di DANILO CARUSO
Non
sta scritto da nessuna parte, come del resto già pensato da Marcuse, che il
progresso tecnologico non debba affrancare gli esseri umani da una
individualmente continuata attività lavorativa. Se nei processi produttivi le
macchine sostituiscono l’uomo, ciò non dovrebbe avere l’effetto collaterale,
paradossale, di creare disagio sociale. Quando questo accade, la colpa non è
del miglioramento in sede di produzione (che solleva dalla fatica e dal
dispendio di tempo). La colpa risiede nel sistema di regole che presiede al
sistema produttivo, ossia nel sistema liberalcapitalista. È chiaro che
l’imprenditore “non sprecherà” risorse economiche verso manodopera laddove
possa “arricchirsi di più” inserendo nella sua attività strumenti tecnologici.
Il moderno capitalismo fa così dalla fine del ’700. Marx ha visto e analizzato
una situazione in via di sempre più marcata degenerazione: le due novecentesche
guerre mondiali non sono altro che una unica grande guerra intestina
capitalistica (Angloamericani e Germanici in lotta per un predominio globale).
Ma già dalla “Politica” di Aristotele si potevano, e si possono tuttora, trarre
moniti al fine di evitare, o di correggere nel nostro caso, un indirizzo di
cose che non risulta per niente buono. Se la tecnologia libera gli uomini dal
lavoro per la sopravvivenza in termini economici, questo non deve significare che
ci debba essere una massa di disoccupati, in aperto pericolo di vita, in
crescita. Non sta nell’impresa il fondamento della società umana, l’essere
umano non dipende dal capitalista (e da una possibile brama di ricchezza
maggiore). È lo Stato, come dice Aristotele, l’organismo comunitario più
elevato (e naturale, al contrario dell’iniziativa personale imprenditoriale e
del suo prendere corpo giuridico). Il filosofo greco ha messo in guardia da due
pericoli: l’accumulazione di ricchezze in poche mani e la diffusione della
povertà. Tutto dovrebbe stare all’interno di una sana gamma, la quale non
necessariamente escluderebbe l’attività dell’impresa privata come auspicato da
Marx. Che ci siano imprenditori, entro precisi limiti, è anche un bene e uno
sprone in generale: però che costoro prendano il posto dello Stato nella
gestione del destino dell’insieme sociale costituisce un male. Tutti reclamano
“lavoro”, trascurando in modo radicale che il loro obiettivo non dovrebbe
essere una forma di asservimento, bensì l’accesso a una dimensione di
“benessere”. Lo Stato sarebbe in maniera perfetta in grado di garantire il
“diritto/dovere social-lavorativo” a ciascuno (in condizione di svolgere una
mansione), e di garantire il sostentamento (anche perpetuo) degli impediti
involontariamente. Chi reclama “lavoro” in regime capitalista sembra abbia un
inconscio desiderio di ritornare alla schiavitù esplicita, dove vitto e
alloggio minimi erano garantiti giocoforza. Tale vuoto di riflessione presso la
massa (stordita, sviata, incantata dalle distrazioni mediatiche e sistemiche)
connota una situazione diffusa. Un formale sistema democratico dove votano
atomi divisi (et imperati), i quali non possiedono coscienza alcuna, in linea
di massima, del loro essere-in-comunità (Stato), dà alla fine ragione a
Malthus: chi si trova in disagio, rappresenta egli stesso la causa del suo
problema, non chi lo sfrutta in una democrazia (in apparenza) libera.
Un’assemblea legislativa dove le sensate idee di Aristotele trovassero una via
normativa darebbe rassicurazione a ciascuno. Se tutti lavorassero solo alcuni
mesi all’anno o poche ore al giorno, con un’equa distribuzione delle risorse (a
ognuno secondo i suoi bisogni, a ognuno secondo i suoi meriti), sostituiti ove
possibile da macchine, dove sarebbe il male? Nel fatto che il capitalista non
si arricchisce? Il male è questo: costui monopolizza la moneta, strumento di
scambi. Nel momento in cui lo Stato gli ponesse un limite, non limiterebbe la
libertà, giacché questo eccesso non è benefico nei riguardi della stragrande
maggioranza degli altri atomi sociali; porrebbe invece un freno a un danno
reiterato a scapito dei “cittadini”. Lo Stato per Aristotele deve garantire
benessere esistenziale, al fine di consentire a questi ultimi di realizzare
l’autentica propria natura: e per il filosofo greco “essere umani” indica
qualcosa che distingue dai livelli animale e vegetale. Tutti hanno diritto a
coltivare una dimensione intellettuale (si pensi al weiliano “diritto alla
bellezza”), poiché l’uomo non è una bestia asservita al lavoro (il quale ne
assorba molte energie per molto tempo). Allorché una migliorata produzione
industriale meccanizzata fornisse sostegno a una più che decorosa esistenza
comunitaria, perché non liberare tempo a beneficio della formazione scientifica
di più uomini: filosofi, medici, ingegneri, etc. per qual motivo non favorire
ad esempio l’incremento del numero dei medici e della ricerca medica? Più
persone, migliori prospettive di benessere e di cura, magari più ospedali in
funzione. È l’ignoranza che nuoce, rende servi. In luogo della richiesta di panem
et circenses, le oneste persone capaci possono contribuire a cambiare la
società.
NOTA
Per approfondire in generale la tematica e il mio pensiero suggerisco la lettura di questi miei scritti:
1) Lo specchio sporco del padrone
http://danilocaruso.blogspot.com/2016/06/lo-specchio-sporco-del-padrone.html
2) Radici sumere di Ebraismo e capitalismo
http://danilocaruso.blogspot.com/2017/11/radici-sumere-di-ebraismo-e-capitalismo.html
3) Critica dell’irrazionalismo occidentale
http://www.academia.edu/29344784/Critica_dell_irrazionalismo_occidentale