare meglio quanto contenuto nelle parole platoniche. Chi
traduce i due vocaboli utilizzati da Platone (e l’aggettivo stesso)
agganciandoli alla post-cristiana idea di “castità” porta fuori strada, secondo
me, il lettore, al pari della circostanza di “contro natura”. Se parliamo di
castità appiccichiamo sant’Agostino alle “Leggi”. Platone appartiene a un altro
universo culturale. L’aggettivo ἁγνός si riferisce a persone e
cose: la seconda opzione fa per noi in quanto l’oggetto platonico di
riferimento è il corpo, e più
precisamente quello della persona su cui si catalizza l’eros (la libido).
Suddetto aggettivo indica la qualifica del corpo
quale luogo-dell’anima: consacrato,
venerato. Il corpo è il tempio-dell’anima: il primo a scoprirlo
è stato Platone; il Cristianesimo ha copiato, radicalizzato e distorto un’idea
di portata più ampia. La religiosità greca antica non era sessuofobica,
esisteva una non stupefacente ierodulia sessuale (dato che la sessualità
femminile permette stati intuitivi metafenomenici). Pertanto la purezza
religiosa che Platone assegna all’amante nei confronti della persona amata è sì
qualcosa di nobile, paragonabile all’attributo di un atto liturgico sacro, però
non è cristiano obbligo di castità sessuale. La liturgia erotica platonica deve conformarsi all’ascendenza
archetipica, all’ascendenza psicosomatica aristofanesca
(“apollineo/dionisiaco”, “apollineo/afrodisio”, “ateneo/afrodisio”), non andare
«ἐκτὸς τῶν καιρῶν». In ambito eterosessuale, l’amore cortese
medievale rappresenta di essa parziale riproposizione, per rendere l’idea
dell’amore platonico. Nel brano dalle “Leggi” esaminato, Platone mette a fianco
dell’amante (ἐραστής) un ἐρώμενος (amato): egli non sta discutendo né di monaci né di
smodatezza. I termini ἐραστής/ἐραστή, ἐρώμενος/ἑρωμένη, non specifici della filosofia
platonica, indicano a tutti gli effetti i componenti di una coppia (omo o
etero) fondata su un legame di natura erotico-sessuale: nel nostro caso un
amante più maturo si prendeva cura di
un amato che attraversava il suo periodo adolescenziale, preparandolo ad
assumere il suo ruolo sociale da adulto. Platone presenta un modello pedagogico:
la pederastia. Un modello cui l’Alcibiade del “Convito” non si è conformato
alla perfezione. Costui è rimasto “dionisiaco”, disordinato (si veda Fedro
254b): perciò Socrate lo ha rifiutato. Questo avrebbe sprecato il suo “oro” in
cambio di “volgare bronzo”. Se Alcibiade, la rovina di Atene, si fosse elevato
allo stadio aureo, Socrate non l’avrebbe respinto. Il primo non aveva compreso
che il suo compito era quello di diventare un nuovo Socrate davanti agli altri.
Il “dionisiaco” in maniera enantiodromica, nello schema pedagogico platonico,
dovrebbe rovesciarsi in “apollineo” in funzione di una successiva enantiodromia
a parti invertite. Il fallimento di Alcibiade costituisce la lezione negativa
del “Simposio”: il disordine interiore non è un bene (pensiamo al V canto dell’Inferno
dantesco). L’ideale è: il logos che integra l’eros, ossia l’individuazione
junghiana. Siamo dunque nelle condizioni di capire che la difesa della famiglia
biologica attuata da Platone nelle “Leggi” (si veda in particolare 838e-839a)
non si avvale di una cornice motivazionale morale (tanto meno filocristiana).
