Nella giurisprudenza italiana in virtù della legge 248 del 18 agosto 2000 anche i testi pubblicati su internet godono della tutela del diritto d’autore già stabilito dalla precedente legge 633 del 22 aprile 1941. La loro riproduzione integrale o parziale è pertanto libera in presenza di scopi culturali e al di là di contesti di lucro, da questo lecito uso fuori del consenso dello scrittore si devono necessariamente poter evincere i seguenti dati: il link del testo, il titolo, l’autore e la data di pubblicazione; il link della homepage del suo contenitore web. Copiare non rispettando queste elementari norme rappresenta un illecito.

mercoledì 22 gennaio 2020

SPETTROGRAFIA DE “IL FU MATTIA PASCAL”

di DANILO CARUSO

“Il fu Mattia Pascal” uscito nel 1904 (in un primo momento a puntate sul periodico “Nuova Antologia”, e quindi in forma integrale grazie alla casa editrice Fratelli Treves) è una delle opere più famose della letteratura mondiale. Romanzo scritto da Luigi Pirandello (1867-1936; autore cui fu tributato il Premio Nobel nel ’34), il suo contenuto mostra una ricchezza di sfumature di pensiero non indifferenti. Alla mia lettura notai la vicinanza pirandelliana, non strana data la sua giovanile formazione di studio pure in Germania, a impostazioni della filosofia tedesca. La sensibilità creativa lo rende avvicinabile a posteriori all’esistenzialismo. In un brano egli rivela un’affinità con l’estetica di Kant rielaborando il concetto del “bello” in funzione esistenzialistica: «Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini chesso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nelloggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo dimmagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nelloggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, laccordo, larmonia che stabiliamo tra esso e noi, lanima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi». In un altro passaggio del testo anticipa una tematica heideggeriana (la polemica contro il finale controllo totalitario della tecnica sulla vita umana): «“Oh perché gli uomini,” domandavo a me stesso, smaniosamente, “si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà luomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente darricchire lumanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?” […] La scienza, pensavo, ha lillusione di render più facile e più comoda lesistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: “E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?”». Altre rilevazioni critiche corroborano le impressioni indicate sinora e le aprono alla volta di altri riferimenti. Il cambio di personaggio sociale nel corso della narrazione operato dal protagonista, da Mattia Pascal a Adriano Meis, evoca in maniera forte Edmond Dantes; sicché il primo, premiato da una buona sorte riparatrice, appare un distopico Conte di Montecristo nel pessimistico universo intellettuale di Pirandello. A simile ascendenza letteraria di forma si contrappone una precorritrice intuizione sostanziale abbozzata proprio nel cap. VIII: la costruzione di un nuovo passato personale di Mattia Pascal mi ha ricordato Philip Dick, e un suo racconto in particolare: “Ricordi in vendita”. L’essere sociale dell’uomo è un essere-nel-tempo giacché attraverso di esso transitano le informazioni e si sedimentano. L’identità personale che gli altri rilevano da noi proviene da un’esperienza temporale. Ma sia Dick che Pirandello demoliscono in interiore quanto sembrava un’acquisizione salda e immutabile, quella del passato. Ciò non relativizza tuttavia l’essere dell’Io, ma testimonia che il meccanismo fenomenico delle relazioni può realmente trasformarsi in distopia, e fare del mondo un carcere dell’anima. Non è un caso l’amara e iperbolica constatazione di Mattia all’inizio del cap. VII: «Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto – fors’anche meglio». Tratti del pessimismo di Leopardi e Schopenhauer compaiono nell’opera. Il protagonista, Mattia, scopre se stesso quale epifenomeno (sociale, ontologico) della “voluntas”, e perviene a una “noluntas” nel suo mutarsi nel “fu Mattia Pascal”: questa sua lucida tragica coscienza della sostanza del mondo dei fenomeni lo ha proiettato fuori del “fenomenico” nel mondo metafisico della vita radicale (libido freudiana = voluntas schopenhaueriana): «Il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?».
Ecco lo sfondo filosofico di una dinamica caratteristica delle creazioni pirandelliane: dove il reale visibile si tinge di male, e tutto ciò che appare “oltre” ha il sapore di via di fuga, di distopica felice isola d’esilio. Mattia Pascal non è un personaggio letterario estraneo alla gamma concettuale cui appartiene John “il selvaggio” dello huxleyano “Brave New World” (romanzo sopra il quale ho scritto un saggio1). Dalla lettura de “Il fu Mattia Pascal” mi è rimasta l’idea che il romanzo possa ascriversi pure al genere distopico. Mi ha colpito in Pirandello quella che ho definito nelle mie riflessioni una “dialettica ultranegativa”. Se Adorno apprezzava il “negativo razionale” hegeliano in vista di qualcosa che potesse giovare, Pirandello alla fine passa a un “ultranegativo distopico” il quale rende prigionieri i suoi personaggi nel mondo fenomenico. Voglio chiarire meglio queste tappe letterarie indicandone le “figurazioni”: momento tetico, Mattia Pascal (in sé); negativo razionale, Adriano Meis (fuori di sé); ultranegativo razionale (in sé e per tutti), fu Mattia Pascal. L’ultima fase rappresenta uno svuotamento, una sorta di “individuazione junghiana” distopica. A proposito di connotati distopici metto in evidenza due brani del romanzo. Il primo, evocante il clima sociopolitico dell’allora recente periodo crispino-umbertino, potrebbe evocare il tema del modello totalitario: «Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà». In relazione a questo seguente secondo passaggio, mi è balenata in mente la singolare somiglianza con delle scene del film su “Arancia meccanica”. Tant’è che tra me e me dicevo di quest’ultimo estratto: “arancia meccanica pirandelliana”: «Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio. Accenno a quest’avventura, non per farmi bello d’un atto di coraggio, ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei mascalzoni, ma avevo anch’io un buon bastone ferrato. E vero che due di essi mi s’avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte. Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e, piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di seta che portava sul seno, stracciato nella rissa». Infine non mi appare affatto fuor di luogo chiudere la mia analisi con un richiamo alla canonica categoria dell’“umorismo pirandelliano”, vale a dire ricordare quel “sentimento del contrario” il quale fa prendere consapevolezza dei limiti in cui le persone possono essere intrappolate apparendo grottesche nel loro cercarvi un rimedio: «Insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l’italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l’esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell’atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita.
– Adriano Mei, – diceva, come se tutt’a un tratto fossimo diventati amiconi.
– Adriano Tui, – mi veniva quasi di rispondergli».


NOTE

Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche