di
DANILO CARUSO
Di
sicuro dev’esserci un inferno, poiché in nessun
posto minore potrebbe essere possibile per voi
ricevere la punizione adeguata ai vostri crimini.
Finché voi esistete, c’è un bisogno vitale del
fuoco infernale nel Cosmo.
Credetemi,
nel momento in cui arrivo a gettare
bombe, farò danni. Ci sarà di più che fumo
nei miei petardi.
Jack
London, “The Iron Heel”
Il
Californiano Jack London (1876-1916) è stato uno dei più prolifici autori della
letteratura mondiale. Sua madre era una spiritista e insegnava musica; non si
sa con esattezza chi fosse il di lui padre: quello presumibile, un astrologo di
origine irlandese, la abbandonò durante la gravidanza, e lei si sposò con un
altro uomo nell’anno di nascita dello scrittore, il quale da lui prese il
cognome. Quando Jack scoprì per caso nel 1897 la verità sulla sua venuta al
mondo, e che la madre allora aveva cercato di suicidarsi in seguito alla
richiesta d’aborto del partner, rintracciò il presunto genitore il quale se ne
lavò le mani adducendo una sua impotentia coeundi e che le affermazioni a di
lui carico fossero calunniose. Quest’episodio e le sue inevitabili conseguenze
sull’animo del giovane scossero la vita futura dello scrittore per parecchio
tempo, divisa tra impegno intellettuale e ricerca di un orizzonte pratico.
Abbandonati gli studi regolari, fu un autodidatta. Non disponendo di risorse
economiche ampie sino all’affermazione letteraria, si diede da fare con enorme
spirito di sacrificio in vari ambiti (anche illeciti). Ebbe una vita abbastanza
priva di buon senso e moderazione, il che non giovò alla sua salute. “The Iron
Heel” di Jack London, romanzo distopico pubblicato nel 1908, è un testo dove
l’autore non ricerca comuni vie di affabulazione salottiera. Si presenta
roccioso e tenace, forte e cosciente della verità in esso contenuta. Colpisce
chi è abituato a un clima mediatico soft, urta senza dubbio i perbenisti di
qualsiasi schieramento, lascia indifferenti gli sprovveduti lettori i quali lo
scalano sprovvisti dell’opportuno equipaggiamento mentale. La veemenza
londoniana rischia di rimanere mal compresa se non ci caliamo nel contesto
storico i cui effetti negativi e le cui cause sono evidenziati e denunziati
all’occhio della giustizia sociale. Il capitalismo angloamericano ottocentesco
non è stato una bestia gentile. Questo famelico vampiro dalla Rivoluzione
industriale di fine ’700 proseguiva lo sfruttamento umano ai tempi del libro di
London. Egli può sembrare aspro nel sostenere le sue idee marxiste, ma la sua
asperità nel romanzo offre un percorso che non è oggigiorno per tutti. Si può
leggere il racconto dalla prima all’ultima pagina, tuttavia capirlo a fondo è
altra cosa. Se non ci rendiamo conto della lotta, non solo ideologica, tra il
capitalismo americano e il socialismo londoniano, non avremo compreso molto.
L’autore californiano si mostra, se così vogliamo dire, “feroce” perché il suo
avversario è spietato. “The Iron Heel” ha la superficie di un ludo letterario
gladiatorio distopico: questa maschera costituisce parte della verità
sostanziale di un più denso narrato, il quale la sfrutta a mo’ di cavallo di
Troia presso i lettori (ecco una considerevole abilità). Quindi vedremo che il
confronto tra socialisti e capitalisti negli USA veste i panni di una
dialettica durissima e reale: al di fuori di questa realtà il testo può
apparire all’ingenuo osservatore esagerata fantasia rivoluzionaria, quando tale
atteggiamento trova invece comprensione (e forse anche giustificazione) nella
vampiresca vocazione messa in pratica dal capitalismo. Rimane scontato che
davanti alla ragione non si possa teorizzare una gratuita azione violenta, però
il marxismo di London assume spunti di legittima difesa da un assalitore che
non desiste. Pertanto il suo impeto di giustizia non sorge da folli
elucubrazioni interiori, bensì dall’osservazione dei fatti, i quali sono, come
affermerà il protagonista del romanzo (Ernest Everhard), il fondo obiettivo da
prendere a riferimento nelle valutazioni e nella conoscenza. Personalmente non
condivido la condanna londoniana della metafisica (e per giunta apprezzo il
pensiero filosofico di George Berkeley, da lui criticato), ma non mi sento di
non offrirgli la mia comprensione nei confronti di quelli che a me paiono
limiti intellettuali (poiché io sono di indirizzo spiritualista). Il fatto che
«Berkeley manteneva l’invariabile condotta di attraversare le porte invece dei
muri» non è «prova che la metafisica di Berkeley non andava bene»: si può
replicare che in genere gli uomini hanno l’obbligo ontologico di rispettare le
leggi di Natura. È corretto dire che i fatti costituiscono la verità delle cose
(verum et factum convertuntur), però
che questi siano circoscrivibili a un ambito materialistico secondo me è falso:
ci sono eventi metafisici, ad esempio le emozioni, le idee nella nostra mente,
che non credo prodotti di una distillazione biochimica (la quale sarebbe una
facciata fisiologica e non il movente). Un altro punto filosofico in cui divergo
da London viene offerto da quel brano dove egli dichiara il marxismo estraneo a
Rousseau: non è così. Lo stato di Natura
rousseauiano ritorna in Marx nella definitiva “fase comunista” della
storia, dopo la “dittatura del proletariato” (“fase socialista”). Restituiamo
comunque la parola a Jack London e al suo interessantissimo racconto il quale,
allorquando registra, esamina, e giudica i fatti sociali, è inoppugnabile.