Platone è preoccupato dalla questione demografica, dal pensiero che l’eros
volgare di Pausania dilaghi distopicamente e che il genere umano si possa
estinguere per l’assenza di unioni κατὰ φύσιν: se bisognava tener separati i maschi, è evidente che al cospetto di
Platone il suo auspicio formativo del “Convito” non avesse avuto pratica nella
realtà sociale, e che al contrario l’exemplum di Alcibiade fosse assorto a
distopia al punto tale di doversi cautelare in tutti i modi. A mali sociali
estremi, estremi rimedi pragmatici: esaltazione della famiglia biologica,
condanna esplicita dell’eros non uranico. Però la smodatezza la quale ha comportato
questa presa di posizione platonica non cancella le più genuine visioni
filosofiche, antropologiche e politiche di Platone. Il discorso di Aristofane
aveva prospettato una solida base a tutti gli orientamenti sessuali (Simposio
191e) e idealizzato il modello “apollineo/dionisiaco” (191a-192b) in un
contesto storico generante altre considerazioni platoniche. È da notare che
tuttavia il Platone delle “Leggi” non è un accidente filosofico. In Simposio 192b
il filosofo ha perfetta consapevolezza che la conformazione alla coppia
“apollineo/dionisiaco non è «φύσει» e
che ciò allontana dal mettere in atto la procreazione eterosessuale. Egli qua
puntualizza che per gli omosessuali maschi l’avere figli scaturiva da una
costrizione della legge. Ecco spiegato lo spirito delle “Leggi”: il peso dei
νόμοι (usi, costumi) si era alleggerito nella coscienza civica, pertanto bisognava
dare un giro di vite. Platone nel suo ultimo dialogo prevede che gli uomini
prendano moglie tra 25 e 35 anni, contempla altresì una tassa sul celibato con
gravi sanzioni progressive per i recidivi. In breve, non ha fatto altro che
convalidare, qui nel dettaglio, 191a-192b del “Convito”, e in generale
prospettare una struttura sociale adeguata all’attuazione della scalata
erotica, la quale è il fine di questo scritto. La “Repubblica” è soltanto
posticipata nei suoi obiettivi, sebbene opera anteriore alle “Leggi”. I
programmi di tali due opere platoniche sarebbero da intendersi pragmaticamente in
relazione a due stadi evolutivi storici consecutivi (similmente – nella forma –
all’escatologia marxista, dove alla fase socialista, con la dittatura del
proletariato, segue la fase comunista, con l’anarchia naturale). In entrambi
questi dialoghi di Platone si aggira lo spettro del “Simposio”. Giunto a questo
punto non mi pare che si possa sostenere l’immagine di un Platone omofobico e
sessuofobico, teorico di un casto amore
spirituale, il quale in fin dei conti alimenta l’erronea idea divulgatasi
dell’eros platonico: non si tratta solo di sguardi; il tiaso saffico, ad
esempio, rientra nella casistica di istituti dove l’eros platonico veniva
celebrato, e possiamo dire in “maniera religiosa”, come Platone richiedeva a
posteriori (Saffo non gestiva un collegio di suore, bensì un sistema
associativo il quale, in versione maschile, Platone esemplifica e idealizza
nell’iter del “Convito”). Penso di aver motivato a sufficienza la mia diversità
di vedute rispetto all’illustre professor Reale per ciò che concerne la
presunta omofobia platonica, e in parte per ciò che riguarda l’ipotetica
sessuofobia nel “Simposio”. Proseguirò da quest’ultimo punto, prendendo in
esame un’operazione ermeneutica del Reale condotta nel suo saggio menzionato
all’inizio della mia modesta riflessione. In alcuni capitoli finali della
monografia l’eccellente docente dà l’impressione di volersi sbarazzare di
Diotima. Verrebbe facile pensare a misoginia cristiana di riflesso, però la questione
è profonda, più di quanto un lettore ingenuo possa notare. Da Fedro ad Agatone
e Socrate, Giovanni Reale ha definito i personaggi del “Convito” maschere di
una rappresentazione di Platone. Fin qua niente di strano, anche se io li
interpreto più come tappe di una fenomenologia erotica. Allorché entra in scena
la sacerdotessa di Mantinea, il metodo ermeneutico delle maschere del professor
Reale si complica e si aggroviglia, per me, in modo confusionario e indebito.
Diotima, latrice di una “rivelazione” definitiva sulla natura di Eros,
diventerebbe maschera di una maschera, di Socrate, e costui si convertirebbe di
conseguenza in maschera di Agatone. Basterebbe pensare alla repulsione
platonica nei confronti delle imitazioni-delle-imitazioni per comprendere che
un gioco narrativo siffatto, di secondo grado non può essere attribuito con
facilità alle intenzioni di Platone. Ma in aggiunta a questa semplice
osservazione, altre sostanziali invalidano la teoria interpretativa delle
doppie maschere nel segmento narrativo coinvolgente Socrate e Diotima. Questa
stranissima, parziale, circoscritta particolarità di trattamento analitico
mostra vistose crepe ai miei occhi. La prima è ricollegabile a una visione
misogina cattolica su accennata: da quel che noto il Reale paleserebbe un’avversione
teologica a una “rivelazione” di chiusura sul tema affidata a una donna. Egli
non ha per niente chiarito il perché Platone metta in campo una sacerdotessa e
non un sacerdote, ha aggirato un concetto (platonico e junghiano) che tra poco
apprezzeremo meglio. Comprendo che per un comune cattolico la Rivelazione sia
fatta da uomini e da Gesù Cristo in primis: quindi ogni individuo che non ha
forma naturale di “vir”, secondo costui, non potrebbe assumere nel Cristianesimo
dignità sacerdotale o profetica (la Bibbia a tal riguardo non offre
alternativa: dalla Madonna alle sante poi si è sviluppata una teologia di serie
B, sessuofobica e misogina, durata a lungo). Sarebbe intollerabile dunque che
una donna, in quanto tale e non desessualizzata, sia il medium della verità
suprema su Eros. Tuttavia questo non può dar adito, con tutto il massimo
rispetto nei confronti dell’ottimo studioso, a un gioco delle tre carte
(Agatone, Socrate, Diotima) per togliersi dall’imbarazzo e dall’impaccio di una
donna che istruisce un uomo, e per far scomparire la sacerdotessa di Mantinea.
