di
DANILO CARUSO
Drogo guardò ancora verso il
settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di
senso.
Dino Buzzati, “Il deserto dei Tartari”
La
copertina
del
libro ideata
da
Buzzati
|
Dino
Buzzati (1906-1972), scrittore poliedrico, pittore, è stato l’autore del famoso
e pregevole romanzo “Il deserto dei Tartari”: testo pubblicato dalla casa
editrice Rizzoli nel 1940 dietro suggerimento di Indro Montanelli (1909-2001);
in sede di stampa però, volendo allontanare qualsiasi forma di possibile
collegamento alla situazione politica internazionale contemporanea, fu pretesa
la modifica del titolo proposto (“La fortezza”). La vicenda raccontata trae
ispirazione dall’esperienza vissuta del suo creatore all’epoca in cui era un
giovane giornalista. Il protagonista dell’opera, Giovanni Drogo, desideroso di
abbandonare la monotonia del periodo di formazione giovanile, fantasticando una
futura prospettiva più piacevole, lascia la casa della madre al fine di
iniziare la sua vita da militare avviandosi a raggiungere la Fortezza Bastiani.
Lo scrittore fu condizionato dalla figura materna da cui si sentì lontano nella
sua storia personale (dalla scomparsa di lei indosserà solo cravatte nere). Durante
il suo tragitto Giovanni incrocia il capitano Ortiz, là di stanza. Fra i due si
apre un dialogo al termine del quale poi raggiungeranno la piazzaforte. Drogo
rimane deluso dalla sua destinazione: una zona isolata dal resto della comunità
e un fortilizio posto su un confine per niente frequentato data la sua infelice
conformazione morfologica, in pratica un presidio in mezzo a un reale deserto
di pietre e alture rocciose le quali impediscono la vista oltre. L’immagine
della montagna possiede in Buzzati, appassionato di alpinismo, contenuti
concettuali in comune con la poetessa Antonia Pozzi (entrambi furono sulle
Dolomiti): essa si manifesta come nella poesia pozziana quale simbolo
archetipico junghiano di una Grande Madre (negativa)1. Giovanni, la
cui volontà è quella di essere trasferito quanto prima altrove, riesce, in
deroga illecita alle disposizioni, a soddisfare un suo desiderio: lanciare uno
sguardo al Nord dalla cima delle mura della struttura militare, questa uno
spazio accessibile solo ai soldati assegnati di turno. Soddisfatta tale voglia
si recherà poi a dormire nel suo alloggio, ulteriormente contrariato dai disagi
ivi trovati. Il tenente Drogo, preso servizio presso la Fortezza Bastiani, ha
un singolare dialogo col sergente maggiore Tronk. La cosa lo disorienta al
punto tale di farlo pentire di aver acconsentito al maggiore Matti sulla sua
provvisoria permanenza in luogo di una richiesta di trasferimento immediato. Ne
“Il deserto dei Tartari” appare l’esistenzialistico tema dello scorrere del
tempo: un’inesorabile progressione in avanti il cui orizzonte rimane oscuro e
incerto nonostante l’umana vocazione a un approdo rassicurante. Al pari del
vincitore del Premio Nobel Salvatore Quasimodo (1901-1968), Buzzati ribadisce
il timore radicale: «Ognuno sta solo sul cuor della terra». Isolato e
prigioniero della gabbia temporale l’essere umano cammina verso l’ignoto
immerso nel turbamento. La Fortezza Bastiani rappresenta nel romanzo un simbolo
dell’esistenza umana nella forma della vita isolata, ossia votata all’introversione,
la quale si oppone all’estroversione simboleggiata nell’immagine della città.
Detto fortilizio raffigura nella sua dinamica un’allegoria esistenziale, dove
il deserto antistante costituisce la prospettiva della vita davanti. L’interna
esistenza del forte, vale a dire l’icona di un Io barricato nella garanzia
offerta dalle abitudini di comodità, offre la sicurezza nella ripetitività. Nonostante
la primordiale intenzione di essere trasferito, Giovanni Drogo sceglie di
rimanere in servizio nella roccaforte cui è stato assegnato: egli sceglie l’introversione
all’estroversione, ponendosi nella modalità dell’attesa; rinunzia a dare un
assalto alla vita aspettando che sia questa a eleggerlo a un grado superiore. «La
moda ha da essere il regolamento»: l’inesorabilità scaturente dalla
costituzione esistenziale improntata a regolarità ripetitiva non concede deroga
all’esercizio della libertà. L’applicazione meccanica, non riflettuta, di
schemi comportamentali, può sortire effetti controproducenti: questo il
significato dell’uccisione del soldato Lazzari, allontanatosi senza permesso e
rientrato senza conoscere la parola d’ordine per ottenere l’ingresso. Il
risultato di un’omologazione passiva alla vita e alle regole che disciplinano
il recinto di sicurezza dell’Io è ottenere la conseguenza, in termini figurati
narrativi, di sparare a vista su chiunque sia fuori della norma di riferimento.