Messa da parte la sua repulsione metafisica, non possiamo misconoscere la
sincerità della sua ansia di giustizia. La crudezza di Ernest al cospetto di un
alto religioso ricorda alcuni toni evangelici nel momento in cui attacca lo
storico connubio “Cristianesimo / potere politico-economico” (un’alleanza che
ha tenuto ai margini e sfruttato gli altri): «L’uomo ordinario è egoista. […]
Egli non dovrebbe essere così, ma continuerà a esserlo sino a quando vive in un
sistema sociale che è fondato sopra l’etica del maiale [pig-ethics]. […] La
pig-ethics […] è l’essenza del sistema capitalistico. E quello è ciò grazie a
cui la sua chiesa sta in piedi, ciò che voi avete intenzione di proclamare tutte
le volte che andate sul pulpito. La pig-ethics! Non esiste altro nome per essa.
[…] Il proletariato è cresciuto al di fuori della Chiesa e senza la Chiesa. […]
E non scordate che, ogniqualvolta un ecclesiastico protesta, egli subisce
l’emarginazione [si veda ad esempio il caso di Don Milani, in aggiunta a quello
letterario del vescovo Morehouse, cui queste parole sono rivolte; n.d.r.]». Il
machiavellismo vaticano non ha consentito nei secoli input di reale
miglioramento della società, come del resto ha fatto il Cristianesimo in
generale. Nel ’900 gli ortodossi in Russia sono stati meno fortunati dei protestanti
in America, dove per altro verso la schiavitù dei neri negli ambienti religiosi
aveva trovato teorici ben disposti a recuperare basi bibliche e teologiche
(London ricorda ciò, e in effetti nella Bibbia non c’è un rigetto dell’istituto
schiavistico). Primaria voce narrante di “The Iron Heel” è Avis Cunningham,
figlia di un borghese progressista, un professore universitario, il quale ha
introdotto nella sua casa di Berkeley e negli
ambienti alti dell’area di San Francisco l’autodidatta proletario Ernest (un
intellettuale marxista che «aveva una padronanza enciclopedica del campo
conoscitivo»), alter ego di Jack London. Quest’impostazione narrativa non mi ha
lasciato indifferente. Il pretesto, proiettato nel futuro, di un manoscritto
femminile (vergato nel 1932), scoperto e pubblicato nel XXVII sec. (con una
breve premessa e note di commento di tal Anthony Meredith), manoscritto il
quale racconta la storia distopica, ha già di per sé il pregio di una posizione
femminista, non misogina (quindi lontana dalla tradizione giudaicocristiana).
Questa prospettiva espositiva è ben riuscita perché concede a Avis una
profondità del personaggio la quale, in veste di junghiano, ritengo
testimonianza del pregio del romanzo. Il testo di Avis inizia il suo racconto nel
(futuro) 1912: la protagonista, allora ventiquattrenne, è una giovane donna di
cui London elogia le «woman’s intuitons» e la quale constata che «la forza
virile era un’irresistibile attrazione nei confronti delle donne». Ci sono gli
elementi nel racconto per concepire l’avvicinamento tra Avis ed Ernest (che
finiranno per sposarsi) in termini junghiani. Un Io femminile si avvicina al
proprio “animus”, perciò ha luogo un’alchemica sizigia anima/animus. Ernest si
presenta nei panni di difensore della razionalità contro l’irrazionalità
nevrotica capitalistica: «I socialisti erano rivoluzionari […] i quali
lottavano al fine di sovvertire l’irrazionale società del presente e fuori di
essa costruire la razionale società del futuro». A dire la verità, vedo nella
costruzione di suddetta cornice muliebre del quadro narrativo, e nella stessa
sostanza del personaggio di Avis, una mano di donna. Ho un fortissimo sospetto
che il testo originario del romanzo londoniano sia stato quanto meno ben limato
dalla seconda moglie dello scrittore americano. Alcune acutezze femminili
inerenti alla figura della voce narrante ufficiale, a mio parere, hanno
provenienza dalla psiche di una donna. Il meccanismo junghiano su rilevato
(anima/animus, Avis/Ernest) non penso venisse in toto dal sacco di London. Si
tratta di una farina mista, molto raffinata. Sono propenso a ritenere che,
nella redazione di “The Iron Heel”, l’autore avesse trovato una Diotima nella
consorte. Charmian Kittredge (1871-1956; una persona molto emancipata in campo
sessuale), sua seconda sposa (dopo una di lui separazione) dal 1905, possedeva i
requisiti di studio utili a compiere ciò che suppongo. Ciò non significa
sminuire Jack London: tutti possiamo imparare da tutti, e poi in comunione
spirituale di beni – eccettuato il metodo abusivo di Walter Keane – è
ammissibile un siffatto reciproco sostegno fra coniugi. Se Charmian ha scelto
di restare di sua volontà defilata in tale eventualità di collaborazione, va
rispettata la sua posizione. Ma lo sguardo critico non può ignorare qualcosa
che a me sembra più che un dubbio nel processo di gestazione della distopia.
Rinvengo infatti nel testo tratti di un bipolarismo maschile/femminile, e la
cosa, in rapporto all’idea di un redattore unico, mi pare strana sotto il
profilo psicologico (si veda in particolare l’elevata concentrazione di
“femminilità” nella seconda metà del cap. XI e nel cap. XIX). Questo fenomeno è
di certo involontario, dato che il romanzo ha natura sociopolitica. Modelli introspettivi
biforcati, molto profondi, non si addicono a uno scrittore materialista il
quale si identifica appunto in Ernest. Jack London è costui; Avis, secondo il
mio avviso, è Charmian, la quale potrebbe/dovrebbe essere la fonte diretta di
regia della prima. Il complesso di annotazioni di approfondimento di Anthony
Meredith non esprime una personalità forte, egli è un fantasma dell’utopia e
non assume una rilevanza caratteriale: è descrittivo, critico sì, ma piuttosto
distaccato (come esige del resto la costruzione testuale di “The Iron Heel”);
dunque possiamo immaginarlo come una colla
di pesce narrativa. A ulteriore sostegno della mia ipotesi posso ricordare
che l’autore californiano non era estraneo a ricevere una mano d’aiuto da parte
delle donne a lui vicine. La prima moglie Elisabeth Maddern (1876-1948), da cui
ebbe due figli, era un supporto nella materiale redazione su carta dei testi
londoniani. Testimonianza invece di una collaborazione attiva, durante il primo
matrimonio, si ha invece nell’esplicita circostanza di un romanzo epistolare
scritto assieme a un amante (la socialista Anna Strunsky): “The Kempton-Wace
letters”. Al di fuori di Charmian, nella circostanza di “The Iron Heel”, non
intravedo altra donna disponibile a essere l’apportatrice di un contributo
sostanziale, e non vale la pena andare lontano in operazioni così delicate
(peraltro il secondo matrimonio di Jack London fu per lui più felice rispetto
al precedente). Nella realtà dei coniugi London e nel romanzo trova sede un
circuito di reciprocità il quale abbraccia il concreto e la finzione. Un altro
grado di elementi ad appoggio della mia idea che Charmian London avesse messo
qualcosa di sé nella creazione della distopia proviene da alcune precise accuse
di plagio nei confronti dello scrittore americano, una delle quali riguarda
proprio “The Iron Heel”, e per la precisione il cap. VII (ricalcante “The bishop of London and public morality” di Frank
Harris). Tutto
questo prova che Jack in qualche modo si arrangiasse, percorrendo vie non del
tutto limpide nel corso della scrittura dei suoi libri. E di ciò non faccio una
colpa, un demerito, un limite, come ho già puntualizzato. In effetti la
produzione letteraria londoniana, pari a circa 20 milioni di battute, è molto
considerevole in relazione a uno scrittore morto quarantenne; avrebbe una media
annua non inferiore al milione, mentre una media più normale si aggirerebbe
intorno a 300.000 battute. Il che fa riflettere sui suoi possibili metodi. Ma
non ci sarebbe da scandalizzarsi. London era uno scrittore autentico; quanti
oggi, maldestri da non saper nemmeno copiare, scrivono senza conoscere bene la
grammatica della lingua in cui si esprimono, o pensando che redigere uno scritto
equivalga a riempire le pagine di parole (magari di pensierini fluttuanti
nell’anarchia). Pertanto la cosa opportuna da fare, secondo il mio punto di
vista critico, è comprendere i fenomeni della scrittura londoniana, e
proseguire l’analisi della distopia tenendo presente il metro di lettura che ho
assunto e chiarito. Nel romanzo Avis, approfondendo la vicenda di un uomo
licenziato dopo aver perso un braccio lavorando come prestatore d’opera in una s.p.a.
cui partecipa la sua famiglia, scopre a poco a poco, dando prosecuzione a una
primordiale sollecitazione di Ernest, lo squallore dei sepolcri imbiancati del
capitalismo. Scarsissime, pressoché nulle, sono le tutele nei riguardi degli
operai, giacché le imprese grazie ad abili avvocati e al personale dipendente
adeguatosi ai diktat del profitto, superano indenni le cause giudiziarie per
incidenti sul lavoro: nessun riconoscimento assicurativo viene dunque concesso
a chi subisce un danno inabilitante, in nome della difesa dell’accumulazione
del capitale. Media asserviti garantiscono il silenzio sulle scomode fastidiose
verità. Un aspirante giornalista dice a Avis, a proposito del gravissimo
infortunio oggetto della di lei ricerca, e sul quale ella avrebbe voluto si
pubblicasse la verità a vantaggio di quell’uomo: «Noi siamo organici ai gruppi
di interesse […]. Se lei pagasse le quote degli annunzi, non potrebbe far
giungere qualche argomento simile dentro il giornale». Su tutte le ingiustizie,
a scapito di soggetti rimasti disoccupati e invalidi, si erge il delirio della
grande ipocrisia ideologica liberista da parte dei capitalisti. Riguardo a costoro
ribadirà Ernest a Avis: «Quando loro vogliono fare una cosa […] devono
attendere sino a che là nei loro cervelli germogli, in un modo o nell’altro, un
concetto […] stante il quale la cosa è corretta […], ignari del fatto che un
lato debole della mente umana è che il volere [the wish, la voluntas
schopenhaueriana; n.d.r.] è genitore nei confronti del pensiero. […] Loro
vedono persino la loro maniera di agire male in un’ottica in virtù della quale
possa venire il giusto [qui c’è parecchio del metro comportamentale del Dio
veterotestamentario; n.d.r.]. […] Loro si eleggono arbitri dei fatti di milioni
di affamati e di tutti gli altri milioni dati in aggiunta». I capitalisti si sentono
al pari di Elohiym, e la nevrosi weberiana ne condiziona la psiche1.
Jack London coglie detto contorto intreccio di religione cristiana (non solo
protestante) ed economia capitalistica, tuttavia il suo deficit materialistico
non gli offre l’opportunità di maturare una visione avanzata della dicotomia
marxiana struttura/sovrastruttura. Il volontarismo nevrotico, l’ambizione di
salvezza dalla morte e di eterna beatitudine, rappresentano una costellazione
ossessiva posta sotto la struttura socioeconomica, dentro la persona. È
dall’universo psichico che l’apparato strutturale trae origine, ritornando in
forme simboliche e allegoriche nella religiosità sovrastrutturale: in contesti
capitalistici la religione cristiana non è un optional, rappresenta la punta
dell’iceberg. Il capitalista prende molto dall’immagine del Dio
veterotestamentario. Il capitalismo estremo configura oggettivamente le basi di
uno scontro sociale il quale può degenerare nella violenza a causa della
mancanza di equilibrio e moderazione. La dicotomia sfruttati/sfruttatori genera
rivoluzionari, e la storia lo dimostra. Questo tema crea il motivo della tensione
emersa nel romanzo durante l’iniziale episodio di confronto ideologico svoltosi
al club degli amanti-della-scienza (filomati). Il duello verbale intrapreso da
Ernest costituisce lo specchio di una situazione reale dominata da vampiri pronti
all’uso radicale della forza pur di proteggere e mantenere le loro posizioni di
predominio e potere. London dipinge i suoi avversari con i caratteri che li
distinguono: «egoismo […], assenza di vita intellettuale […],[…] stupidità
della classe dominante[…],[…] volgarmente materiali […],[…] senza una reale
moralità […]». Quasi tutta la gamma borghese si identifica in questo DNA. In
quel dibattito, come prima, nel romanzo, Ernest mette i capitalisti alle
strette. Tra l’altro sottolinea il modo in cui al moderno progresso scientifico
e tecnico si è accompagnato, in maniera inversamente proporzionale, il regresso
delle classi sociali basse coinvolgendo ancor meglio nella barbarie del lavoro
salariato i piccoli, strappati a una corretta crescita. L’autore della distopia
in precedenza aveva rammentato altresì che gli speculatori non si fossero fatti
scrupoli, dagli albori del regime capitalista nella società occidentale, a
utilizzare manodopera muliebre non osservando criterio alcuno di riguardo (in
omaggio a quella “mano invisibile” la quale ha impoverito i più e arricchito
un’oligarchia): l’intervento della legislazione statale in queste materie è
giunto ovunque in ritardo, similmente alla dottrina sociale della Chiesa. Vale
a dire quando non si poteva fare a meno di porre un argine alla degenerazione
che avrebbe caricato di risentimento e di velleità sovvertitrici gli spiriti
rivoluzionari esasperati da ingiustizie ai limiti dei crimini contro l’umanità.
Andando avanti nel testo London non trascura di indicare la vocazione
irrazionalistica del capitalismo anche nella dinamica fra i detentori della
ricchezza, poiché «il gioco degli affari è di fare profitti a scapito di altri,
e prevenire gli altri dal fare profitti a vostro svantaggio». Nel momento in
cui imprenditori di livello inferiore sono sopraffatti da grandi gruppi
affaristici, emerge l’ipocrisia di rivendicazioni difensive di fronte alle sconfitte
in campo economico (relativismo pragmatico). La riflessione londoniana conduce in
direzione di spunti critici di pertinenza aristotelica, riferiti al concetto di
“politeia”. Non sempre ne viene colto il significato in maniera nitida. Si
parla di Aristotele come del teorico di una società fondata sulla classe media,
il che non rende alla perfezione la sua idea. La “politeia” aristotelica
esprime in primis degli indicatori negativi: gli eccessi che debbono essere
evitati (la sua interiorità costituisce materia successiva). Una società ben
funzionante dev’essere equilibrata, non deve contenere il disagio diffuso
(presso il proletariato) e una ricchezza estrema (in possesso di pochi). Jack
London nel suo marxismo è involontariamente aristotelico nella sua denunzia
messa in bocca a Ernest. La “politeia” londoniana è, a suo modo, lo Stato
socialista. Il sistema sociale degli USA giace nelle mani dei gran sacerdoti
del Dio denaro: «Professionisti e artisti sono oggi servi feudali in ogni cosa
tranne che nel nome, mentre gli uomini politici sono dei paggi. […] Professori,
predicatori e direttori di giornale mantengono i loro lavori tramite il servire
la Plutocrazia, e il loro servizio consiste nella diffusione solo di idee le
quali sono o innocue o apologetiche nei riguardi della Plutocrazia. Tutte le
volte che diffondono idee minaccianti la Plutocrazia, costoro perdono il loro
lavoro, nel qual caso, se questi non hanno provveduto per il giorno piovoso,
discendono nel proletariato e o periscono o divengono agitatori popolari. […] Sono
la stampa, il pulpito e l’Università che plasmano [mould; lo stesso termine
usato come sostantivo vuol dire “terriccio”: ecco che ritorna il riflesso
dell’Elohiym dell’Antico Testamento; n.d.r.] l’opinione pubblica, fissano il
passo del pensiero della nazione. Per quanto riguarda gli artisti, loro fanno
semplicemente i ruffiani verso i gusti un po’ meno che ignobili della
Plutocrazia». Sino alla prima metà di “The Iron Heel” la facciata politica è
quella della democrazia borghese, corredata di tutti i suoi difetti, i quali si
possono leggere in dettaglio nel racconto. Ernest, nelle sue varie circostanze
di esposizione del punto di vista socialista, ha proseguito ciò che de facto si
rivela una propaganda marxista (il romanzo londoniano in relazione a simile
aspetto rivela un obiettivo di formazione politica inserentesi in quella
cornice femminile rappresentata da Avis). Jack London parla del plusvalore
marxiano e dell’essenza espansiva del capitale, preconizza il crollo mondiale
dell’economia capitalistica allorché questa non troverà ormai mercati a
beneficio della sua indefinita produzione. Ma compie un errore di valutazione,
il quale ha radice marxiana. Un assetto globale privo di spazi commerciali
efficienti indurrà i gruppi capitalistici superiori ad aggirare la
globalizzazione auspicata da Marx. Difatti è possibile distruggere porzioni di
spazio altrui in maniera tale che queste divengano aree d’investimento. E la
cosa è fattibile persino ottenendo una previsione di doppio profitto: nel
momento distruttivo (producendo e vendendo materiale bellico), e nel momento
costruttivo (fornendo quel che occorre ai progetti di ricostruzione). Ci accorgiamo
dunque che la dialettica storica di Marx non corre così lineare, anzi assume
moti retrogradi. Far maturare ad arte contesti bellici e di devastazione
spalanca le porte a buoni affari. Il capitalismo è irrazionale, però i
capitalisti più forti, nelle situazioni estreme, davanti alla loro brama, sono
in grado di elaborare soluzioni funzionali. Siffatta malsana intelligenza, del
resto, indica comunque un’espressione di irrazionalità. Chi promuove conflitti
a scopi di guadagno vaga nell’oscurità dell’“ombra” junghiana. Suddetta organicità
di capitalismo e guerre, nella coltivazione del profitto, è nota a London, e invero
ne parla anticipando il principio totalitario orwelliano (in “1984”) in base a
cui war is peace. Tuttavia lo
scrittore californiano compie lo sbaglio su menzionato di non vedere al di là
della dogmatica teleologia storica marxiana: la fluidità progressiva di questa
non è così scontata fuori dell’ortodossia ideologica. La storia novecentesca ha
addirittura mostrato regimi comunisti estintisi in favore del ritorno al
capitalismo. Io non confido nello spirito di intraprendenza popolare che
reagisce eroicamente davanti alle ingiustizie, la penso come La Boétie2.