I teologi cristiani rabbrividirebbero a leggere della Vergine Maria che insegna
qualcosa di teologico a Gesù. Volendo cristianizzare Platone, l’effetto di
Diotima con Socrate è analogo nei riguardi di un critico di formazione
cattolica. Perciò mi sono prefisso di salvare l’autenticità della sacerdotessa
di Mantinea dal suo simbolico femminicidio mediante una maschera di secondo
grado2. Se Platone nel “Simposio” pone una donna al culmine della
conoscenza erotica, non è lecito sostenere che quella “rivelazione” sia farina
del sacco socratico: ha parlato Diotima; non è possibile peccare di paranoia nei confronti del filosofo greco, inventare sue
contorte intenzioni. L’ermeneutica del Reale della doppia maschera mi pare
fortemente pregiudiziale, e il motivo è stato illustrato. Platone non è un
cristiano, ha sì dato molto al Cristianesimo; però cristianizzare il filosofo
non serve a rendere originale la religione che si è servita di lui,
trasformandolo in un precursore filosofico della vera religione rivelata. Il cap. V della sezione terza del secondo
volume della “Storia della filosofia antica” di Giovanni Reale (pagg. 270-271)
intitolato “Platone profeta?”, invece, sostiene quest’idea. La storia dimostra
l’originalità di Platone (e dello stoicismo), e la costruzione artificiale di
una nuova religione3. La misoginia cattolica non gradisce il ruolo
di Diotima, il quale nel dialogo platonico è puntuale e nevralgico.
Esprimendoci in quei termini junghiani che si confanno a Platone, non possiamo
non riconoscere, nel filosofo antico, la presenza di quei concetti simbolici,
psichici (meglio definiti da Jung), di maschile e femminile a proposito di logos
ed eros. Nessun uomo, in quanto tale biologicamente, potrà impersonare una
purissima incontaminata razionalità (quasi fosse un macrobo lewisiano), e
viceversa una donna non è solo caratterizzata da sentimenti, emozioni e
passioni. Ogni essere umano partecipa di questi psichici “maschile” e
“femminile. Platone lo ha capito: il “dionisiaco” è “femminile-mascherato”. Nell’ambito
del dibattito culturale intitolato “Pornosophia”, in occasione della
manifestazione “Popsophia” a Civitanova Alta, il 14 luglio 2012, Valentina
Nappi ha dichiarato di richiamarsi nella sua attività al dionisiaco
nietzschiano e ha accennato a una specie di
predestinazione (archetipica) personale. Soltanto la figura simbolica di
una donna può esporre la natura di Eros. Platone lo sa, e Socrate (l’apollineo,
il razionalista) può unicamente ascoltare: uno “shema” al femminile. Il coro
delle donne corinzie della “Medea” di Euripide (625-635) ammonisce che mentre i
legami amorosi («ἔρωτες») straripanti fuori della moderazione sono forieri di
effetti negativi, d’altra parte i rapporti opposti sono più amabili e
desiderabili, e ancora auspica la vicinanza paterna della σωφροσύνη («στέργοι
δέ με σωφροσύνα»), ritenuta il dono divino più bello. Diotima è autentica
perché è il simbolo reale, nella forma fisiologica, dell’eros (libido). L’«esteso
mare aperto del bello (Convito 210d)» rievoca l’immagine delle “acque
primordiali” (costituenti un principio femminile). Nella matrice linguistica
indoeuropea esiste un verbo (“ran”) avente in comune con “eros” la radice
(r/er), e che vuol dire
“dirigersi-verso/la-forza-vivificante-delle-acque-universali”, e quindi
“godere” e “provare gioia”. Per la precisione, “eros” e tutti i vocaboli affini
sono un derivato dell’indoeuropeo “ram”
(=appartarsi; su cui scende il concetto di “un amore esclusivo”). Platone ci fa
comprendere come “il bello” sia un prodotto della sintesi tra “maschile-logico”
e “femminile-erotico”. La bellezza
rappresenta un equilibrato sinolo di materia libidica junghiana e di