Buzzati dipinge questo esito nella narrazione con gli inevitabili tratti del
grottesco, dove l’umanità profonda si smarrisce disintegrata dalla chiusura
nelle regole. Il falso allarme che colpisce la Fortezza Bastiani causato da
militari estranei, in realtà amici, e non nemici, intervenuti a beneficio di
operazioni di delimitazione dei confini, falso allarme che ha al centro protagonista
nel testo buzzatiano il colonnello Filimore, si ricopre interamente di tratti
pratici umoristici pirandelliani. Attraverso la morte ulteriore, improvvisa e
imprevista, del tenente Angustina lo scrittore veneto sottolinea il modo in cui
in una comune esistenza, appartata e tutto sommato anonima, priva di spunti di
eroismo (in senso lato), l’evento più significativo alla fine risulti apparire
la morte: è questa un’idea nel complesso heideggeriana, che fa della morte un
inveramento della vita a cui darebbe un senso nel momento in cui apre l’Io alla
Totalità.
Il
resto sarebbe varia anticamera all’annichilimento, tuttavia da viversi per
Heidegger non rinunziando a scegliere una ben specifica vocazione nell’esistenza
individuale. Una categoria heideggeriana che Buzzati rileva nella sua creazione
del romanzo è “il-mondo-della-vita”. E la connette a una dicotomia esistenziale
trasposta nella sua opera: “speranza/scelta” il colloquio tra il tenente Drogo
e il maggiore Ortiz dopo la scomparsa di Angustina ripropone queste due
dimensioni di relazionarsi all’esistenza (all’essere-nel-mondo, nel mondo-della-vita)
nelle forme simboliche buzzatiane: introversione e speranza nelle immagini del
fortilizio, una vita di attesa, statica, non attiva; estroversione e scelta
nell’altra imago della città, un’esistenza più intraprendente, dinamica, la
quale sfida la mediocrità dell’immobilismo attendista (producente la “noia”). Giovanni
Drogo dopo aver svolto quattro anni di servizio ottiene una licenza per tornare
a casa. Ma nel suo ambiente cittadino si sente ormai un pesce fuor d’acqua.
Tutti, anche la madre in famiglia, gli sembrano essersi velati di un distacco
umano dalla sua persona. Egli inoltre non riesce più a recuperare neanche lo
strato edonistico della vita. Ogni cosa gli appare rivestirsi di una
pirandelliana insensatezza. Neppure l’amica Maria riesce a promuovere il
recupero di un’autentica dimensione: ciascun atto si mostra inaridito e
distaccato, quasi fosse mera formalità esistenziale; un vuoto fra lui e gli
altri che è stato scavato dal tempo e dalla distanza. Giovanni non riesce ad
attuare quello che Heidegger definisce dis-allontanamento. In aggiunta, a causa
di questioni burocratiche, non gli è possibile richiedere un trasferimento
dalla Fortezza Bastiani: davanti a lui si prospetta il dilemma se abbandonare
per intero la carriera militare o rimanere un prigioniero sui generis narrativo
buzzatiano di quella monotona forma di vita già esperita. Il protagonista de “Il
deserto dei Tartari” rimane intrappolato nell’allegorica piazzaforte. Il
colloquio che ha, ritornato, col maggiore Ortiz indica al di là della
superficie scenica la rievocazione di un’altra categoria heideggeriana da parte
di Buzzati: la gettatezza, l’essere-gettati-nel-mondo. Nessuno decide a monte
della propria esistenza il suo trovarsi-nel-mondo, così come l’essere distaccato
alla Fortezza Bastiani emerge alla fine del romanzo una decisione superiore
inderogabile. Comunque ciò che è venuto a mancare a Drogo è stata la
volontà-di-scegliere, di modificare in maniera attiva la sua esistenza: «Il
colloquio col generale, giù in città, gli aveva lasciato poche speranze di
trasferimento e brillante carriera, ma Giovanni capiva pure di non poter
restare tutta la vita tra le mura della Fortezza. Presto o tardi qualche cosa
bisognava decidere. Poi le abitudini lo riprendevano nel solito ritmo e
Drogo non pensava più agli altri, ai compagni che erano fuggiti in tempo, ai
vecchi amici che diventavano ricchi e famosi, egli si consolava alla vista
degli ufficiali che vivevano come lui nel medesimo esilio, senza pensare che
essi potevano essere i deboli o i vinti, l’ultimo esempio da seguire. Di giorno
in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane,
appena venticinque anni. Quell’ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo».
L’essere-nel-tempo, heideggeriana connotazione del dasein (esserci, uomo),
consuma il soggetto a guisa della fiamma con una candela: «Drogo
sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria
giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano. Il tempo,
inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno
sull’altro i giorni. Bastava guardarsi attorno che già scendeva la notte, il
sole girava di sotto e ricompariva dall’altra parte a illuminare il mondo pieno
di neve. Gli altri, i compagni, sembravano non accorgersene. Facevano il solito
loro servizio senza entusiasmo, si rallegravano anzi quando sugli ordini del
giorno compariva il nome di un mese nuovo, quasi avessero fatto un guadagno.