Quegli insiemi oggi amorfi, nelle società capitalistiche, chiamati popoli,
esprimono un valore medio spirituale basso. Non vedo in qual modo si potrebbe
dar torto ai teorici delle aristocrazie del pensiero alla guida dello Stato.
Tutto passa dall’educazione scolastica: la presenza di molti ignoranti nelle
materie sociali e politiche vanifica la democrazia trasformandola in
feudalesimo. Ernest Everhard rappresenta un exemplum pedagogico: ha imparato a
comprendere il mondo che lo circonda e sa vedere lontano. Jack London era
eccessivamente fiducioso sulle capacità delle masse di raggiungere la
fratellanza tra i popoli e il benessere diffuso a beneficio di tutti. Ciò non
vuol dire che fosse ingenuo, tant’è che la seconda metà del romanzo mette in
scena la repressione interna negli USA accompagnata dal dubbio costante su
quale sarà il comportamento dei lazzari
nell’ora della rivoluzione proletaria. L’intuito londoniano scruta
nell’orizzonte futuro romanzesco statunitense una crisi economica nel 1912, e
una propensione al conflitto bellico con la Germania dovuta a quella dialettica
di produzione e spazi commerciali capitalistici sopra approfondita. La
solidarietà proletaria internazionale grazie a scioperi nazionali di Tedeschi e
Statunitensi impedisce alla guerra di protrarsi avanti. Questa è indubbiamente
una pagina esemplare nel racconto londoniano, purtroppo le due guerre mondiali
insegneranno che il disordine della ragione è poco imparentato col buon senso a
qualsiasi livello sociale e ovunque (persino l’URSS staliniana adotterà
connotazioni patriottiche nella guerra alla Germania nazista, accantonando
l’ideale di trasversalità internazionale dei proletari). In questo svolgersi di
vicende, siamo ancora nel 1912 (anno d’apertura di “The Iron Heel”), abbiamo
assistito all’emarginazione di persone nocive a un iniquo sistema. Nella realtà
storica degli USA misure di tutela economica nei confronti dei lavoratori
(pensioni, indennità per malattia o disoccupazione), garantite da un ente
pubblico (“Social security”, in pratica un equivalente dell’INPS), furono introdotte
nel ’35 all’epoca della grande crisi degli anni ’30 durante la presidenza del
democratico Roosevelt. Il “Social security act” nasconde dentro di sé una
motivazione poco nobile: impedire la contrazione dell’insieme dei consumatori e
dei consumi cagionata da inedia e povertà a danno della produzione
capitalistica e dei profitti, viceversa poteva essere adottato prima. Appunto, il
progetto di epoca rooseveltiana mirante alla creazione di una sanità dove fosse
presente anche lo Stato fu affondato dagli interessi lobbistici: qualcosa del
genere, ma a tutela di un novero non totale dei cittadini degli USA, arrivò
soltanto nel 1965 con i democratici. Il diritto a un vitalizio durante
l’anzianità dei prestatori d’opera proletari viene rivendicato nella distopia
londoniana da Avis. Questo muliebre dettaglio narrativo mi fa ricordare l’opera
sociale e filantropica promossa da Eva Perón in Argentina, e in particolare
quel proclama sui diritti degli anziani il cui contenuto è stato assunto in
maniera ufficiale dall’ONU nel 19913. Quando Avis ci esterna questo
suo pensiero ha incontrato lungo la strada il vescovo Morehouse perseguitato
per aver aperto gli occhi, grazie a Ernest, su un’ingiusta ipocrita società. Le
di lui parole a ella disorienterebbero chiunque: «Ho venduto […] Tutti i miei
possedimenti. […] Non conoscevo che cosa significasse mezzo milione di dollari
finché non mi sono reso conto di quante patate e pane e burro e carne potrebbero
comprare. E poi ho compreso qualcos’altro. Mi sono reso conto che tutte quelle
patate e quel pane e burro e carne erano miei, e che io non avevo lavorato per
produrli. Allora mi fu chiaro che qualcun altro aveva lavorato e prodotto essi
e ne era stato derubato. E quando io scesi tra i poveri trovai quelli che erano
stati vittime del furto e che avevano fame ed erano infelici poiché erano stati
derubati [Jack London ha, oltre al Vangelo, rammentato – velata – la dottrina
marxiana sulla proprietà borghese; n.d.r.]». Capita di rado sentire (e vedere)
qualcosa di simile da parte di qualche benestante e prestigioso dirigente
ecclesiastico. Il padre di Avis, dal canto suo, è stato privato, attraverso
pretesti inventati, delle sue proprietà e del suo rango sociale, a causa della
sua scarsa simpatia plutocratica, ed è finito ad abitare con la figlia e il
genero Ernest in un povero quartiere di San Francisco. In mezzo a questo non
agevole contesto, un nutrito manipolo di deputati socialisti, fra cui lo sposo
di Avis, viene eletto alla Camera dei rappresentanti al termine del ’12. Jack
London impone all’organizzazione suprema del capitalismo statunitense un’imago
simbolica: «the Iron Heel». Il Tallone di Ferro, nel portare avanti il
consolidamento della sua egemonia, causa una stagione di scontri sociali
interni molto violenti, di cui a farne le spese sono gli avversari (borghesi
della middle class, proletari,
socialisti). Dice Avis: «L’oligarchia con mano di ferro e tallone di ferro
sopraffaceva milioni che si agitavano come il mare, fuori della confusione
portava ordine, fuori del gran caos batteva il ferro delle proprie fondamenta e
della struttura». The Iron Heel speculava altresì a proprio vantaggio su una
situazione politica estera instabile, segnata da lotte di emancipazione sociale
nazionali. Altre puntuali parole di Avis schiariscono le idee sul livello di
irrazionalità dilagante a inizio del ’13 londoniano: «Mentre tutto il mondo era
lacerato dal conflitto, noi degli Stati Uniti non eravamo calmi e pacifici. […]
Un risveglio religioso prendeva campo. Un ramo dei Seventh Day Adventists saltò
alla volta di un improvviso risalto, proclamando la fine del mondo. […] La
gente, il che era frutto della sua infelicità, e della sua delusione in tutte
le cose terrene, era matura e impaziente per un cielo dove i tiranni industriali
entrassero non più dei cammelli passati attraverso la cruna di un ago. […] Si
era agli ultimi giorni proclamavano, il principio della fine del mondo. I
quattro venti erano stati sciolti. Dio aveva sollecitato la nazione alla lotta.
Fu un tempo di visioni e miracoli, mentre profeti e profetesse erano numerosi.
La gente smise di lavorare a centinaia di migliaia e sparì sulle montagne, là
per aspettare l’arrivo imminente di Dio e l’ascesa dei 144.000 in cielo. Ma nel
frattempo Dio non venne, e loro soffrirono la fame fino alla morte in gran
numero. Nella loro disperazione saccheggiarono le fattorie per il cibo […].
Eserciti di squadroni di cavalleria furono schierati, e i fanatici furono
ammassati indietro con l’argomento della baionetta verso le loro mansioni nelle
città. Lì loro esplosero sempre tra ricorrenti resse e rivolte. I loro leader
furono giustiziati per sedizione o imprigionati in manicomi. Quelli che furono
giustiziati accolsero la morte con la contentezza dei martiri. Fu un’epoca di
pazzia. L’inquietudine era diffusa». Il contrario della “politeia” aristotelica
ha preso un robusto corpo. Il conflitto socialismo/capitalismo negli USA,
nell’ultimo quarto del romanzo, si evolve in una lotta armata di rivoluzionari
sovversivi contro uno Stato dittatoriale. Passando dall’arresto dei
parlamentari e di molti esponenti socialisti, fra i quali Avis ed Everhard,
London avvia l’esposizione di una teoria di resistenza cruenta. I due
protagonisti, divenuti latitanti, rimangono al centro di quell’organizzazione
antirepressiva guidata dai marxisti. La situazione è ormai degenerata, e
l’autore del romanzo però non si rende conto che l’intelligenza reale di un Tallone
di Ferro non spingerebbe mai le tensioni sino alle estreme conseguenze di un
conflitto campale. Il miglior modo di corroborare un sistema capitalistico
oppressivo consiste nel mantenere istituzioni democratiche in funzione di
specchietto per le allodole, tanto poi il potere della corruzione conduce la
nave sulla rotta gradita all’oligarchia economica. Un clima rivoluzionario è
storicamente un effetto collaterale nei Paesi di non elevata
industrializzazione. Le società del capitalismo avanzato assimilano gli
impetuosi spiriti dei cambiamenti, come in una sorta di mitridatismo,
depotenziandoli. Viene lasciata una democratica soglia di libertà con cui
impiccarsi. Se London fosse giunto a leggere Marcuse – ma anche prima – si
sarebbe reso conto che lo scenario di “The Iron Heel” è molto remoto. Il vero Tallone
di Ferro cerca di accomodare l’assetto sociale e politico posto a garanzia dei
suoi interessi. Gli eccessi repressivi, di cui exempla l’episodio del generale
Beccaris a Milano nel 1898 e quelli descritti nella distopia londoniana, sono
degli errori controproducenti. Nell’ombra si disgrega meglio l’opposizione
ideologica. Se questa diviene pratica, armata e violenta, allora il campo
avverso è chiamato a una risposta omogenea, e qui le cose per i capitalisti si
complicano. Uno Ernest, il quale è l’incrocio tra Che Guevara e Michael Collins
(indipendentista irlandese), nei fatti non sarebbe mai emerso dalla struttura
sociale degli USA. Il suo teatro operativo si può più avvicinare a Cuba e
all’Irlanda che non a uno sfondo statunitense. “The Iron Heel” potrebbe essere
ambientato nell’Argentina dell’ultima dittatura, giacché egli parla di
desaparecidos e di resistenza delle sinistre (in tal ultima circostanza,
peronisti montoneros e marxisti). Di certo si può obiettare che il romanzo
abbia una costruzione di fantasia. Però io non ritengo che Jack London avesse
immaginato un pericolo illiberale senza ritenerlo possibile, anzi è dato
pensare il contrario in osservanza alla sua ortodossia marxista: se la
borghesia si sentirà minacciata dal movimento storico di cambio della classe
dominante, a di lui avviso, reagirà, e lo farà nella maniera, sempre a di lui
giudizio, più efficace. London ha sbagliato qua. Quel poco avveduto Tallone di
Ferro da lui descritto userebbe quei metodi brutali laddove i mezzi mediatici e
gli espedienti politici democratici non avessero effetto sulla popolazione, e
questo non è il caso degli USA. Infatti i bolscevichi in Russia hanno avuto
successo, paradossalmente e a dispetto della filosofia della storia marxiana,
grazie alla qualità medievale dei loro avversari. Dal 1917 in poi lo stupore di
Jack London sarebbe stato nei confronti degli eventi storici molto forte,
sebbene prevedesse il successo del marxismo negli USA lontanissimo (e per la
verità rinviato mediante una via opposta al corso reale dei fatti). Il romanzo
londoniano, dopo la scomparsa dell’autore, nella sua veste distopica è
risultato distante dalla realtà statunitense, e quindi là innocuo; ma più
suggestivo e più pericoloso in quei luoghi del mondo dove le oligarchie plutocratiche
avessero recitato il ruolo del Tallone di Ferro oppressivo e violento. In linea
di principio occorre sostenere con fermezza che l’uso della forza non è il modo
ottimale per risolvere i problemi sociali, e che essa debba essere una extrema
ratio nella legittima difesa della dignità umana davanti ad abusi intollerabili
che non abbiano trovato una pacifica rimozione. In “The
Iron Heel” la violenza esposta nella parte finale è eccessiva, non si può
liquidarla quale prodotto letterario poiché attiene a precisi riferimenti
concreti e non a una isolata dimensione narrativa. Quelle cose descritte sono
successe, anche se non negli USA, diverse volte nel ’900, e ciò deve servire da
insegnamento: comprendere non significa giustificare, c’è da far tesoro del “negativo”
a difesa di una crescita dell’umanità in direzione di una convivenza senza
sperequazioni fra tutti gli individui. Nella finzione distopica londoniana un
primo tentativo rivoluzionario fallirà alla fine del 1917 (nella realtà andrà
meglio in Russia). Ernest Everhard sarà catturato e giustiziato nel ’32 alla
vigilia di un altro moto per il cui successo egli aveva speso moltissime
energie; il quale tuttavia al pari del primo non avrà esito positivo, e in
seguito a cui – dice il commentatore letterario Anthony Meredith – Avis fu
probabilmente uccisa. La dimensione temporale di commento di Meredith è
collocata nel XXVII sec., il quarto dalla caduta del Tallone di Ferro (durato
tre secoli) e dall’affermazione del socialismo: London immaginava una gestazione
lunga. A conclusione della mia analisi voglio esprimere alcune ulteriori
considerazioni critiche utili a illuminare la profondità della materia
londoniana elaborata nella distopia. Avis, il cui manoscritto è posteriore alla
morte del marito, definisce Ernest un’aquila in “The Iron Heel” tre volte. La
prima volta, subito, nel cap. I (intitolato proprio “My eagle”) si esprime con
parole il cui tono ricorda un brano del prologo de “La razón de mi vida (1951)”
di Eva Perón (1919-1952). Avis: «Quando non penso al futuro, penso al passato
non più esistente – alla mia Aquila, che batte con ali instancabili il vuoto,
che spicca il volo verso quel che era sempre il suo sole, l’ardente ideale
della libertà umana. Non posso stare nell’ozio e attendere il grande evento che
è un suo frutto, benché egli non sia qui a vedere. Lui consacrò tutti gli anni
della sua età virile a ciò, e per esso diede la sua vita. Ciò è un suo
prodotto. Lo ha fatto lui. E così accade che, in questo ansioso tempo di
attesa, scriverò di mio marito. C’è molta luce che io soltanto fra tutte le
persone viventi posso proiettare sopra la sua figura, e un così nobile
personaggio che non può essere celebrato avanti troppo luminosamente. La sua
era una grande anima, e, quando il mio amore cresce nell’altruismo, il mio
supremo dispiacere è che egli non sia qua a vedere l’alba del domani». Evita: «Io
non ero né sono niente che un umile donna… un passero in un immenso stormo di
passeri… Ed egli era ed è il condor gigante che vola alto e sicuro tra le cime
e vicino a Dio. Se non fosse per lui che discese fino a me e mi insegnò a
volare in un altro modo, io non avrei saputo mai quello che è un condor né
avrei potuto contemplare mai le meravigliose magnifiche immensità del mio popolo.
Perciò né la mia vita né il mio cuore mi appartengono e niente di tutto quello
che sono o possiedo è mio. Tutto quello che sono, tutto quello che ho, tutto
quello che penso e tutto quello che sento è di Perón. Ma io non mi dimentico né
mi dimenticherò mai che fui passero né che continuo a esserlo. Se volo più in
alto è grazie a lui. Se cammino tra le cime, è grazie a lui. Se a volte tocco
quasi il cielo con le mie ali, è grazie a lui. Se vedo a elevato costo quello
che è il mio popolo e lo amo e sento il suo affetto carezzando il mio nome, è
soltanto grazie a lui. Perciò gli dedico, interamente, questo canto che, come
quello dei passeri, non ha nessuna bellezza, ma è umile e sincero, e ha tutto
l’amore del mio cuore». Avendo ricordato Eva Perón, non reputo superfluo
sottolineare varie tangenze di pensiero e di spirito tra il suo “Mi mensaje (1987)”
e “The Iron Heel”; ricordando però che il primo libro è peronista, mentre il
secondo è marxista, e che tra giustizialismo e comunismo esistono precise
differenze ideologiche contemplanti un migliore equilibrio nel primo, a
differenza del secondo, durante il momento riservato all’azione politica4.