forma ordinatrice razionale: la sua gamma spazia dal sensibile al
metasensibile. La bellezza è l’abito
della verità: nessun poeta, forse, ha colto meglio di John Keats, nei suoi
versi, quest’intuizione platonica (“Ode su un’urna greca”, vv. 49-50). Nel
“Simposio” poi la sacerdotessa di
Mantinea esce di scena giacché il dialogo esalta l’omosessualità
maschile; ma la coppia aristofanesca pertinente a questa
(“apollineo/dionisiaco”) ripropone sempre il dualismo psichico junghiano
“maschile/femminile”. Platone, come visto, contrariamente a Jung prevedeva più
di due schemi di possibilità individuanti del soggetto: “apollineo/dionisiaco”,
“apollineo/afrodisio”, “ateneo/afrodisio”. Si tratta di sei possibilità a
differenza delle due junghiane (“Io maschile / anima”, “Io femminile/ animus”),
le quali anch’esse però in fin dei conti si riconoscono e si esemplificano
nell’immagine del sommo archetipo androginico. Quest’ultimo rappresenta quella
medaglia dalla doppia faccia di Verità e Bellezza, di Logos ed Eros, che
Platone e Keats pongono in fondo quale meta e premio del viaggio dell’anima.
Sicché l’educazione al e dal bello sarebbe il miglior antidoto ai mali umani:
il weiliano diritto alla bellezza e l’intellettualismo etico socratico non
potrebbero avere migliore prospettiva di quella platonica. Platone è
consapevole della centralità del problema pedagogico: una corretta arte
(specchio del metempirico) e la conoscenza allontanano dal disordine, e aiutano
a edificare una società giusta. Guerre, violenze e odi potrebbero essere
scacciati dal potere del bello e dalla catarsi della coscienza storica,
coronati da una vocazione alla filosofia. L’impegno filosofico e politico
platonico testimonia questo pensiero utopico. La lezione del “Convito” si è
manifestata di natura junghiana in vari aspetti. Il dialogo ha usato simbologie
alchemiche ante litteram: l’oro di Socrate e il bronzo di Alcibiade. L’ottica
finale è alchemica, poiché auspica una sizigia fra ratio e libido, lungo una
strada, quanto prima, lastricata di equilibrio
(σωφροσύνη). La materia-eros allorché sarà inquadrata nella forma-logos
consentirà alla ragione di cogliere tutta la gamma del bello, la cui sezione
più nobile, uranica, è un possesso specifico rivolto all’umanità: gli animali
non hanno produzioni intellettuali, artistiche o scientifiche, né paralleli
processi fruitivi. La forma suddetta, in senso assoluto, costituisce il
principio determinante platonico; la materia, ancora nella stessa linea
generalizzante, costituisce il determinato. Dalla loro interazione sintetica
scaturisce il cosmo metafisico delle idee παρὰ φύσιν, e quindi tramite
un’azione demiurgica il mondo fenomenico κατὰ
φύσιν. L’eros platonico universale, l’esteso-mare-del-bello,
nello sviluppo della filosofia, si ripresenterà nella voluntas schopenhaueriana, e nella libido junghiana (le idee dell’iperuranio e gli archetipi
dell’inconscio collettivo sono determinazioni universali: logiche le prime,
libidiche le seconde). Non è fuor di luogo adesso rammentare che nella
psicologia analitica di Jung le funzioni soggettive logica e sentimentale sono facoltà
di un asse razionale: il che allinea alla visione metafisica platonica dove la
ragione, come nel sistema junghiano, è una capacità in teoria dominante. Alle
funzioni junghiane razionali παρὰ
φύσιν si contrappongono quelle dell’asse dell’irrazionalità: l’intuizione e la
percezione. Queste sono κατὰ φύσιν, cioè legate al mondo fenomenico: una concerne il riceverne
sensazioni; l’altra riguarda la possibilità del soggetto di un contatto
metafisico o di una conoscenza superiore non mediati dalla razionalità,
potenziali azioni attuantisi dall’interno del fenomenico verso il suo esterno.