Tanto di meno da passare alla Fortezza Bastiani, calcolavano. Essi avevano
dunque un loro punto di arrivo, mediocre o glorioso che fosse, di cui sapevano
accontentarsi. Lo stesso maggiore Ortiz, ch’era già sulla cinquantina, assisteva
apatico alla fuga delle settimane e dei mesi. Egli aveva ormai rinunciato alle
grandi speranze e “Ancora una decina d’anni” diceva “poi me ne vado in
pensione”. Sarebbe tornato alla sua casa, in una antica città di provincia –
spiegava – dove vivevano alcuni suoi parenti. Drogo lo guardava con simpatia,
senza riuscire a capirlo. Che cosa avrebbe fatto Ortiz, laggiù fra i borghesi,
senza più nessuno scopo, solo? “Ho saputo accontentarmi” diceva il maggiore
accorgendosi dei pensieri di Giovanni. “Anno per anno ho imparato a desiderare
sempre meno. Se mi andrà bene, tornerò a casa col grado di colonnello.” “E
dopo?” domandava Drogo. “E dopo basta” fece Ortiz con un sorriso rassegnato.
“Dopo aspetterò ancora... pago del dovere compiuto” conchiuse scherzosamente.
“Ma qui, alla Fortezza in questi dieci anni, non pensa che...” “Una guerra? Lei
pensa ancora a una guerra? Non ne abbiamo avuto abbastanza?”».
L’illusoria
aspettativa di un cambiamento, di un deus ex machina, continua ad accompagnare
nonostante frustranti delusioni la vita al forte di Giovanni Drogo, il quale
possiede della sua condizione esistenziale una perfetta consapevolezza: «Il
tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più
precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata
indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile.
Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve
aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche
si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume,
che pare lento ma non si ferma mai. Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare
questa misteriosa rovina, e invano cercava di trattenerla. Nella vita uniforme
della Fortezza gli mancavano punti di riferimento e le ore gli sfuggivano di
sotto prima che lui riuscisse a contarle. C’era poi la speranza segreta per cui
Drogo sperperava la migliore parte della vita. [...] Difficile è credere in una
cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel
tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene,
rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo,
nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli
altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca
la solitudine della vita». Il temuto pericolo dal Nord, d’altro canto auspicato
e sollecitato in cuore da ciascun militare della Fortezza Bastiani, sebbene
siano trascorsi numerosi anni non ha ancora luogo. Anzi l’inesorabilità del
tempo pone Drogo, ora capitano, a rivivere a parti invertite nel corso di un
episodio, in base a uno sconcertante rituale creato dal destino, il suo arrivo
alla fortificazione. Ormai l’apatica rassegnazione si è impadronita di lui, e
il fato ha voluto farsene beffa facendogli ripercorrere grottescamente il suo
primo giorno, quando avviatosi a prendere servizio, incontrò sul cammino l’allora
capitano Ortiz. Giovanni si scopre dunque divenuto un rottame esistenziale
formatosi nel tempo, tuttavia ancora imbevuto dell’illusione: «Assurdo,
refrattario agli anni, si conservava in lui, dall’epoca della giovinezza, quel
fondo presentimento di cose fatali, una oscura certezza che il buono della vita
fosse ancora da cominciare». E finalmente nel momento in cui arrivano i nemici
dal Nord egli è costretto, ammalato, ad allontanarsi dalla piazzaforte: «Il
tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo
mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini
appena nati, ancora sprovvisti di nome». Il protagonista buzzatiano perisce in
un esistenziale confronto con la propria morte a testa alta, confronto quale
esistenzialistico saliente evento personale: costituisce questo l’ultimo
argomento heideggeriano che il creatore del romanzo tocca, a testimonianza
della sua partecipazione a quel coro di inquietudine che caratterizzò la prima
metà del ’900, di cui fece parte ad esempio Camus (il quale negli anni ’50
riprese un’opera buzzatiana allo scopo di farla mettere in scena per il teatro
in Francia). Dino Buzzati fu in passato spesso ricondotto dalla critica a
categorie kafkiane, ma l’impressione scaturente da “Il deserto dei Tartari” è
che egli riprenda una radice pirandelliana, la quale per certi versi lo pone
nel campo di riflessione condiviso da Camus. Il vincitore del Premio Nobel
Luigi Pirandello, pittore anche lui, fu sensibile al pensiero tedesco2,
perciò niente di strano che il suo originale epigono di valore rifletta qui
l’esistenzialismo di Heidegger. La cultura francese del dopoguerra, imbevuta di
motivi esistenzialistici, non prese sottogamba la produzione buzzatiana. Nel
testo esaminato compare tra l’altro altresì un quid di foucaultiano ante
litteram nel concepire una struttura architettonica nella veste di strumento
oppressivo da parte del mondo dominante della tecnica, del potere.
NOTE
Questo scritto è un estratto del mio saggio “Note umanistiche (2020)”
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche
https://www.academia.edu/42022453/Note_umanistiche