Delle cose dette da Evita nel “Mi mensaje” mi piace ricordare l’attacco «a las
jerarquías clericales» colpevoli di «haber abandonado a los pobres, a los
humildes, a los descamisados, a los enfermos, y haber preferido en cambio la
gloria y los honores de la oligarquía» e di aver fatto un uso oppressivo della
religione cattolica, quando all’opposto – non solo a di lei parere –
l’emancipazione popolare avrebbe avuto necessità di una “teologia della
liberazione” (che la Chiesa ha in passato respinta, preferendo la conservazione
di un indirizzo più conciliante con gli antimarxisti in generale ovunque, e gli
antiperonisti in particolare in Argentina). La vicinanza tra gli stati d’animo
e degli episodi di Avis Everhard ed Eva Perón, rispettivamente in “The Iron
Heel” e ne la “La razón de mi vida”, in occasione della comune di Chicago e nel
contesto dell’arresto del generale Perón nel ’45, colpiscono il lettore attento
che ha avuto la ventura di leggere entrambi questi libri. Avis: «Una strana
cosa mi accadde. Una trasformazione venne su di me. Il timore della morte, per
me e per gli altri, mi lasciò. Ero in strano modo eccitata, un altro essere in
un’altra vita. Non m’importava niente. La Causa per questa volta era persa, ma
la Causa rimaneva qui per il domani, la medesima Causa, sempre viva sempre
ardente. […] La morte non significava niente, la vita non significava niente.
[…] A vantaggio della mia mente ero balzata alla volta di una fredda stellare
altitudine e avevo afferrata una calma trasvalutazione dei valori
[transvalutation of values: un esplicito concetto nietzschiano; n.d.r.]. […]
Ero sopraffatta dalla moltitudine. Il limitato spazio veniva riempito con
grida, urla e imprecazioni. Colpi d’aria stavano cadendo su di me. Delle mani
stavano lacerando e strappando la mia carne e i vestiti. Sentivo che ero in
procinto di essere squartata. Ero sul punto di essere schiacciata, soffocata.
Qualche forte mano prese le mie spalle nel folto della mischia. Tra il dolore e
l’oppressione persi i sensi. […] Così ricevetti il mio battesimo rosso [red
baptism: un’allusione al battesimo di
sangue nella Chiesa; n.d.r.] in quella carneficina di Chicago. Prima di ciò,
la morte per me era stata una cosa teorica, però sempre in seguito essa è stata
un semplice fatto che non importa, essa è così facile». Evita: «Da quando Perón
andò via fino a che il popolo lo riconquistò per esso – e per me! – i miei
giorni furono giornate di dolore e di febbre. Mi misi in giro cercando gli
amici che potevano fare ancora qualcosa per lui. Fui così, di porta in porta.
In quel penoso incessante camminare sentivo ardere nel mio cuore la fiamma del
suo incendio che bruciava la mia assoluta piccolezza. Non mi sentii – lo dico
veramente – tanto piccola, tanto poca cosa come in quegli otto giorni
memorabili. Camminai per tutti i quartieri della gran città. Da allora conosco
tutto il campionario di cuori che battono sotto il cielo della mia Patria. A
mano a mano che continuavo a discendere dai quartieri orgogliosi e ricchi ai
poveri e umili le porte si andavano aprendo generosamente, con più cordialità.
In principio conobbi unicamente cuori freddi, calcolatori, “prudenti” cuori di
uomini comuni incapaci di pensare o di fare niente di straordinario, cuori il
cui contatto mi diede nausee, schifo e vergogna. Questa fu la cosa peggiore del
mio calvario attraverso la gran città! La vigliaccheria degli uomini che
poterono fare qualcosa e non lo fecero, lavandosi le mani come Pilato, mi fece
male più dei barbari pugni che mi diedero quando un gruppo di codardi mi
denunciò gridando: “Quella è Evita!”. Questi colpi, invece, mi fecero bene. A
ciascun colpo mi pareva di morire e tuttavia a ognuno mi sentivo rinascere.
Qualcosa di rude però al medesimo tempo ineffabile fu quel battesimo di dolore
che mi purificò di tutto il dubbio e di tutta la vigliaccheria. Forse non gli
avevo detto “… per quanto lontani è necessario andare nel sacrificio non
smetterò di stare al suo fianco, fino a svenire”? Da quel giorno penso che non
dev’essere molto difficile morire per una causa che si ama. O semplicemente:
morire per amore».
NOTE
Questo
scritto è un estratto del mio saggio “Socialismo e finzione letteraria in
Aleksandr Bogdanov e Jack London (2017)”
1 In riferimento
a tale complesso di tematiche invito a leggere nella mia opera “Critica dell’irrazionalismo occidentale
(2016)” la parte recante il titolo “Il gioco capitalista degli Elohiym
falsi e bugiardi”.
2 Invito a
leggere il mio studio intitolato “La Boétie: ipocrisia borghese o
marxismo-leninismo?” all’interno di “Danilo Caruso, Critica letteraria (2017)”.
3
Il
Decálogo de la ancianidad (1948) di
Evita, inserito nella Costituzione argentina del ’49, contempla: diritto
all’assistenza, alla casa, all’alimentazione, al vestito, alla cura della
salute fisica e morale, allo svago, al lavoro, alla tranquillità, al rispetto. Per
approfondire si veda il mio saggio “La morte delle ideologie (2011)” nella
sezione dal titolo “La Fondazione ‘Eva Perón’”.
4
Per
approfondimenti si veda nella mia monografia “La morte delle ideologie (2011)”
la sezione intitolata “Il giustizialismo peronista”.