La ierodulia sessuale rientrava nella categoria della funzione intuitiva: in
parole junghiane, operavano ierodule intuitive sentimentali (la reazione misogina del monoteismo occidentale, di stampo
giudaicocristiano, produrrà invece l’antitetica figura della “strega” da
perseguitare). Per Platone il destino del microcosmo umano è quello di elevarsi
alla nobiltà dell’anima (termine nell’accezione platonica). Chi non ha la forza
di farlo rimane zavorrato allo stadio più basso della sua sfera biologica e
distrugge la sua natura intima. Questo il “messaggio” del “Simposio”: un
“messaggio” di amore e concordia universali. Alla fine dei miei due gruppi di
ragionamento, a sostegno e a spiegazione delle considerazioni a carico
dell’opera citata dell’eminente professor Giovanni Reale, voglio aggiungere due
corollari. Il primo inerisce alla figura della flautista nel “Convito”. La
discussione “razionale” su Eros è stata sottesa dalla sua assenza:
l’allontanamento di una in apertura e il ritorno di un’altra, all’ultimo,
assieme ad Alcibiade. Tale dettaglio non mi sembra casuale. Perché compaiono
altre due donne in questo dialogo platonico? La risposta è quella di sopra:
sono simbolo dell’eros. Platone vuol dire che il dibattito precedente
l’ingresso di Alcibiade e della suonatrice si è svolto sotto l’egida
dell’obiettività razionale. Il che non deve essere tradotto in un discorso
maschilista, come già chiarito, giacché compare all’interno della trattazione
Diotima. Il filosofo greco ha compiuto un’analisi pure psicoanalitica, e a
indicare che la libido è transbiologica mette accanto ad Alcibiade la seconda
suonatrice. Ella rappresenta al pari della prima, l’eros sensuale, il quale è
momento della scalata erotica, però non presente in atto in quella riflessione
razionale su Eros. Ho l’opportunità di corroborare meglio tale corollario
ricordando che l’immagine del “suonare-il-piffero” per un Greco antico poteva
assumere un valore figurato (mediato da una metafora conducente ad αὐλός), il
cui significato traslato oggigiorno è sopravvissuto nella lingua inglese nel vocabolo
“blowjob”. Se Platone inserisce l’auletride in quel banchetto dedicato a un
esame di Eros, lo fa per dire che, quantunque la sensualità e la sessualità
agita stiano nella prima metà della scala erotica, questa prosegue, senza che
tuttavia si debba demolirne il primo tratto. Spaziare sulla gamma erotica, in
libertà con ordine,
è l’optimum platonico. La smodatezza è
il problema: i piaceri sessuali sono più brevi di quelli intellettuali,
tuttavia non sono incompatibili o rivali nel soggetto equilibrato. Lo smodato
non coglierà la bellezza non immediata e rimarrà inferiore nei confronti del
filosofo, l’unico a realizzare la vera natura umana nel suo essere un
ricercatore motivato dal bello negli oggetti della sua attenzione erotica
(libido junghiana). Nel secondo corollario, brevemente, segnalerò una mia idea
sull’origine dell’omosessualità, illustrata in un mio precedente lavoro4.
In questa sede mi limiterò ricordando che considero l’indirizzo personale
sessuale non conforme alla propria forma biologica non una malattia né
un’anomalia, ma motivato dall’impronta fisiologica, sull’attuale Io, di
un’esistenza precedente (condivido l’idea della metempsicosi). L’omoerotismo,
pertanto, a mio avviso, è una dimostrazione dell’esistenza sostanziale
dell’anima: Platone non afferma esplicitamente un concetto del genere, però, e
in altra maniera, lo sottintende, come si è potuto osservare.
1 Mi sono
occupato di analisi letteraria biblica e di traduzioni distorte, e so bene che
una voltura figlia di una violenza sul testo può far dire cose in esso non
contenute. Invito a leggere dei miei testi: la monografia “Ermeneutica
religiosa weiliana (2013)” e, in particolare attinenza coi temi qui esaminati,
l’analisi intitolata “Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi”
contenuta nella mia opera “Considerazioni letterarie (2014)”.
2 Diotima
subirebbe una sorte accostabile a quella di Mabel Brand, analizzata nel mio
saggio “L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.
3 Per iniziare
un approfondimento rammento, in aggiunta a quelli della nota 1, altri miei
studi all’interno dei miei saggi “Considerazioni critiche (2014)” e “Note di
studio (2016)”.
4 Si veda la
nota 10 della mia opera intitolata “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis
(2017)”.